La resistenza geniale

Quali sono quelle sfumature che con il silenzio portano i segreti a assumere la trasparenza della rimozione? Un segreto, a forza di essere mantenuto, rischia anche di sparire dall’orizzonte di chi l’ha concepito pur restando intessuto in filigrana come un agente atmosferico sospeso la cui elettricità è capace di condizionare in modo incontrollato gli elementi e i fattori climatici che l’atmosfera configurerà in seguito. 

Tengo un diario di lettura. Da molti anni. Alcuni anni l’ho tenuto su carta, altri sul telefonino poi sono passata all’Ipad per tornare infine su fogli volanti a quadretti con i buchi da inserire in raccoglitori preferibilmente arancioni o al massimo azzurro nazionale. Lo tengo, questo diario, da quando ho letto il primo libro che mi ‘ha cambiato la vita’. Almeno così me lo sono raccontato sul diario, questo libro, in una specie di delirio adolescenziale, in quanto poi di libri che mi avrebbero scatenato l’euforia descrittiva della lettrice in erba,  per fortuna c’è ne sono stati molti. Per tanti anni sono stata fieramente una lettrice e basta, e l’ho documentato, perché scrivevo poesia e questo per me era un’altra cosa dall’essere una scrittrice. 

Sono in possesso quindi di vagonate di appunti, domande, pensieri che quando poi i libri li ho iniziati a leggere con uno scopo preciso, in quanto mi serviva di leggerli per scrivere a mia volta, questi materiali sono diventate pagine in grado di raccontare su me e su ciò che vivevo in quei periodi, molto più di quello che immaginassi allora trascrivendo citazioni e chiosandole a me stessa.

Non so se vi è mai capitato prendendo in mano un libro che avete in casa da tanto tempo e che avete letto e amato in passato, di ricordare alcuni pensieri e alcuni episodi della vostra vita che scandivano il periodo della lettura di quel libro, come se fossero stati assorbiti nel testo, mutando insieme, quella storia e la vostra in modo che nessuna delle due per voi esista più in mancanza dell’altra. 

Uno dei molti libri con il quale mi è capitata questa eventualità è La resistenza perfetta di Giovanni De Luna che ho incrociato in un periodo in cui il ragionamento sul trauma di genere, epocale e collettivo, individuale e privato mi dava non poco filo da torcere dato che lo volevo rielaborare in una dialettica abbastanza credibile da essere riportata per iscritto. 

Giovanni De Luna scrive: “l’8 settembre 1943, appare come uno di quegli eventi storici che non si lasciano imprigionare in un’interpretazione esclusivamente politica, attraversati come sono da emozioni di massa in grado di lasciare affiorare nitidamente le pulsioni più oscure e gli slanci più profondi sedimentati alla base dell’esistenza collettiva di un popolo (…) Dissoltasi la crosta delle istituzioni, fu come se fosse saltato il tappo di roccia di un vulcano a lungo spento; nel magma che prese a fluire liberamente c’era di tutto, meschinità e generosità, grettezza individualistica e protagonismo collettivo, con una varietà di comportamenti che rinviava a tanti frammenti di appartenenze, segmenti di identità sociali, generazionali, professionali, territoriali. All’interno di quella nebulosa sociale che va sotto il termine riassuntivo di ceto medio, ad esempio, a prevalere fu una complessiva dimensione di precarietà esistenziale, di intollerabile, angosciosa convivenza con la morte.”

Allora mi venne in mente e lo appuntai che anche Elena Ferrante usa l’immagine del magma incandescente che scorre sotto il vulcano riferendosi alla tecnica di scrittura utilizzata per redigere la saga de L’amica geniale. Un’apparente calma che contiene a stento le più tremende fatalità. Un trauma e la sua rimozione significano il profilarsi all’orizzonte di una nube piroclastica, un’incontenibile fuoriuscita immersa nei fumi, per cui ogni forma di contenimento e ogni tentativo di orientamento hanno solo l’effetto di dimostrare l’inconsistenza dell’operato umano di fronte alla catastrofe.

