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Dato che la mia recensione de La vita bugiarda degli adulti di Elena Ferrante la redazione del sito Doppiozero curiosamente l’ha pubblicata nello stesso post in cui c’è un testo di un altro autore senza chiedere il mio parere né avvertirmi della data di pubblicazione del mio testo. Dato che curiosamente la mia recensione è stata pubblicata in ritardo rispetto ai tempi in cui l’ho inviata loro che peraltro me l’hanno espressamente richiesta. Tenendo conto di queste curiosità ho pensato di sentirmi libera di pubblicare la mia recensione anche qua. Se non altro per favorire la comodità di chi desidera leggerla.


Era il 1992. Enzo Siciliano con un articolo sul Corriere della sera datato 28 giugno salutava l’uscita de L’amore molesto, opera di esordio di una certa Elena Ferrante, come “un debutto sul difficile terreno della ricerca interiore” manifestando sorpresa per l’altezza stilistica raggiunta là dove un’originalità “non guidata” sceglie lo scavo entro destini individuali piuttosto che confrontarsi con la storia.

Confronto che in effetti doveva sembrare particolarmente urgente in quei mesi dato che il 1992 in Italia è un anno in cui avvengono degli eventi destinati a cambiare radicalmente il corso degli avvenimenti di natura civile e politica per come si erano configurati fino ad allora. Infatti finalmente ne sapemmo qualcosa di Gladio, ebbero luogo le sentenze del Maxiprocesso di Palermo, irruppe platealmente sulla scena pubblica tangentopoli. Ma soprattutto il 1992 è l’anno in cui saranno assassinati dalla mafia i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.  

Siciliano chiudeva il suo articolo elogiativo proponendo un’immagine estremamente significativa dal punto di vista del linguaggio e indicativa del contesto in cui quella storia di madri e figlie napoletane, per niente addomesticata dal buon senso, non poteva che stupire. Infatti Siciliano concludeva accostando in termini di esiti la “poesia della remissività donnesca (…) e l’idea che il riscatto arriva con la sofferenza del pensiero”.  

L’amore molesto arrivò a fare i conti con tutto quello che si era creduto in merito al ruolo del romanzo in Italia e segnava di fatto il mancato riconoscimento pubblico dell’esistenza di una precisa genealogia del romanzo italiano scritto da donne, proprio quella genealogia cui si riferisce Elena Ferrante a più riprese: “La posta in gioco è più alta: contribuire a rafforzare una nostra genealogia artistica che regga, per intelligenza, per finezza, per competenza, per ricchezza di invenzione e per densità emotiva, il confronto con quella maschile”[1]. Genealogia che tra l’altro nel 1992 la filosofia e la critica letteraria italiana di matrice femminista stavano contribuendo già a delineare.

Per tornare ai giorni nostri il 7 novembre scorso, accompagnato da un grande clamore dei media di tutto il mondo, ma anche italiani stavolta, esce La vita bugiarda degli adulti che ha tutta l’aria di costituirsi come il primo romanzo di una nuova saga. Proprio il clamore mediatico e il successo di pubblico, nel caso di Elena Ferrante, con buona pace dei detrattori, non stanno a smentire il valore di un’opera già tradotta in cinquanta Paesi e con all’attivo dodici milioni di copie vendute in tutto il mondo. Per non parlare delle precise e circostanziate ascendenze letterarie che legano l’opera di Ferrante a quella di Elsa Morante e Anna Maria Ortese. Ma stanno a sottolineare un fenomeno che ha portato l’Italia al centro di un discorso globale che attraverso la letteratura, riguarda finalmente le donne.

Dopo la tetralogia de L’amica geniale infatti Elena Ferrante, inizia il racconto in prima persona della vita di Giovanna Trada nata a Napoli il 3 giugno 1979, colta sul compiersi dei suoi 13 anni fino ad arrivare ai 16. Ma non è un inizio del tutto nuovo, semmai è un ricominciare daccapo a guardare all’Italia attraverso Napoli, ribattendo ostinatamente sugli stessi temi che da quasi trent’anni, si focalizzano sulle madri, le figlie e la famiglia italiana. Per giunta sapendo dire così tanto di quanto non era ancora stato scritto della storia di un Paese in cui il peso dei legami familiari si estende ad agire fin nei meandri più noti e più impensabili delle relazioni sociali con ciò descrivendone conseguenze pubbliche e private che non possono essere escluse dalla storia con la S maiuscola. Altrimenti si rischia di essere davvero troppo lontani dal racconto di chi siamo stati e di conseguenza dalla credibilità di quello che siamo diventati.

In ballo infatti stavolta è proprio un’eredità generazionale, storica, politica, ambivalente che è bene saper guardare da tutte le prospettive se si vuole crescere. E Giovanna lo vuole sicuramente, dato che il romanzo si chiude con un proposito di tutto rispetto, quello di diventare adulta come a nessuno è mai successo. Per non parlare della domanda che campeggia già in quarta di copertina: crescere per diventare cosa, per somigliare a chi? Intendiamoci: fare da sé per Giovanna non è una velleità ma una necessità sancita dalla sofferenza del pensiero, cui forse Siciliano si riferiva senza farne una questione di genere, che pagina dopo pagina renderà il linguaggio e le sue insidie più o meno consapevoli, il vero protagonista del libro e la vera posta in gioco in termini di eredità.   

