“cosa facciamo nel presente, ma, soprattutto, quanto oltre si può andare nel ricostruire il passato di una nazione, di una comunità, per avvicinare un futuro che sembra impensabile” Femminismi futuri, Iacobelli editrice
Da lettrice accanita in questa fase 3 così satura di incognite sono ricorsa ancora di più ai libri. Così ho trovato particolarmente interessante e per certi versi confortante, incrociare la lettura di due testi che nella loro connessione, amplificano l’attualità di alcuni temi a partire da un’analogia vitalistica relativa all’esigenza di pensare a un modo di narrare storie più confacente agli orizzonti complessi che si vanno delineando.
Pensare, pensare dobbiamo, prescrive Donna Haraway l’autrice di uno dei due libri di cui sto parlando. Not Nero Edizioni nel settembre 2019 pubblica in Italia Chtulucene, sopravvivere su un pianeta infetto traduttrici Claudia Durastanti e Clara Ciccioni. Un libro fondamentale, da leggere ora più che mai ma la cui lettura va preceduta o accompagnata a mio avviso necessariamente da Femminismi futuri. Teorie, pratiche e fabulazioni, edito da Iacobelli nel 2019 a cura di Lidia Curti con Antonia Anna Ferrante e Marina Vitale.

Dalle avvincenti complessità che nascono dall’incrocio di queste due letture mi piacerebbe sviluppare un discorso più ampio tuttavia al momento mi limiterò alla descrizione di un evento importante che in parte mi ha aiutata a comprendere meglio alcuni dei molteplici risvolti di qualcosa di cui sarebbe respons-abile (utilizzo una delle traduzioni possibili di una parola inventata da Haraway) da parte di ciascuna/o essere informate/i.
Il salone internazionale del libro di Torino 2020 quest’anno in versione Extra ossia in versione distanza sociale, ha ospitato un intervento a distanza di Donna Haraway che con un’intervista rilasciata a una delle sue traduttrici Claudia Durastanti e a Loredana Lipperini illustra i contenuti di Chthulucene pubblicato negli Stati Uniti nel 2016 con il titolo Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene. Il libro è risultato una delle letture più popolari in Italia durante la fase del lockdown ed è definito, a volte, come la svolta ecologista dell’autrice di Manifesto cyborg.
Nell’intervista Haraway innesta i contenuti di Chtulucene alla realtà odierna della pandemia, stimolando ancora una volta in chi ascolta e legge Haraway la necessità di un ribaltamento del pensiero su cui poggiano i capisaldi del nostro presente biologico e culturale di individui. Infatti dalla preziosa intervista si evince veracemente la capacità di Haraway di stimolare una revisione dei fondamentali di una logica della sopravvivenza da lungo tempo nutrita da automatismi culturali, pratiche e sistemi spesso inconsapevoli e inevitabili per chi li subisce, e ormai in tutta evidenza da intendersi dannosi.
Come praticare davvero la possibilità di incontrare qualcosa che non siamo noi stessi nell’approccio con il mondo al di fuori del nostro pensiero? Come praticare un intendimento di solidarietà inter-specie per fare in modo che l’eccezionalismo umano esca fuori dal quadro generale e non si presenti come fenomeno sempiternamente prevalente? Come non consentire più a questa prevalenza di eclissare la totalità dell’orizzonte, da qualsiasi prospettiva lo si stia guardando? Come stare a contatto con il problema costituito da un mondo tanto artificiale quanto ereditato sia in termini biologici che culturali, il quale mai come in questo momento mostra limiti a ogni prospettiva futura di fattibilità?
Nell’intervista tra l’altro Haraway illustra in modo diretto una solidarietà non concettuale del vivere insieme all’altro-che-non-è-umano (inteso come animali/ambiente/natura) che va molto oltre una visione semplicistica dell’ecosostenibilità: “riguardo al virus c’è tutto un approccio orientato al nemico invece di dire: aspettiamo un attimo, questo è un segno e forse non soltanto un segno di ecologie socio naturali completamente sballate, il nostro modo di stare con la multispecie è sballato”.