Degli stessi anni, in uno di quei libri che segnano, Rossana Rossanda scriveva: “Oggi sappiamo che nel 1943 la guerra si poteva dire vinta, ma allora no. E che cosa avrebbe cambiato saperlo in quell’ottobre 1943? Radio e giornali rimandavano frammenti bugiardi, ce ne avevano dette di troppe, ci eravamo lasciati colpevolmente ingannare, e adesso neanche alla voce ottimista del colonnello Stevens eravamo disposti a credere senz’altro (…) Che roba è avere quindici anni nel 1939 e ventuno nel 1945?”                             

E io di seguito a questa citazione, parafrasando la mia maestra, scrivevo sul quaderno, rigirandomi in testa le parole trauma e rimozione che l’identità si lega alla memoria ma anche allo sforzo di ammettere nel quadro della propria memoria quegli elementi fastidiosi, ambigui, dimenticati perché rispetto a altri sono a volte quelli i responsabili di una svolta che potrebbe averci condotto dove non volevamo.  Ne L’amica geniale Lenuccia nonostante si sia impegnata per acquisire strumenti per la propria indipendenza di giudizio, sceglie inizialmente la scorciatoia del buon matrimonio.  Elena Greco è un personaggio di un realismo schiacciante ma della cui identità noi non sapremo mai perché è il risultato sul piano narrativo della labilità del confine tra due intendimenti esistenziali, quello che cerca strumenti per la propria indipendenza e quello che aderisce alle pratiche condivise, per quanto nuove, per quanto rivoluzionarie. Due orientamenti che nell’imbuto di anni ritratti da L’amica geniale, abbiamo visto diventare l’unica strada.        

“Per le ragazze del 1945” scrive Rossanda “la scelta fu il ritorno al modello familiare o l’abitudine a vivere divise in due fra groviglio interno e mondo di fuori. Non fra ragione e sentimenti – le passioni non appartengono ai soli sentimenti – ma fra vivere da donna e da persona. L’unità appartiene al femminismo, se pur c’è riuscito, perché occorre divincolarsi da radici secolari tentatrici e seduttive, riformularsi.”     

Un altro aspetto de L’Amica geniale da cui deriva in parte quell’effetto di immediata intensità che cattura lettrici e lettori, ci perviene dalle due vite di Lila e Lenuccia. Si tratta di due riepilogazioni biografiche magniloquenti che comunicano un sentimento del presente a posteriori che risulta inevitabilmente iperinclusivo. Il punto di partenza, quegli anni Cinquanta in cui le cose, dopo lo shock delle guerre e il disfacimento di un ordine imposto, avrebbero potuto prendere un corso che in linea teorica doveva concorrere alla precisazione di una futura identità nazionale dell’allora neonata Repubblica italiana.          

“Gli uomini in genere non amano le deduzioni euclidee, l’evidenza ci turba, sconvolge le nostre complesse architetture ideologiche. L’evidenza ci appare banale, al di sotto della soglia della nostra intelligenza mentre, al contrario essa è straordinariamente al di sopra. Fossimo stati capaci allora, voglio dire agli inizi degli anni Cinquanta, di aderire come un foglio di carta su un muro levigato alla “banalità” di ciò che accadeva sotto i nostri occhi! La banalità delle cose ci avrebbe repentinamente illuminato.” Quindi per Ermanno Rea, idolo dei miei vent’anni, è saper stare nella banalità del quotidiano più che il mondo delle idee, a salvarci. Chiudo il quaderno prima che mi inghiotta definitivamente. Dopo un dicembre molto piovoso, la prima metà di gennaio ha fatto freddo. Dopo tanti anni la magnolia stellata fiorisce per tempo e al mandorlo manca pochissimo. Nonostante il covid questo sembra essere il primo inverno normale dopo molti aridi e stranamente caldi. Passo e chiudo.

Libri citati in questo articolo

G. De Luna, La resistenza perfetta, Feltrinelli, 2015 p.35

R. Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Einaudi, 2007, p. 79-80 e 109-110

E. Rea Mistero Napoletano, Einaudi, Torino, 1995, p. 29

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