Quando i libri sono di tutti e di nessuno. Un quaderno di lavoro condiviso su Elena Ferrante, ecologia e femminismo
PRIMO
Poco prima dell’estate la redazione di una rivista di critica e ricerca letteraria mi ha chiesto un contributo su un argomento che mi interessa molto, specie in questo momento che sto riflettendo in modo un po’ più accorto sulle mie scritture, quelle pubblicate, quelle ancora inedite e quella cui mi sto dedicando adesso, di altro genere rispetto ai miei lavori di poesia e saggistica. Frattanto la Casa delle donne di Pisa mi ha fatto sapere che sta organizzando un gruppo di riflessione legato alle opere di Elena Ferrante che si vorrebbe occupare di moderare la presentazione de Il libro di tutti e di nessuno (V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020) a novembre finalmente in presenza a Pisa. La cosa mi ha fatto molto piacere, naturalmente. Ma anche mi ha fatto rendere conto come da quel mio saggio emergano questioni cruciali e elementi della mia ricerca personale su cui devo tornare. In effetti già quel quesito tardo primaverile, mi aveva colto sul vivo e mia ha accompagnato per un po’, risuonando in modo esponenziale proprio in questi giorni in cui tutto sembra si stia rimettendo in moto. Qualcosa ricominciando davvero daccapo, e qualcos’altro invece che riesce a trovare in modo stupefacente una continuità con pratiche annose e così pervicaci che neanche una pandemia in tutta evidenza è riuscita a disarcionare.
Perciò ho immaginato di portare, qui sul mio sito, il quaderno di lavoro che sto compilando in questi giorni e che vorrei idealmente condividere con chi ha voglia di leggere di Elena Ferrante ma certo non solo. Sarà un lavoro che pubblicherò qui in corso d’opera (con tutti i limiti del caso) per motivi precisi che spero saranno chiari a quelle e quelli che avranno la pazienza di leggere fino in fondo questa prima parte che funge anche da introduzione a questo quaderno di lavoro intitolato Quando un libro è di tutti e di nessuno.
Nello specifico vorrei sviluppare alcuni elementi che Il libro di tutti e di nessuno propone, perché mi paiono ora più che mai connessi a una riflessione sul presente che desidero condividere. Grazie quindi alla Casa delle donne di Pisa che mi sta dando un buon motivo per tornare a mettere a punto temi importanti per me. Ma anche grazie a quella rivista che chiedendomi un pezzo che rispondesse a una domanda che mi riguardava così da vicino, ha acceso una riflessione che tuttora mi anima e mi ispira.
Quella domanda, per come l’ho letta io, si può riassumere in questi termini: la realtà cui la scrittura si riferisce è sempre la stessa, anche se l’intento che la suscita, riguarda formati di scrittura differenti come narrativa, poesia, saggistica, giornalismo, storiografia? La realtà è la stessa, anche se il genere sessuale di chi scrive si esprime in termini centrali nell’economia di una scrittura che si riferisce alla realtà che è sotto gli occhi di tutti? Come accade ad esempio in Ferrante, nell’opera della quale la narrazione è apertamente condotta secondo una prospettiva di genere, e si alimenta dei temi di questa prospettiva. E noi lettrici e lettori contemporanei cosa dobbiamo pretendere da tutte queste forme di scrittura, affinché la realtà che ci illustrino non sia un diversivo, un inganno, un mero esercizio narcisista in cui chi scrive vuole esercitare soprattutto un potere che ha l’obiettivo di ottenere consenso?
Ricordo molto bene il giorno di parecchi anni fa in cui con la mia casa editrice tedesca abbiamo immaginato un titolo per il libro su Elena Ferrante che stavo pubblicando con loro e che poi sarebbe uscito in Germania nel 2018. Ricordo di aver chiesto, come chiesi poi alla mia casa editrice italiana, che il nome di Elena Ferrante non figurasse nel titolo ma rimanesse impigliato nel sottotitolo. Nel mio sentire ciò doveva significare che gli argomenti, la ricerca, le citazioni, un certo modo studiato di orientare l’illustrazione e la collocazione di quello che ho chiamato dispositivo Ferrante, significasse fin dalla prima occhiata alla copertina, un lavoro indipendente, indipendente anche da madrinaggi e equivoci sulla necessità di possibili accrediti.