L’altro punto fondamentale sollevato da Haraway è il tema della giustizia riproduttiva come di assoluta pertinenza al discorso femminista declinato nel motto spiazzante e controverso: “generate parentele e non bambini”. Nell’intervento al Salone il significato di questo motto è spiegato da colei che lo ha elaborato in termini speculativi, con una limpidezza inarrivabile. Di qui si definisce come necessaria la precisazione dell’autrice rispetto al passaggio simbolico dall’apertura del Manifesto Cyborg come testo non solo femminista, all’approdo e poi all’illustrazione attraverso Chtulucene di una pratica eco-femminista del tutto contemporanea e liberata dai fraintendimenti e dalle critiche mosse all’autrice in passato e nel presente.
A questo proposito trascrivo letteralmente un aneddoto significativo tratto dall’intervento di Haraway al Salone in merito alle differenze tra femminismi, e quanto, questa insistente intransigenza rispetto alla differenza costituita dall’altra, possa essere stata nociva e controproducente per tutte in termini relazionali, intellettuali e speculativi. Trovo particolarmente significativa la lettura di questo brano ora che il pensare insieme, il pensiero (intra)specie, (intra)specifico, dentro e fuori il genere e i generi è più o meno riconosciuto, non soltanto grazie a Haraway, come un aspetto necessario per stabilire un contatto con la problematicità del presente a prescindere da ogni altra considerazione specifica.
“Ero in contatto con le femministe marxiste italiane della sinistra italiana che si occupavano del lavoro, ricevevo notizie dalle femministe tedesche. Non conosco abbastanza i nostri reciproci movimenti, forse è questo. Credo anche che ci siano straordinarie differenze. Per esempio molte amiche femministe europee, nutrivano un disprezzo per l’eco-femminismo, come se l’eco-femminismo fosse un movimento retrogrado, naturalista fatto da donne che venerano la dea. Se fossi una persona religiosa adorerei una dea. Come se l’eco-femminismo fosse una cosa semplicistica e non lo è mai stato. È sempre stato un movimento ricco e complesso. Credo che per alcune femministe europee è stato difficile comprenderlo, almeno tra le persone delle mie cerchie. Ricordo di aver tenuto una lecture a Firenze. Un gruppo di femministe romane ha preso il treno per venirmi a sentire. Era un periodo in cui stavo lavorando a The companion species manifesto [ndr :Dogs, People, and Significant Otherness poi edito da University of Chicago Press nel 2003] in cui parlavo di cani. Le femministe romane amavano il Manifesto cyborg, quello era il vero marxismo femminista, teoricamente robusto, un pensiero strutturato che io avevo completamente distrutto buttandomi su un pensiero naturalista tra le nuvole e fissato con i cani: potevo essere considerata ancora femminista? Non c’era niente nei cani a cui le femministe potessero essere interessate. Erano molto accigliate, molto sofisticate, io mi sono sempre sentita in soggezione tra le femministe romane, erano vestite sempre molto meglio di me, avevano un aspetto molto sofisticato erano in grado di parlare della teoria in modi in cui io non sono mai stata capace, ero spaventata a morte da queste femministe romane, che erano venute a posta a sentirmi e erano molto molto turbate da una femminista americana in comunione con la natura che ama le dee e porta a spasso i cani. Esagero ma sto esagerando solo un po’, più che un ritardo direi che c’era una distanza. Vivevamo nello stesso periodo di tempo ma c’erano fortissime differenze di stile, nell’uso delle metafore, nei modi di pensiero, nell’imparare ad ascoltarci a vicenda. La verità è che avevamo paura l’una dell’altra. Io so che ne avevo di loro. Loro erano sulla difensiva rispetto a me. C’è voluto tempo e un po’ di senso dell’umorismo per imparare i reciproci femminismi senza essere giudicanti.”
