Una cosa che mi piace davvero tanto quando mi trovo in un posto che non è il mio giardino, è andare nella prima libreria che mi capita e comprarmi un libro. Solitamente faccio così, mi aggiro cercando il titolo che vagamente ho sempre pensato che prima o poi mi sarei dovuta comprare, compro tutt’altro libro, e lascio lo scontrino tra le pagine, così mi ricordo giorno ora e luogo di quell’acquisto. Poi in una stanza non mia, sul treno, in aereo, in autobus inizio a leggere e quel libro diventa parte del posto in cui sono stata. Una volta che mi trovavo a Pisa per vedere Keith Haring al Palazzo blu sulla scia di quell’ebrezza ho addirittura fatto la follia di comprarmi in un solo colpo tre libri di Carlo Ginsburg, dilapidando le mie finanze e tirandomi a presso, fino all’ora del treno tutto quel peso. Qualche giorno fa mi trovavo felicemente a Milano con mia figlia per il Marrageddon . Arrivate in stazione centrale con un paio d’ore d’anticipo (in piena settimana della moda con i trasporti non si sa mai anche a Milano, dicono) ci siamo tuffate nella meravigliosa Feltrinelli della stazione. Tre piani di libreria in cui finalmente mi sono comprata un romanzo di Joan Didion che stava in fondo alla lista dei libri di Didion che prima o poi mi sarei dovuta comprare. Questo perché Didion è un’altra di quelle autrici che se vuoi imparare qualcosa sulla scrittura, te la devi leggere da cima a fondo. Blue Nights avevo deciso che sarebbe stato il prossimo libro che avrei preso e invece a Milano ho comprato Prendila così.

In piedi con lo zaino che mi pesava sulla spalla e la borsa a tracolla mi sono accorta subito che Prendila così ha un ritmo riconoscibile e ricorrente che appartiene alla poetica di Didion proprio perché fa parte in modo struggente della sua storia personale, e della sua origine come donna e come scrittrice. Per quanto la protagonista Ma-ra-ia, e non Maria, sia una donna completamente diversa dall’autrice che l’ha inventata. Ma-ra-ia è cresciuta a Silver Wells un posto sperduto, vinto al gioco da suo padre ma che ora non esiste più, dove sua madre dopo un incidente d’auto è stata mangiata dagli animali selvatici prima che fosse ritrovata. Molto carina Ma-ra-ia sembra che sia inevitabile che tenti la fortuna a Hollywood come attrice. Si sposa con un regista violento, mette al mondo una figlia malata. Fa un paio di film che guardano in pochi. Ma-ra-ia o Didion, questo non è chiaro, ci descrive un aborto clandestino holliwoodiano che la protagonista subisce in un modo che se leggete il libro non dimenticherete. Ma-ra-ia viene arrestata per furto d’auto e detenzione di stupefacenti. Nulla che c’entri con la biografia di Didion se non che Ma-ra-ia beve Coca-Cola sempre, anche per colazione, come Didion ha fatto per una vita. E per sopportare il modo in cui la tratta il mondo si chiude in un dolore tutto femminile che sembra una sorta di pensiero unico. Che sembra tanto una stanza sprangata, quanto una realtà verissima.

A un certo punto della notte si era trasferita in un mondo di sofferenza tutto femminile, e non aveva nulla da dire a Carter. p 51

Quando non ne può più di quella prigione Ma-ra-ia si mette in macchina e vaga senza meta per le autostrade tra Los Angeles, il deserto e Las Vegas. Come la leggenda Didion vuole che facesse anche l’autrice per tentare di smaltire tutti i suoi dolori.

L’altra cosa sconvolgente per me che vado sempre a cercare simmetrie anche astruse è come Didion ha strutturato il romanzo. All’inizio tre capitoli brevissimi o paragrafi che occupano lo spazio di una pagina in cui tre personaggi tra cui Ma-ra-ia parlano in prima persona da un punto zero, cioè la clinica psichiatrica in cui Ma-ra-ia alla fine, più che esservi rinchiusa, è l’unico posto in cui va volentieri. Poi è Didion narratrice tanto onnisciente da sembrare una Ma-ra-ia molto più lucida e in sé, a raccontare fatti che solo la protagonista può sapere. Tutto però infarcito qua e là da capitoli/paragrafi brevi talvolta in corsivo in cui Ma-ra-ia e altri personaggi dicono confusamente i loro pensieri astiosi sull’intera vicenda che culmina con un suicidio, giusto per non farsi mancare niente.

