Qualche tempo fa dei gentiluomini mi hanno chiesto una breve prosa sul nomadismo. Pensandoci un po’ ne è venuto un piccolo racconto sulla genealogia del mio giardino cui di tanto in tanto mi viene da aggiungere un paragrafo anche se quel brano commissionato è arrivato a destinazione già da tempo.
Il mio giardino come i miei cani e dopo i miei figli, incarna un assoluto per me, un amore intenso e reale di cui non smetterei mai di parlare e di scrivere. Ad esempio, ora il giardino nel pieno dell’estate riserva delle sorprese floreali ancora più interessanti di quelle primaverili. Maria Zambrano in un brano crudele e bellissimo intitolato Il dio dell’estate parla del fuoco divoratore che nelle mani dei piromani insiste sull’ineluttabilità del lutto che la fine dell’estate rappresenta. Certo d’estate le fioriture non te le aspetti troppo fresche e intense come quelle che produce la temperatura primaverile, esprimendo il ritorno inarrestabile della vita. Tanto meno te le aspetti da una pianta piena di spine i cui fiori che possono essere tantissimi, a volte fino a ricoprirla quasi completamente, bilanciano l’aspetto respingente del fusto spinoso che la caratterizza durante il resto dell’anno. Il nome della pianta che fiorisce con un fiore così minuzioso da far pensare all’altissima risoluzione necessaria ai visual designer, è di derivazione greca: “nòtos” significa meridionale. Neanche mi ricordo quando fu piantata nella parte più aspra del mio giardino dove ad agosto la canicola non dà tregua dal mattino fino al tramonto. C’è da sempre e fiorisce quando più quando meno, tutte le estati malgrado negli anni si sia mantenuta piccolina ma tenace.

Il Notocactus Magnificus è una pianta grassa comune che sta bene in un interno ma dà il meglio di sé all’aperto. Il suo soprannome pure a un che di enfatico, Parodia Magnifica. Questa mia ha una tinta che nella tavolozza di un pittore rinascimentale si chiamerebbe Giallorino. La Parodia ha origine nell’America del Sud, in particolare in Brasile e mi ricorda che tanto tempo fa quando il colore per dipingere e tingere le stoffe non era ancora chimico, bisognava ricavarlo dal mondo minerale, ossia dalla terra, dal mondo animale e dal mondo vegetale per quello che se ne avesse a portata di mano. Il colore, perciò, incarnava la qualità endemica e la provenienza di un artefatto o di un prodotto naturale di cui definiva anche un senso e una preziosità che oggi appare desueta se non incomprensibile. Era il colore che manifestava con tutto il suo essere visibile la qualità di un luogo e un tempo irripetibili di cui, andava da sé che come volevano gli antichi romani, portasse anche il nome come fosse un destino.