Il mio obiettivo con la scrittura di quel libro non era usare il nome di Elena Ferrante ma era collocare quel dispositivo in una realtà italiana, per come la mia soggettività la percepiva, perciò dal mio punto di vista, una realtà di genere e poi globale, che fosse il meno possibile il frutto di una presa di posizione di un gruppo, di una condizione o professione, di una qualche mia appartenenza. In entrambi i libri, quello tedesco e quello italiano, esiste un capitolo dedicato al senso e ai motivi di questo titolo.
Nel rispetto di questa mia esplicita richiesta il libro tedesco si intitolò Bambole napoletane (V. Scarinci, Neapolitanische Puppen. Ein Essay über die Welt von Elena Ferrante (trad.Ingrid Ickler) Colonia, Launenweber, 2018) quello italiano Il libro di tutti e di nessuno cioè esattamente come avevo chiesto. Volli quel titolo perché riformulava un concetto importantissimo espresso da Elena Ferrante, uno di quelli che mi convinse su tutto quando anni prima che l’autrice raggiungesse la fama mondiale, ne avevo colto un’analogia profonda con il mio modo di intendere la scrittura
Tra il libro che va in stampa e il libro che i lettori acquistano c’è sempre un terzo libro, un libro dove accanto alle frasi scritte ci sono quelle che abbiamo immaginato di scrivere, accanto alle frasi che i lettori leggono ci sono le frasi che hanno immaginato di leggere. (E. Ferrante ‘Il libro di nessuno’ in La frantumaglia. Nuova edizione ampliata, Roma, Edizioni e/o 2016, p. 185)
Quel concetto è lo stesso che ha permesso a molte e molti che hanno lavorato sulla materia ferrantiana (ma anche a molte scritture che con Ferrante niente apparentemente hanno a che fare) di usare in modo più o meno dichiarato questo ormai ineludibile dispositivo che Elena Ferrante rappresenta. Ovunque, dopo Ferrante, si legge di amicizie femminili ambivalenti, di subalternità sociali, psicologiche e di genere, di madri e figlie che si odiano e si amano, di famiglie rese disfunzionali dalla troppa povertà, ricchezza o avidità.
Quello che veramente fa la cultura però, la cambia e la rende dialogante con il reale è quel terzo libro che Ferrante ha teorizzato in modo esplicito e diretto chiamandolo il libro di nessuno: quello che non è ciò che l’autrice ha scritto o quello che lettrici e lettori hanno letto, ma ciò che l’autrice in un regime di parità assoluta, ha immaginato che fosse reale, e reale si è dimostrato tanto per chi ha scritto quanto per chi ha letto, nei termini in cui l’immaginazione è stata capace di modificare la realtà.
È sotto gli occhi di tutti che questa operazione dell’immaginario è diventata più vera della realtà. È l’immaginazione che crea per così dire una relazione di tipo ecologico che attiene a ciò che rende vera la cultura, perché rende gemelle letteratura e natura, le iscrive in un divenire incessante che ha per motore il tempo per come è conchiuso nella capacità immaginativa dell’umano.
