Piccole estensioni, Anterem

cop libro

Piccole estensioni è la raccolta edita da Anterem Edizioni a seguito del conferimento del Premio Lorenzo Montano 2014 per la raccolta poetica inedita. Si tratta di un lavoro unitario per quanto suddiviso in due parti. La prima parte presenta dieci componimenti in una forma in cui i versi non sono separati da cesure essendo riportati di seguito secondo una continuità che appare prosastica ma non lo è. La seconda parte è composta da sette poesie.

Dovendo individuare a posteriori un tema delle Estensioni al fine di comprenderne quanto più precisamente il possibile sviluppo, credo che sia il tema della “differenza” quello principale. L’ipotesi immaginosa formulata dalle Estensioni è che al principio non ci sia il verbo, né il silenzio ma una minuscola differenza. Prima di nascere esiste nel microscopico mondo delle Estensioni solo un infinitesimo differire delle singolarità. Ma dopo, al di fuori di questa figurazione nostalgica l’esposizione delle forme visibili avviene nel macrocosmo attraverso un linguaggio che non evita sinonimi né sperimenta vere mutazioni. Invece è piccola anzi piccolissima l’estensione pregressa e nascitura che può raggiungerci in quell’ipotetico stallo che è il tentativo di misurare un suolo su cui non c’è nessun ricordo che garantisca di essere fuoriusciti. Se per La favola di Lilith la complessità del discorso si gioca anche attraverso l’uso metaforico del mito oltre che in altre variabili che consentono di leggere l’opera attraverso molti registri, nelle Estensioni la panoramica è più semplice né esistono metafore. Si tratta soltanto di un tentativo di recupero in extremis di qualcosa di sempiterno e attuale che non si colloca apparentemente nel presente né può essere restituito dal ricordo. Una differenza rintracciabile nelle minuterie più recondite che stanno sotto un occhio interiore che le restituisce sfuggenti, come se tutto quanto intorno servisse oltre il visibile. Servisse da indicatore di un dirigersi differente e non saputo che pure guida. Ciò almeno nella speranza di chi ha scritto.

  “Mai accaduto prima in quanto iniziato con un passo il succedere
diversamente quantunque il succedere prima era uguale. Isolata
da questo stacco la differenza sta in torto di avere l’orizzonte nella
crescita e lievito bastante a produrre di concerto il giacere. E nessun
rimedio menta lo stato di questo saperlo che tornata indietro
dalle cose successe ridivento quella non stata.