Il pensiero di Donna Haraway in Chtulucene liberandosi da molti legacci ideologici, è una specie di grèdiente che in poesia illustrerebbe ciò che è necessario sottacere in termini di metodo, là dove il metodo si legasse a una procedura e non al contatto con lo stato delle cose e alla percezione della loro instabilità nella possibilità di essere riferite. Per questo trovo fondamentale al fine di colmare quel gap di conoscenza/convivenza intraspecifica cui Haraway si riferisce, un libro come Femminismi futuri. Il libro consiste in una raccolta di saggi di Silvana Carotenuto, Roberta Colavecchio, Lidia Curti, Alessandra Ferlito, Antonia Anna Ferrante, Anna Greenspan, Suzanne Livingston, Luciana Parisi, Stamatia Portanova, Olga Solombrino, Tiziana Terranova, Marina Vitale, nell’introduzione una delle curatrici, Lidia Curti, scrive: “L’apertura a nuovi orizzonti analitici ed epistemologici arricchisce l’ambito politico e filosofico di un insieme di differenze molteplici e non di istanze singole e separate nella lotta alle disparità sociali. L’intersezionalità, termine coniato dalla giurista africana americana Kimberlé Cranshaw all’inizio degli anni Ottanta e ripresa da Angela Davis in tutta la sua opera e militanza, era stata ancor prima sottolineata da bell hooks e Audre Lorde, che avevano descritto il nodo complesso tra diverse identità e oppressioni. Il recente Manifesto Xenofemminista (Laboria Cuboniks, 2016) ricorda che l’attuazione dell’intersezionalità è una modifica dell’universale che non può essere imposta dall’alto ma costruita dal basso, seguendo itinerari laterali e talvolta disagevoli”. Femminismi futuri è di particolare interesse anche perché il riferimento alla fiction e alla produzione artistica informata di un approccio al reale suggerito da pensatrici come Haraway, ma non solo da Haraway, schiude scenari formidabili per tutti i generi e le scritture contemporanee. Il testo nasce dal lavoro di un gruppo di lettura e di ricerca nell’ambito del Centro di studi postcoloniali e di genere dell’Università Orientale di Napoli, che ha affrontato testi teorici e critici del femminismo recente, dal cyber- e xeno-femminismo alla nuova ecologia di Donna Haraway. L’indagine parte dalle svolte antropologiche e biologiche degli ultimi decenni. L’analisi dei testi riguarda perciò romanzi fantastici e di fantascienza speculativa femminile: Joanna Russ e Angela Carter, Ursula Le Guin, Octavia Butler e Nnedi Okorafor, fino all’arte afrofemminista. Bellissimo tra gli altri saggi bellissimi La scrittura vegetariana di Han Kang di Silvana Carotenuto. Insisto: sono assolutamente da leggere sia il libro di Han Kang La vegetariana sia ciò che mirabilmente ne scrive Silvana Carotenuto.

Peraltro domenica 14 giugno alle 19 avrò il piacere di introdurre Femminismi futuri nell’ambito di un ciclo di incontri “Un aperitivo con libro” organizzato da Anna Maria Curci, Cristina Polli e Patrizia Sardisco sulla piattaforma Zoom (info per partecipare annamaria.curci@tiscali.it ).
Il mio lavoro sui due libri continua saturo di svolte e rimandi pressoché infiniti tanto da chiedermi se riuscirò a concretizzarlo in una scrittura terza. Ma questo importa di meno, ciò che conta, sia detto in termini soggettivi e personali, è aver rinvenuto le coordinate e di stare assistendo all’emersione, di un’intersezione di linguaggi non nuovi né futuri perché la scrittura e il pensiero delle donne li portano da sempre strutturalmente incisi nelle modalità di orientamento che richiede il presente per essere letto e il futuro per essere concepito. Non per niente quella che venne chiamata, fraintendendola, la svolta animalista e ecologista dell’ultima Ortese, salvo felici eccezioni, non venne mai considerata nella prospettiva di un esorbitante anticipo che la scrittura di quella grandissima autrice italiana aveva già iniziato a delineare in termini di lettura storico politica della società del suo paese con Il mare non bagna Napoli. I tempi non erano maturi, fenomeni storici e politici forti del loro eccezionalismo umano e centralità mai avrebbero considerato un’interlocuzione che sollevandosi e prendendo la parola dal margine non mentiva se stessa, riguardo l’origine e il valore della propria marginalità. Del resto una donna che scrive è una bestia che parla, sosteneva molto tempo fa Anna Maria Ortese.