Tantissima roba insomma in un libro assai breve che però ti lascia dentro il caos. Un caos che sospetto sia il punto, per Didion. C’è una scena molto cinematografica che secondo me è un po’ la chiave dell’enigma, non per Ma-ra-ia che ormai è irrecuperabile ma per Didion. Ma-ra-ia parla con una sconosciuta che gestisce un bar la quale ha pena di lei e la invita a ‘casa’ sua, vive in una roulotte. Hai mai preso una decisione? Le chiede la sconosciuta. Così Didion ci fa sapere che no, Ma-ra-ia non sa proprio cosa sia prendere una decisione. Non lo sa perché il suo mondo originario di donna, ossia di figlia di sua madre e madre a sua volta di una figlia, non ha mai previsto nessuna azione sul frangente dell’autodeterminazione. Dove autodeterminazione non è recitare una parte che ti danno o che ti prendi. Non è recitare.

Vi fu un silenzio. Qualcosa di reale stava accadendo: ed era ne più ne meno la sua vita. Se riusciva a tenerselo bene in mente, avrebbe potuto recitare la parte fino in fondo, a fare la cosa giusta, qualsiasi cosa significasse. p. 36

Ma che cos’è la realtà? E che cos’è la realtà per chi scrive al fine di inventarsi il mondo di fuori e di dentro di un personaggio di cui nel mondo reale sarebbe impossibile sapere tutto? Didion con Prendila così ti fa capire questo scarto puramente letterario che fa il fascino esistenziale di un invenzione narrativa puramente femminile. La realtà quanto cambia a secondo non del genere che si ha ma dell’esperienza più o meno consapevole di come quel genere abbia determinato giorno dopo giorno il nostro senso della realtà? Ma non solo. Anche di come il mondo senza averne l’aria si regola sempre sulla base del genere cui presumibilmente noi apparteniamo. E tutto ciò avviene sempre, comunque e a prescindere da come ci sentiamo. In Prendila così c’è il mondo come si regola con Ma-ra-ia che è non più giovanissima per i criteri di Hollywood, non ha avuto successo e quindi è da evitare come la peste perché infettata dal temibile virus del fallimento, ha un corpo femminile che la stessa Ma-ra-ia non comprende di dover strumentalizzare come le è richiesto in modo congruo anche per se stessa. Ma-ra-ia non lo comprende il suo corpo per come lo vive il mondo che la circonda e anche non si accorge che quel corpo è qualcosa che le appartiene. Il corpo di Ma-ra-ia semplicemente non c’è perché il lutto e il dolore legati alla terribile morte della madre e alla malattia della figlia hanno straziato i suoi pensieri in un modo irreversibile.

Arrivato in Italia solo nel 2014 Play it as it lays fu pubblicato negli Stati Uniti nel 1970 ed è impressionante come i sintomi relativi all’assenza di corpo che vive Ma-ra-ia si rifanno a un discorso che lega il femminile alla negazione o all’accettazione della propria genealogia matrilineare.

L’ordine simbolico della lingua materna è la capacità di tenere insieme corpo e parole, è l’esperienza che facciamo prima del linguaggio e il linguaggio che impariamo dalla nascita per realizzare con noi stessi quell’emozione abissale che ci da la prima relazione che si possa avere, quella con la madre o con chiunque ne faccia le veci. Questo determina la realtà di chiunque abbia un genere sessuale qualunque. Oggi possiamo dirlo, non è solo il riferimento conscio a un ordine simbolico piuttosto che a un altro che determina le differenze quando si scrive. Se per realtà chi scrive intende un luogo interiore vicino alla propria lingua madre, cioè quella che impariamo per capire la nostra unicità e per farla capire agli altri, e non un sistema arbitrario di segni costituito da regole inamovibili.

Dunque Ma-ra-ia con la sua apparente indifferenza, la sua mancanza di corpo e di parole, l’impossibilità di decidere e anche lo sua sfortuna e la sua fragilità è figlia più che mai di un giocatore d’azzardo e di una madre divorata dalle circostanze. Non saprei dire se con il senno di poi, oggi possa essere più facile leggere un romanzo come questo in questo modo. Però leggendo ancora una volta Joan Didion si resta consolate dall’evidenza di un genio narrativo femminile la cui immaginazione si staglia al di sopra della sua epoca proprio perché è restata confidente nel cercare le proprie parole dove sono sempre mancate cioè dentro una ferita originaria che resta per tutte e tutti la stessa.