CRITICA E RECENSIONI

Settembre 2014, DALLA POSTFAZIONE DI GIORGIO BONACINI

SENTIRE IL VISIBILE
La lingua poetica, qualunque direzione prenda la sua voce, porta sempre con sé un potenziale fisico che ha in germe una concretezza, che non è solo uditiva o immaginativa, ma è un vero e proprio sentire tattile. Sembra impossibile poter toccare la parola, che è suono e scrittura, ma quando la lettera subisce la metamorfosi che la poesia imprime al suo alfabeto, allora il segno cambia e un’altra percezione (innaturale, potremmo dirla, se per naturale intendiamo non la natura delle cose, ma la loro apparenza superficiale e conforme) avvolge il sentimento del testo. La parola, allora, com’è il caso di queste Piccole estensioni, si svolge in un movimento senza obblighi o costrizioni, un’ondulazione nel sintagma che rivolge il suo sguardo verso un’oscura ma limpida, (ri)cognizione, fino a scaturire in un’inversione che interroga l’autrice e noi stessi: se conoscere è vedere nella sua continuità, che cosa percepiremmo se spostassimo l’occhio verso il non visibile? Domanda che apre ad altri versi, più minuziosi, che riportano tutta l’estensione del vivere in un piccolissimo contesto, determinante per la visione lacerante che questo poemetto porta con sé: il campo di una lacrima.
Ed è così che l’andamento interiore, che si costituisce insieme al suo dire, mostra in queste poesie (prosa o versi non è importante, quello che conta è ciò che il linguaggio costruisce in sostanze significanti) la sua determinazione, lieve e precisa, di delineare il corpo: seppur sfilacciato dalla “rapina” o dalla “interdizione” che soggiace al suo essere, o, come precisa l’autrice, derubricato dal vuoto, quindi senza difesa. Ma la consapevolezza di pensare una parola vivente, una voce esistenziale, si trova proprio lì dove sembra concludersi la prospettiva dispersa di un sapere. Invece, così ingarbugliato in ciò che si è (salda alla luce che orizzonta) o si vorrebbe essere (un segno che fermi la terra), un’oscillazione continua mantiene paradossalmente l’equilibrio e a ogni sbando rimanda a un’instabilità costante fra resistere e restare, in una situazione che è luogo di necessità e volontà, che Viviana Scarinci chiama l’estensione del piccolissimo.
Ma tutto questo estendersi minuto è però innumerabile; non viene né arriva soltanto da una dimensione di misura emotiva, ma da un vero e proprio sguardo sull’esistenza a cui la nominazione sembra appartenere: un luogo precedente la parola. Come un mondo-senza-mondo che si riempie di sé, a partire da un suono preverbale che genera il suo dire con piccole fluttuazioni, germinando nell’inquietudine o in una goccia di sofferenza o in un lampo di dolore. Non però un magma incontrollato, ma una crescita attraverso immagini che confida¬no nello stupore e si affidano alla fermezza di piccoli gesti lenti: il contatto con la terra, il colore dell’alba, una pausa nel respiro. Senza però sostare in un’autoconservazione sterile, ma ripartire ogni volta zigzagando dentro paradigmi che, nel camminamento, aprono e danno ossigeno, o condensano ferite; o ancora lucidamente segnano corpo e mente nella forma di un sintagma che è concetto e poesia, così come si fa sognando, dove le cose proiettano la loro estroversione intima e generano non mere realtà, ma vero reale.
E sembra proprio che sia per questa ri-generazione (e forse solo e semplicemente per questo) che Viviana Scarinci riesce nel tentativo di scardinare le circonvoluzioni che si estendono, nella pagina, dal pensiero alla scrittura, per arrivare alla precisazione lucida di versi che si muovono, ma per andarsene con ironia, dalle acque amiche dove tutto è già detto, stabile, abituale anche in ciò che si ritorce contro. E da lì, dunque, bisogna uscire, estendersi in luoghi e vite e descrizioni inconsuete, e metafore che significano ciò che dicono, anche con durezza, ma senza fronzoli: con la sola bellezza dell’evolversi da piccolo a piccolo. Quasi che tutto ciò che è visibile si concentri in un punto marginale (quindi poeticamente centrale) definito solo nel suo esserci come qualcosa che fa e disfa, e scardina e congiunge. Una cosa e il suo nulla senza altra associazione, come se non fosse importante il legame ma soltanto i due estremi. Ma è solo un’illusione, perché la consistenza del senso che si muove e popola tutta la filatura e la maglia di questo testo, non permette vuoti o insignificanze, anzi, trova nell’atto poetico l’ampiezza del vibrato che assolve ogni apparente e inesplicabile disarticolazione del discorso. Proprio perché non vuole essere discorso, ma indicazione capace di ricomprendersi ed esporsi al pericolo della propria voce che riesce a flettersi nei volti o a ritrovare l’incertezza di un riverbero in suoni che si vedono. Questo fa la poesia: estende la percezione in luoghi capaci di delineare una visione e mantenerla su un assetto che fa della discontinuità il suo interno e speciale valore, leggibile in un dopo che orienta.

