Qualche mese fa questo spazio del Convegno SIL Ecopoetiche Ecopolitiche, poesia come cura del mondo doveva essere riservato a un dialogo che si sarebbe riferito alla traduzione italiana di Zong! Come narrato all’autrice da Setaey Adamu Boateng di Marlene NourbeSe Philip, cui avrebbero dovuto prendere parte la traduttrice italiana Renata Morresi e l’editrice Mariangela Guatteri. Poi questo spazio di dialogo sarebbe dovuto essere riservato alla poeta e critica letteraria Bianca Battilocchi, infine al mio fianco oggi ci sarebbe dovuta essere la poeta Lidia Riviello ma come vedete non c’è, né lei né le altre persone che ho nominate. Perciò vi parlerò in questi pochi minuti sostituitivi di quello che avrebbe potuto essere, di alcune suggestioni che mi hanno accompagnato in questi mesi.

La prima suggestione che vi vorrei offrire mi è arrivata da un recente intervento di Roberta Mazzanti nell’ambito dell’incontro che ha avuto luogo meno di un mese fa presso il Giardino dei ciliegi di Firenze intitolato Incontrarsi ai crocevia. Eredità plurali di Liana Borghi. Mazzanti parlando di uno degli innumerevoli aspetti della ricerca e delle pratiche di Liana Borghi definisce la poesia un disegnare la mappa dei fallimenti, inserendo questa definizione tuttavia  all’interno di un’investigazione fervidamente attiva e ambivalente (in termini di fiducia nel successo dell’impresa) in merito a quale sia il potere effettivo del linguaggio letterario nel suo descrivere, incidere, e cambiare la realtà. 

Questa focalizazzione così precisa e sintetica mi ha colpito proprio perché evidenziava a mio avviso un legame forte tra i lavori che in parte  questo convegno sulla poesia come cura, si è riproposto di fare e l’essenza per così dire poetica della pratica di Liana Borghi, per quel pochissimo che ho potuto conoscere in prima persona. 

L’altra madrina ideale che nominava Elvira Federici in apertura che ho richiamato dalle pagine di Leggendaria 151 in occasione di un articolo che si riferiva a questa nostra due giorni così attesa, è Lidia Curti che attraverso l’ultimo libro Femminismi futuri (su questo blog ne ho parlato qui ) a sua cura e a cura di Marina Vitale, ha profilato un prospetto vastissimo in cui afrofemminismo, politiche femministe decoloniali, miti e figurazioni future hanno saputo integrarsi perfettamente con quello che Curti indica come un confronto con l’alterita’ da praticare attraverso un’estetica del discontinuo, dell’interruzione, del disordine, dell’asimmetrico, come in poesia del resto.

Quale introduzione può essere  migliore a un incontro in cui si vuole parlare di ecofemminismo attraverso il linguaggio della poesia, in un momento storico cui voler essere comunque contemporanee senza sottrarsi alla nostra responsabilità di poete, di femministe, artiste, studiose senza ognuna di noi rinunciare alla propria agenda, come indicava Anna Maria Crispino ieri. Quale se non quella riflessione che richiama da un lato lo stare con tutto quello che anche i workshop di questo convegno hanno indagato in termini di cura: stare con il fallimento, la cura, la lingua madre e la lingua dell’altra, la ferita, ma anche con tutta la carica trasformativa e vitalistica di cui il linguaggio poetico è portatore.

Secondo una definizione abbastanza diffusa ormai  l’ecofemminismo riafferma il mondo nella sua complessità e nello stesso tempo propone un impegno e una sintonizzazione con un mondo originario, un mondo dinamico e ricco, proprio perché concepito, in una prospettiva anche storica  dentro  un continuum di relazioni tra umani nelle loro diversità e non umani portatori tra loro e a loro volta di diversità per niente scontate. E’ tramite questo modo per così dire ecologico che il linguaggio poetico parte alla volta di una indagine che si insinua all’interno dell’habitat. 

In questa definizione di habitat  si può trovare un orientamento volto a una  coabitazione dell’essere poeta e femminista dentro  un linguaggio/casa in cui l’ambivalenza si fa indagine plausibile  molto più che altrove. Così come nell’udire la definizione di poesia come mappa dei fallimenti, trovo molta più speranza che in ingannevoli  rassicurazioni di successo o di possibile e illusorio raggiungimento di un qualche obiettivo in termini di una definizione provvisoria ma accettabile della realtà che ci circonda.

Un certo modo politico di intendere l’ecopoesia  si misura  con il potere che il linguaggio letterario ha di  muovere da tutt’altra unità di misura stabilita. Quella della parola poetica ecologica  ha come unità di misura un elemento che segna la sua differenza  fondativa: l’ecosistema, come alcune e alcuni teorici dell’ecofemminismo hanno asserito. L’ecosistema è l’unità di misura della sopravvivenza come elemento che mette in relazione la percezione della nostra storia di umani, le pratiche,  parole, traduzioni resistenti  materialmente opponibili a qualsiasi potere e prevaricazione. La poesia dal canto suo segna, può segnare, un’estetica di quella misura che abbiamo chiamato ecosistema. 



Questo frammento di discorso contrae un debito importante con il pensiero di Nasrullah Mambrol e getta idealmente le basi di uno svolgimento più articolato in cui storia, poesia, ambiente, relazioni quotidiane tra individui e degli individui con la natura si articolano e vengono comunicati globalmente attraverso il così detto landscape of fear, il paesaggio della paura, teorizzato da Peter Turchin, termine che a sua volta Turchin prende in prestito dal mondo animale come strumento di analisi sociale (e poetico/narrativa per quello che mi riguarda) attraverso il significato ecologico e di conservazione della paura. Sono stata messa sull’avviso di questa lettura relativa alla paura e al fallimento storico per così dire della lucidità, anche da una delle newsletter di MEDUSA in cui citando Turchin relativamente alle conseguenze delle guerre e carestie del Basso Medioevo, si tentava di dare una lettura ecologica, anche delle conseguenze storiche, sociali e ambientali degli stati d’animo per così dire attanagliati dall’idea della morte e dal “concetto” di lutto.