Ho visto il paese della tua infanzia: case piccole a due piani, cubi di cemento con i giardinetti delimitate da ringhiere e fiori coltivati. Piccoli giardini di una tristezza devastante, una periferia povera di gente che lavora duro, case con l’intonaco grigio, giallino, rosa pallido, dondoli sotto le verande, finestre con i serramenti in alluminio anodizzato, vetri lustri e tendine di pizzo cucite a mano.   


Sono giorni che pioviggina alternando mezze giornate di sole a plumbei ritorni all’inverno, con un freddo che a primavera mi riporta agli inverni di quando ero piccola. Mi ricordo il pizzicore del passamontagna che mia madre mi infilava, distruggendo in una sola mossa il lavoro meticoloso di farmi due codini perfettamente geometrici. Prendeva questo passamontagna ruvido e per giunta blu scuro e prima di uscire me lo infilava in testa, rovinando a malincuore quello che consideravo la punta di diamante del mio fascino. Mi ricordo la difficoltà a reperire un passamontagna per accompagnare mia figlia all’asilo, mentre il caldo di certe mattine di gennaio mi faceva realizzare, non so se il fatto che il clima stesse cambiando o che ero finita, pure io, a interpretare il ruolo che aveva interpretato mia madre, incappucciandomi fino agli occhi quando forse già non serviva più.

Quanti sono gli inverni cui il cambiamento climatico e ciò che se ne dice, si frappone come un blocco intransigente rispetto alla memoria che dobbiamo alle stagioni della nostra vita? La stagionalità richiede un altro modo di vivere il tempo. Un tempo circolare sicuramente meno intransigente di quello lineare. Un tempo come quello circadiano, quello del karma, quello dell’uroboro, quello rischiosamente rivolto alle nostre genealogie. Per il calendario non è possibile tornare alle primavere della nostra infanzia. Al contrario il tempo della stagionalità si dipana in una continuità che è un rimbalzo tra partenze e ritorni, marcescenze e germogli, aridità e allagamenti. Ma non si creda che il tempo ciclico vissuto al presente sia un tempo privo di rischi.

Quando Vitaliano Trevisan pubblicò Tristissimi giardini era il 2010. Da due anni era diventato proprietario di una casa con giardino. Non perché l’avesse comprati ma perché aveva ereditato nel 2008 la casa e il giardino di sua madre, morta nel mese di settembre di quell’anno. Non sarebbe mai diventato proprietario di una casa con giardino altrimenti. Si era preso la libertà di non finire schiavo di un mutuo: “i debiti non sono che aggressioni del morto passato contro il meraviglioso presente” (p.38). Poi dopo sette traslochi in quindici anni era accaduto quello che al di là del lutto, gli avrebbe consentito di diventare proprietario. Ma la casa e il giardino che adesso diventavano suoi erano anche quelli della sua infanzia che Trevisan tornava a abitare a quasi cinquant’anni d’età.

“In ogni momento, ovunque si volge lo sguardo, si corre il rischio di essere proiettati in un passato remoto, anzi remotissimo, che porta in sé anche uno stato emozionale, riferito a quel passato, che finisce per proiettare la sua ombra nel presente rovinandoci la giornata. La memoria a breve termine, che ha il compito di orientarci nel tempo e nello spazio, facendo da ponte tra l’esperienza e l’immediato, è completamente disturbata da un ambiente che, inevitabilmente, stimola in continuazione le aree della memoria a lungo termine, e così i dati si accumulano, i corridoi si intasano, il cervello si confonde, e uno si trova a vagare nel passato nell’atteggiamento emozionale del presente”. p 41       

La casa si ribella al modo diverso di essere abitata, almeno così crede l’autore e non si può far niente, passerà. Il sistema giardino, con casa annessa, è tarato dall’uso che  ne aveva fatto la madre e il cambiamento messo in circolo da un nuovo abitare mette in crisi il tempo lineare, ça va sans dire. Soprattutto il giardino di devastante tristezza che sua madre coltivava meticolosamente, ecco su quello, l’autore agirà ancora di meno, esponendosi da poeta a quella frattura del tempo, estranea tanto alla disperazione quanto alla speranza che il tempo sia qualcosa che passi per non tornare mai più. Al di là di abbeverare ciò che lei ha piantato nel tempo, il neoproprietario non farà proprio nulla. Quel ritorno al piccolo mondo abitato da quel che resta della sua infanzia con la madre è un grosso rischio ma non solo

“Poter dunque disporre, rispetto al nostro ambiente, di uno sguardo esterno, altro da noi, che di quell’ambiente siamo parte, è dunque, sempre, una grande opportunità” p.37  

“quella freschezza di sguardo che sola ci permette di discernere ciò che, presi come siamo a vivere la vita di tutti i giorni nei luoghi di tutti i giorni, riusciamo al massimo a scorgere, ma che spesso e volentieri semplicemente ignoriamo” p.36

Mi ricordo che mia madre quando facevo i capricci mi guardava di traverso e mi esortava: fai la bambina grande! e io abituata a prendere da sempre e per sempre alla lettera ogni singola frase che mi viene detta, non riuscivo sinceramente a capire cosa dovessi fare: una bambina che finge di essere grande? O smascherare un essere millenario travestito da bambina? Adesso penso che quella freschezza di sguardo un po’ capricciosa del tempo disallineato dell’infanzia, bisogna allenarla, perché alla fine dei conti è la libertà più reale cui si possa aspirare.