In un’appassionata nota introduttiva a Manifesto cyborg di Donna Haraway intitolata La molteplicità: un’etica per la nostra epoca, oppure meglio cyborg che dea (per la maternità di questo titolo si veda anche Leggendaria di luglio 1991 su donne e nuove tecnologie) Rosi Braidotti associa il concetto di biopotere a un paradosso quanto mai lungimirante, esprimendo la questione in questi termini: “Il biopotere è anche e soprattutto questo paradosso di carne, viva e vulnerabile, che si trova presa e ri-presa nello sguardo disumano di una telecamera che viola tutti i limiti e non lascia neanche più spazio, o necessità, alla memoria”.
Da Manifesto cyborg a Chthulucene (dell’importanza di questi due testi di Haraway sommariamente ne parlo qui) e anche a attraverso il bellissimo e ancora tutto da studiare Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie di Federica Timeo, uno dei punti nevralgici di questi lavori così importanti, per me come poeta, riguarda la confutazione del concetto di specismo, ossia la convinzione secondo cui gli esseri umani siano superiori per status e valore agli animali, o alle altre forme viventi non umane, e pertanto giustificati nel godere di diritti assolutisti su tutto il vivente.
Il concetto di biopotere così lucidamente sintetizzato dalle parole di Braidotti è in grado da solo di varcare una soglia importantissima che tanto il linguaggio della poesia di per sé che quello strettamente legato al femminismo speculativo, hanno praticato con largo anticipo. Infatti entrambi i linguaggi si sono resi capaci di una lettura, avvertita più di altri, dei paradossi intrinseci al complesso sentimento di questa contemporaneità. E uso la parola sentimento non a caso.
La soglia a cui mi riferisco è quella in grado di connettere i corpi (tutti i corpi umani, animali, vegetali, minerali) alla umanità-disumanità di uno sguardo e di un dettato assolutisti e colonizzatori come sono quelli imposti alle soggettività di ciascuno dall’imperativo macchinico di una riproduzione compulsiva dell’immagini proprie e altrui. La poesia, almeno quella che piace a me, vive di questa idiosincrasia endemica rispetto a ogni forma di linguaggio che si esprima attraverso una postura egemonica e assertiva, proprio perché questo linguaggio determina un congelamento della memoria soggettiva, cioè del sentimento di continuità che consente l’unità espressiva di un dettato originale.
Allo stesso modo gli strumenti linguistici offerti dai moltissimi femminismi che si sono assunti la responsabilità di una lettura situata e non definitiva del presente, si sono avvalsi della stessa idiosincrasia in cui carne, viva e vulnerabile (e qui si intendono comprese tutte le vulnerabilità colonizzate e colonizzabili) trovino lo spazio e il riconoscimento di una propria memoria genealogica che prima deve passare per un linguaggio che sappia nominarle in un modo quanto più prossimo alla loro essenza precipua.
Anna Maria Ortese a questo proposito scriveva che per sottrarre a qualcuno la percezione di essere in diritto di praticare la propria identità, è sufficiente privarlo del suo linguaggio originario. Questo significa privarlo del diritto di esprimere la propria soggettività e di sentire propria e ben addentra alla Storia collettiva, la sua personale vicenda. Avvezzare qualcuno a non porsi la questione in questi termini è un atto colonizzatore a prescindere se a compierlo sia un uomo o una donna, uno Stato, un padre, una madre, una religione, un partito politico, una comunità, una razza, un’ideologia.
Giusto per aprire una parentesi sul mio lavoro relativo alla poetica di Elena Ferrante di prossima pubblicazione, personalmente ritengo che una parte del successo riscosso dall’opera di questa autrice arrivi dal fatto che la sua immagine esista perché è invisibile. Di un’invisibilità che assume contorni molto simili a quelli espressi da Braidotti quando parla dell’invadenza di una telecamera che viola tutti i limiti e non lascia neanche più spazio, o necessità, alla memoria. La mancanza dell’immagine di una donna che scrive, così acutamente connotata soltanto dal linguaggio che essa produce, ha creato lo spazio di esistenza per una moltitudine di argomenti che stava lì da sempre, ma che prima era continuamente smorzata in virtù del suo carattere endemico posto agli antipodi rispetto all’imperio dell’assolutismo, della violenza colonizzatrice, del sessismo.
Questo è un discorso che ho ricostruito a posteriori. Quando ho scritto le poesie di Annina tragicomica nel 2016, sono partita da un sentimento della natura e da una necessità di convivenza con il mondo animale tutti miei e da un amore totale che non saprei come collocare e neanche voglio. Tuttavia dalla poesia intesa per come l’ho sommariamente spiegata e da molte letture di allora (fondamentali per una maggiore comprensione dell’opera di Elena Ferrante negli anni) andavo a chiudere un cerchio fondativo per me, me ne accorgo adesso più che mai. C’è una poesia tra le settanta contenute in Annina tragicomica che per me rappresenta a posteriori una specie di serpente che si morde la coda, cioè testa e coda, inizio e fine situati nello stesso punto soltanto per esprimere una qualche inoppugnabile continuità. La poesia si intitola Città e va a inaugurare la sezione audio che ho creato sulla homepage di questo sito.