Un estratto da Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX pubblicato sul numero di Leggendaria Libri Letture Linguaggi 141/142 settembre 2020
[…] Le parole di Saverio Costanzo come interprete dell’opera di Elena Ferrante attraverso il filtro cinematografico, queste indicano in modo estremamente acuto la strada per cui la storia “pubblica” e le memorie “private” diventano, al di fuori dei manuali, un sentimento culturale ben più indicativo, che si pone tra il conscio e l’inconscio in un modo così pervasivo che, forse, è il caso di rivedere i termini in cui la storia e la letteratura si sono occupate, in passato, della ricerca della così detta verità. Perché nell’opera di Elena Ferrante è proprio il modo in cui si intende la verità, e in cui i personaggi si relazionano a questa, a essere il motore di una ricerca del vero che per come volutamente la orienta la nostra autrice, denuncia a monte di essere inutile.
In questo senso il romanzo di Elena Ferrante è politico soprattutto perché segna un approdo a un modo di raccontare il femminile in una totalità che esiste da sempre, senza prevedere la centralità del femminile. Il romanzo di Elena Ferrante è politico perché il tema è sempre quello dell’esplorazione narrativa di una genealogia femminile cui tuttora si fatica a pensare in termini realistici, proprio per via di quello che, parafrasando Muraro, rispetto a tutto ciò che è donna, da sempre non è risultato memorabile e quindi degno di essere tramandato alle nuove generazioni.
È forse per questo che il nuovo libro di Elena Ferrante La vita bugiarda degli adulti, fin dal titolo ha a che fare con la rielaborazione della verità, attraverso il ruolo che la bugia svolge nel racconto di una storia familiare che si dimostra poggiare su presupposti fortemente dissonanti rispetto alle scelte linguistiche e comportamentali di chi ha fondato quel nucleo. Dissonanza però che la nostra autrice non focalizza in termini moralistici, in quanto la menzogna e il tradimento nella Vita bugiarda costituiranno un passaggio di testimone generazionale che dice molto sul ruolo ambiguo e sul significato non definitivo che la parola verità deve giocare sia dentro le molte possibili letture dell’opera di Elena Ferrante che nel gesto simbolico dell’assenza del corpo dell’autrice.
Scriveva Elsa Morante in Menzogna e sortilegio sul ruolo pervasivo e con ciò fortemente significativo della menzogna in termini di eredità culturale, e non senza un filo di ironia: «Ma farsi adoratori e monaci della menzogna! fare di questa propria meditazione, la propria sapienza! rifiutare ogni prova, e non solo quelle dolorose, ma fin le occasioni di felicità, non riconoscendo nessuna felicità possibile fuori dal non-vero! Ecco che cosa è stata l’esistenza per me! ed ecco perché mi vedete consumata e magra al pari dei ragazzetti mangiati dalle streghe del villaggio. Essi dalle streghe, ed io dalle favole, pazze e ribalde fattucchiere»[1].
È questo approccio dubitativo nei confronti della verità come dogma che probabilmente, oltre al coinvolgimento di milioni di lettrici e lettori, decine e decine di studiose e studiosi in tutto il mondo, si sono fatti portavoce di un vero bisogno di cercare “oltre”. Ossia quello di seguire il tracciato ferrantiano ognuno nel proprio ambito disciplinare, esprimendo la necessità creata da un vuoto speculativo: la ricostruzione di una genealogia femminile, la ricostruzione del rione come contesto di prossimità esclusivamente fisica, la ricostruzione di un concetto di periferia che si avvalga di un’inaspettata forza centripeta, la riconsiderazione del ruolo storico delle classi subalterne e soprattutto la marginalità scagionata dalla vergogna di non trovarsi al centro. Tutto ciò finalmente considerato come una questione di fondamentale importanza, che i tempi richiedono sia posta con urgenza al centro di ogni ambito.
Il romanzo di Elena Ferrante è politico e contemporaneo perché qui più che altrove il margine è inteso come il luogo più popoloso e interessante del mondo, senza essere per questo governato da logiche sempliciste come quelle ideologiche o populiste.
Ferrante parte da Napoli, da quello che Anna Maria Ortese chiamava il genio materno della città più teatrale del mondo, in cui l’autenticità è lo spettacolo dell’autenticità. E soprattutto la seduzione è più che altrove materna, in quanto la lontananza può estinguere ogni legame e preoccupazione come un attimo dopo fomentare il pentimento di aver voluto tanta libertà e costringerci a tornare. Come se insieme la madre, la città, l’origine fossero nemiche e amiche di una storia che riguarda un’indipendenza simbolica mai guadagnata e mai perduta, tuttavia inestinguibilmente agognata.
L’inserimento in un inizio specifico, il dopoguerra, e un luogo preciso, Napoli, là dove altrimenti si è in difficoltà a iniziare, quando si tratta di parlare delle donne italiane, riescono a farsi intendere ne L’amica geniale come le coordinate di un sistema governato da un agire orientato soprattutto dalla propria pulsione ad individuarsi. Così come Giovanna, adolescente italiana classe 1979, ne La vita bugiarda degli adulti inizia dichiaratamente quella strada sotto i nostri occhi di lettrici e lettori. Individuarsi sia pure nell’incertezza, al cospetto delle proprie e delle altrui bugie che hanno fatto la storia del nostro Paese, perché come scrive Luisa Muraro citando Fernand Braudel[2], oltre la storia corrente c’è una storia più profonda e lenta, quella delle forme inconsapevoli del sociale. Ed è proprio questa consapevolezza o inconsapevolezza che determina la dicibilità, ossia quell’a posteriori dato dalla misura di quanto abbiamo potuto concepire o subire di uno stato di cose in cui volenti o nolenti siamo venuti alla luce.
[1]. E. Morante, Menzogna e sortilegio, Torino: Einaudi 1994, p. 21
[2]. L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, Roma: Editori Riuniti, 2006, p. 94