Maggio 2015, MARCO FURIA su GRADIVA. International Journal of Italian Poetry n .47

Con Piccole estensioni, opera vincitrice del Premio “Lorenzo Montano” 2014, Viviana Scarinci presenta una raccolta in cui prosa e poesia si alternano. Prosa e Poesia? Mai come in questo caso la differenza tra generi letterari appare non idonea a definire una scrittura capace di snodarsi, sicura, per via di vivide pronunce testimoni di un esistere consistente nel suo stesso idioma.
Scrive, con acutezza, Giorgio Bonacini all’inizio della sua nota critica: “La lingua poetica, qualunque direzione prenda la sua voce, porta sempre con sé un potenziale fisico che ha in germe una concretezza”. E’ significativo che il sapere sia considerato dalla poetessa, anziché una sorta di contenitore, un vero e proprio modo d’essere che trova la sua più intima giustificazione nella ricerca di anche minime persistenze ricche di qualità. Si legge a p.11: “Non è sapere quanto ma piuttosto chi e come può essere che ambientando questo spaesamento trovarsi sovrinmplicati irretiti ai fianchi dallo stesso labirinto”.
Le “piccole estensioni” non sembrano luoghi facili da frequentare: il senso della qualità implica un’assidua dedizione. Chi ne è davvero affascinato sarà sempre disponibile a un’indagine per nulla fine a se stessa, poiché consistente in uno studio dell’esistenza: l’emozione estetica può risultare molto feconda se riesce a delimitare immagini maggiormente complete. Cito a questo proposito: “Nonostante tutto resti immobile, come se l’aurora disegnasse il suo colore rubando qualche istante in più ogni mattino”. Dopo aver letto questo breve brano, siamo in grado di guardare (e di vivere) l’alba anche nel nuovo modo propostoci: abbiamo qualcosa in più, siamo, dal punto di vista esistenziale, più ricchi.
D’altronde “le cosmogonie riprendevano / un’evoluzione marginale”, ossia le origini dell’universo, fermo restando il loro valore in campo scientifico, rientrano nell’esserci e l’occhio umano può considerarle “il contesto minuzioso / di una qualunque realtà”.

