Bisogna sempre chiederselo perché scriviamo. Da Joan Didion a Elena Ferrante solo per dirne due, la presunzione, ovvero l’assertività che ci vuole per mettersi a inventare storie affinché qualcuno abbia voglia di leggerle, è certa anzi e è confessata come una colpa. L’ha scritto in più occasioni Ferrante sottolineando che forse non è il punto se un libro faccia letteratura o si rivolga al mercato come un prodotto. È semplicemente che si devono usare tutti i mezzi a nostra disposizione per dare a chi legge il piacere di credere che il mondo somigli davvero a quello che l’autrice si è inventata per sedurlo. L’evidente verve seduttiva nel caso della scrittura di Didion e Ferrante però non c’entra niente con la teoria letteraria, con le scuole di scrittura e di sceneggiatura e con le master class di filosofia e di traduzione. E neanche con i selfie.

Didion poi dice più o meno così in un saggio intitolato Perché scrivo: se avesse saputo usare il pensiero secondo le regole, e non le immagini più periferiche che le venivano in mente come le uniche che le potessero dare il coraggio di inventare una storia che prima non esisteva, non sarebbe stata una scrittrice. Ferrante ne I margini e il dettato dice che scrivere è puro tentare la sorte e che una scrittura è vera quando chi scrive non sa in anticipo dove andrà a parare. Non per niente una parte della poetica di Ferrante si gioca sul baratro che si schiude tra le idee professate e la loro disfatta quando diventano relazioni tra persone.

Da quest’ottica sembra avere più chance di scrivere qualcosa che somigli alla verità chi brancola nella fisica dell’esistenza con qualche presunzione di voler comunque farne un racconto. Sono d’accordo che sia un desiderio più vero quello di scrivere qualcosa inciampando su un comodino in una notte senza luna piuttosto che elettrificando i confini di una stanza tutta per sé. Pensate se Virginia Woolf non ci avesse costrette a credere da prestissimo che la disparità parte dalle mura che ospitano tutte le relazioni, nessuna esclusa, molto prima di tutte le speculazioni sulle disuguaglianze e le differenze di genere. Per non parlare di quanto c’è da sentirsi grate che due grandi autrici come Didion e Ferrante abbiano sempre difeso la scelta di usare la sintassi a orecchio e l’immaginazione con la presunzione di farci credere in un mondo inventato ma più riconoscibile di quello reale proprio perché fa a cazzotti dalla prima all’ultima parola con il mondo delle idee. 

Una volta confesso che anche io subivo il fascino delle teorie. Avevo incontrato i femminismi e questi mi avevano insegnato una cosa che non ho mai dimenticato e in cui credo ancora: essere una scrittrice è molto diverso dall’essere uno scrittore. Questa diversità, senza andare troppo a disturbare la filosofia, è una evidenza di una portata storica e sociale esorbitante. Un genocidio quello di tutte le scrittrici mai nate per non essere state presuntuose abbastanza da immaginarsi nell’atto di scrivere quando tutto remava contro. A quell’epoca della mia vita in cui ancora credevo nell’autorevolezza di chi fa teoria, leggendo, mi capitò di trovare un saggio introduttivo a un grande romanzo di un altrettanto grande narratore italiano del Novecento. In quel testo un prefatore diceva che bisogna chiedersi sempre come e perché adottiamo la parola scritta. Da allora non è passato un giorno senza che non mi sia chiesta quel perché. Quel prefatore continuava dando la sua risposta: la dobbiamo adottare come produzione di un’opera che possa dirsi letteraria. Mi figuro la stessa persona oggi, a distanza di anni, rispondere aprendo malinconicamente le braccia: la parola scritta adesso dobbiamo adottarla come produzione di un’opera che possa dirsi di consumo.

Quindi perché bisogna scrivere romanzi senza troppo preoccuparsi del confine tra letteratura e consumo? E neanche dei trends al cui bacino di followers si possa attingere per rassicurare editori titubanti. Magari soltanto perché hai voglia di variare schemi e immagini che liberino più facilmente quel residuo chiamato poesia. Sempre Woolf proprio in Una stanza tutta per sé scriveva che si scoprono strani mostri leggendo prima gli storici e poi i poeti ma che questi mostri per quanto sia divertente immaginarseli, nella realtà non esistono. Per far vivere la scrittura bisogna pensare poeticamente e prosaicamente allo stesso tempo, senza perdere mai il contatto con la realtà. Grazie Virginia Woolf. Alla teoria manca spesso la terra sotto i piedi? La letteratura non si vende? I romanzi di consumo sono più chiacchierati che letti sul serio? Presuntuose ecco cosa bisogna essere. Così presuntuose da essere ancora più convinte nello scrivere i romanzi che abbiamo in mente specie quando le relazioni che sempre si trasformano in vita e scrittura, a volte si rivelano tanto scontate da accontentarsi di essere convenienti.