La cornice di questa eredità è Napoli che per l’occasione è divisa esplicitamente in due. La città di sopra del Rione Alto e del Vomero e di San Giacomo dei Capri in cui, le famiglie ritratte nel libro, ossia quella di Giovanna e quella delle due bambine Ida e Angela sue amiche, pretendono si parli esclusivamente in italiano, pretendono si studi soprattutto per non incorrere nella vergogna di avere una figlia bocciata, cosa che invece accadrà sia a Giovanna che a Ida. Eppure le tre bambine apparentemente così ben accudite saranno lasciate da sole a raccogliere un’eredità che riguarda la distanza incolmabile tra il guardare e il vedere che in tutta evidenza è il problema che ha investito la vita di entrambe le loro famiglie.

Poi c’è la Napoli di sotto immersa nel grigiore di tutto quanto globalmente da Milano a Calcutta significa marginalità. Qui si parla solo in dialetto perché il dialetto è lingua madre e il problema è decidere se governare o meno la ferocia che in ogni posto al di sotto del mondo emerso, è la stessa. Di sopra padri e madri discorrono: “delle solite cose che gli stavano a cuore, parole che orecchiavo da sempre tipo politica, valore, marxismo, crisi, stato”. Di sotto la tremenda zia Vittoria, figura impresentabile cancellata dai genitori e riesumata dalla smania adolescenziale di Giovanna di capire davvero lei di chi ha preso il volto, imperversa imponendo alla figlia dell’odiato fratello, con tutta la sua sgradevolezza, di guardare, guardare davvero e decidere di quale racconto vuole far parte.

Sarà grazie a questa zia che Giovanna scoprirà che l’epica familiare che sta alla base della narrazione della sua venuta al mondo è il più bugiardo dei racconti e che tutto l’alto e tutto il basso da cui proviene costituisce un presupposto che non potrà esserle d’aiuto nel proposito di diventare un’adulta del tutto diversa da quanto sia risaputo essere le migliori qualità degli adulti.

Infatti degli adulti di questa storia nessuno è felice o ha ragione, nessuno ha vinto la sua battaglia, nessuno è depositario di qualcosa di significativo al punto di costituire un’eredità davvero solida e soprattutto nessuno ha agito con giustizia nei confronti degli altri pure avendo ampiamente attinto a un lessico fortemente polarizzato in questo senso. Sono i più giovani quelli che Elena Ferrante incarica attraverso Giovanna, non di evitare di dire bugie ma di trovare una sintesi simbolica che non cristallizzi lo sguardo in una polarità vuota: giusto o sbagliato, bene o male, alto o basso, tradimento o lealtà, perché questo scontro di mondi è talmente connesso con l’eredità di Giovanna Trada che tanto l’individuo socialmente qualificato come migliore o peggiore quanto la madre e il padre alla luce dei fatti, semplicemente non sono più credibili. Almeno rispetto a quanto di risaputo li abbia ricondotti al presente di una adolescente nata in Italia nel 1979, tanto addolorata quanto conscia e decisamente molto promettente: “una contiguità incongrua tra volgarità e finezza, e quell’ulteriore assenza di confini nitidi in un momento in cui stavo perdendo ogni vecchio orientamento, mi smarriva ancora di più.”

Ma niente paura, anche stavolta come è già accaduto in Ferrante, esiste un oggetto magico il quale avrà la funzione determinante che rende al guardare alle cose consuete, uno sguardo capace di andare molto oltre le dicotomie, le ambivalenze, gli equivoci, uno sguardo capace di recare alla menzogna un valore del tutto sorprendente. Questo oggetto magico non mette a posto proprio niente perché nell’economia delle storie narrate da Ferrante nessun luogo è sicuro. E non sarà più una bambola che pure nel libro ancora ricopre un valore simbolico importantissimo. L’oggetto magico dei bugiardi di Ferrante è un monile, un prezioso braccialetto da donna che grazie al suo potere maligno mette in circolo tutte le energie che fanno destino. Il tradimento sopra ogni cosa.

Maschile e femminile, immanente e trascendente, corpo e spirito, lealtà e tradimento sul finire del romanzo irrompono attraverso i personaggi di Roberto e di Ida. Il primo è l’uomo di cui Giovanna si innamorerà davvero e pare rappresentare con il suo legame di natura intellettuale con la religione, proprio quell’aggancio con la trascendenza che l’opera di Elena Ferrante, ha illustrato in altri termini attraverso la tetralogia de L’amica geniale.  La seconda è la giovanissima amica che si fa bocciare per aver troppo letto e scritto per conto suo. Giovanna sceglierà proprio Ida come compagna di un viaggio dal sapore iniziatico alla volta di Venezia, dopo avere indicato all’amica di essere la prescelta dandole senza vergogna un bacio sulla bocca ai giardini della Floridiana nonostante l’andirivieni di madri che sospingono passeggini.

Il romanzo finisce qui. Lasciamo con disappunto il bel Roberto che sta scrivendo un saggio sulla compunzione: “La chiamò più volte addestramento a pungersi nella coscienza, attraversandola con ago e filo come la stoffa quando bisogna farne un abito”. Oddio, compunzione ha a che fare con il rimorso, con il pentimento, corro a cercare sul vocabolario della lingua italiana Treccani, è un atteggiamento ostinato di umiltà e afflizione, talora ipocrita che nella teologia cristiana sta anche come sinonimo di contrizione… è troppo, quanto bisognerà aspettare per l’uscita del prossimo romanzo?

Ferrante sembra dire che tra il guardare e il vedere c’è un baratro che certi adulti ricolmano abilmente di parole sempre più scollate dal campo in cui accadono le cose della vita vera che è più tremenda e più magica di tutte le menzogne del mondo. Se davvero Elena Ferrante con La vita bugiarda degli adulti ha voluto dire questo, io ci credo.


[1] E. Ferrante, L’invenzione occasionale, Roma, Edizioni e/o, 2019, p. 82

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