Ottobre 2014, DA UNA NOTA CRITICA DI GIACOMO CERRAI su Imperfetta Ellisse

Piccole estensioni o estensioni del piccolo? Una domanda che subito si affaccia perchè per due volte, nei suoi testi, Viviana Scarinci parla di “estensione del piccolissimo”, sottolineando così l’importanza e la natura dell’oggetto poetico che affronta. Il titolo, se così è, è però una maschera o un rovesciamento, un artificio retorico. Ma in nuce è il piccolissimo ad essere la componente atomica del pensiero poetante di Viviana, imprescindibile. Tuttavia il titolo già propone un concetto che offre non poche suggestioni a chi legge, tutte però utili a capire questo libro.
L’estensione come misura: quella di un’area, di un campo poetico, dai confini però non facilmente delimitabili perché la poesia non si rinchiude. Quella di uno spazio, mentale, onirico, psicologico, semantico nel quale, proprio per l’indefinitezza dei confini, le variabili del dire possono essere molteplici ma solo una, quella scelta dal poeta, assume un significato risonante. O come concetto logico includente: la condivisione dell’esperienza, dell’amore e del disamore, del dolore o del rammarico, e – di più – la loro estensione metaforica e quindi, in ultima analisi la loro connotazione. Ovvero – ecco un’altra suggestione – l’estensione come allargamento del significato: il piccolissimo, nella scrittura, il particolare che è però marcatore di vicende anche più complesse che forse nella vita di ciascuno possono apparire collaterali ma che segnano quanto un gesto o uno sguardo che diventino per qualche misteriosa ragione indimenticabili. E Scarinci, con la sua scrittura che è giusto definire consapevole, ha ben presente questo ventaglio di possibilità, tanto che questi territori e i loro sconfinamenti diventano secondo e non minore strumento e oggetto poetico della raccolta.
Ma di quale piccolissimo stiamo parlando? In questo libro, come in altre prove di Viviana, è la parte sentimentale di noi, è l’affettività, è la materia impalpabile e tagliente di cui è fatta la vita, o i sogni come direbbe il Prospero della Tempesta, quella che comunque ci denota come uomini e donne. E’, in altre parole, quello straordinario intrico di cui siamo fatti, tra il pensiero (la mente, la psiche) e qualla vasta res extensa – ecco che ci torniamo – che è il mondo, il tangibile, le cose compreso il nostro corpo, ma anche il nostro stesso esistere, la coscienza di noi. E’ – non tutto, che l’impresa sarebbe immane, ma qualcosa – quello che percepiamo come esseri – direbbe Merleau-Ponty – incarnati nel mondo. E’ evidente quindi che tutto questo bacino poetico è ipoteticamente inesauribile e tutt’altro che “piccolo” (meno che mai minimale), che il “piccolo” debba essere alla fine tralasciato, che esso sia un’unica e dominante metafora, qualcosa che precede anche l’ideazione stessa della scrittura, il seme di una evoluzione creativa, come un frammento di DNA. E’ chiaro che quest’opera è fieramente e orgogliosamente concettuale, senza che questo tuttavia porti l’autrice a rinnegare o radicalizzare quella matrice affettiva e sentimentale (ma questi due termini non devono essere fraintesi) di cui parlavo prima. Senza, in ultima analisi, che questa visione apparentemente centripeta denunci il benché minimo ripiegamento ermetico, il benché minimo crepuscolo.
Non piccolo, allora, e difficile da scandagliare. Scarinci ci prova – e ci provoca – al meglio di sé, organizza questa materia in 17 brani squadrati e densi, che rispondono felicemente alle direttive di una scrittura effusiva, svolta in lunghe catene sintattiche che sono linee di pensiero e che hanno fame di un respiro altrettanto lungo, “in un movimento senza obblighi o costrizioni, un’ondulazione nel sintagma”, dice Giorgio Bonacini nella postfazione. Ricordandomi in questo sia certi amatissimi testi di Variazioni della Rosselli sia i suoi Spazi metrici, ispirazione e metodo, forma e sostanza, accurata selezione delle parole ma senza innamoramenti o facili associazioni d’idee, indagine delle potenti correnti metaforiche che la lingua nasconde, rischio calcolato negli accostamenti semantici, in altre parole quelle molteplici estensioni di cui parlavamo prima. Per capire cosa intendo basta leggere con la dovuta attenzione, l’attenzione capillare o “piccola ” che queste poesie si meritano, un testo come Non è sapere quanto ma piuttosto chi… (v. sotto) con il largo campo semantico che lo innerva, rimandando ai numeri, al doppio, al paio, ai punti, in ultima analisi alla coppia, a una dualità esistenziale e affettiva che abbiamo sperimentato; oppure la poesia le cosmogonie riprendevano, una perfetta allegoria del vuoto che parte dal maestoso cosmogonico e attraversa il marginale, il minuzioso, il qualunque, il tempo frammentato (e ambiguamente “minuto”) e giunge alla telecamera che, come sa chiunque viva in un ambiente urbano, in realtà riprende un nulla identitario di comparse. Una poesia di concreta astrattezza, in cui il vuoto (o il non visibile, come dice Bonacini) ha una gran parte e nella quale le poche cose “concrete” (la casa, la pioggia, il cielo, la mareggiata, una bambola, un passero ecc.) o sono de-mansionate a fondali di uno scenario o innalzate a simulacri, se non ad amuleti, di fatti luoghi e incontri che hanno popolato la vita. Una poesia insomma dalle molte suggestioni e con un alto grado di resistenza. Nel senso che, a differenza di molta poesia di ricerca alla cui durezza alla fine bisogna arrendersi per mancanza di indizi, questa – che poesia di ricerca è – resiste alla banale domanda “che cosa vuol dire?”, alla mera riduzione a parafrasi di un “significato”, per offrire al lettore accorto più significati ulteriori.

info http://www.anteremedizioni.it/

 

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