Non posso non pensare a questo proposito a uno dei libri più belli che ho letto quest’anno grazie a un suggerimento di Elvira Federici, Sentire e scrivere la natura di Chiara Zamboni ( C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, Milano, Mimesis, 2020). Tra le molte illuminazioni di cui sono debitrice a quel libro ce n’è stata una che mi ha rassicurata sul mio modo di procedere quando affronto la pagina. Un procedimento che ho sempre seguito istintivamente e che mi sono legittimata per analogia con un processo del tutto simile a quello che ha riguardato l’esistenza e il potere di quel terzo libro così lucidamente e precocemente inquadrato da Ferrante al punto di farne uno dei motori della sua poetica di poi. Zamboni scrive riferendosi a Ingeborg Bachmann (il tipo di legame di questa autrice con Ferrante è espresso in forma germinale ma esplicita ne Il libro di tutti e di nessuno quando parlo di trascendenza)
Si tratta del passaggio dalla realtà all’emergere del reale, carico di onirico. Dove, per realtà possiamo intendere ciò che rientra nel mondo dei fatti, mentre il reale intrattiene un rapporto con il visibile non visto (…) Occorre essere radicalmente scostati dalla finta armonizzazione della realtà, per cogliere la verità nella percezione stessa. (…) è necessaria una specie di attenzione fluttuante, di sentire tra conscio e inconscio, una sensibilità aperta a percepire la dimensione onirica della realtà. (…) La storia è dimensione verticale del percepire, che è però intrecciata con l’esperienza sognante di lande desertiche, di luoghi altri e lontani. La percezione ha una trama inconscia, onirica che ci fa cogliere, intensificando, l’essenza delle cose presenti. (p.19-20)
Del resto ogni scrittura degna di chiamarsi tale risponde a ciò cui si riferisce Bachmann: Di che cosa parlare? Al meglio di qualcosa di evidente (possiamo leggere questo preambolo in Christine Koschel e Inge von Wendenbaum, in I. Bachmann, Luogo eventuale, p. 71-72). Cioè parlare di quale reale se non quello evidentemente situato in una prospettiva riconoscibile, come ad esempio è il caso di Ferrante, e di altre e altri che per la propria scrittura hanno preferito un inquadramento di genere.
In ciò Zamboni, dal canto suo, riecheggia magistralmente proprio parlando di uno degli aspetti della differenza di genere sessuale nella scrittura: “Lo stile di scrittura segue dunque ciò che è evidente, attraverso il mostrare, l’indicare un fatto dopo l’altro. Si sottrae così a un discorso interpretativo, che cerchi un’interpretazione di accadimenti disturbanti” (p. 21). Lo fa Ferrante da sempre, ho tentato di farlo io seguendo l’insegnamento relativo al valore di quel terzo libro che non interpreta proprio nulla, che per dirsi non stabilisce gerarchie di riferimento, che non aderisce a linee di pensiero. Ma che si pianifica in termini di opera ricalcando l’andamento delle evidenze, la loro tempistica, le illustra ma non le spiega, perché occupandosi tanto del reale attraverso la propria scrittura, quanto del lavoro dell’altra/altro, un conto è intonarsi un conto è interpretare.
Operando in questo modo su una scrittura di cui non si è autrici, si tradisce l’opera? La si ruba un po’ a chi l’ha scritta? Penso di sì, ma questa scienza così alternativa è anche quella su cui si sono fondate e rese riconoscibili genealogie espressive oppresse e recluse. Per riuscire a cogliere i contorni di una soggettività che possa dire finalmente io, quando quell’io non è visibile al mondo, non e nominabile, è irriconoscibile anche a se stesso, l’unica possibilità è dirsi/indagarsi per differenza e analogia, rispecchiandosi con quanto è evidente e con chi è riuscito a esistere solo dicendosi. Questo Elena Ferrante, teorizzando la poetica del terzo libro, lo aveva intuito, lo ha detto e ne ha fatto romanzi.
Quando il linguaggio si intona, dice Zamboni, al movimento dell’infinito è inevitabile che vada da essere a essere. Ed è, penso, inevitabile che crei relazioni non preclusive che proliferano da quella letteratura che può intendersi una delle prime forme di ecologia che introduce a quella che ci serve di introiettare ora più che mai, cioè una materia che ha per oggetto le funzioni di relazione tra persone, organismi vegetali e animali e l’ambiente in cui tutto è immerso. Dove l’ago della bilancia è sicuramente la qualità della relazione.
Nel caso di Ferrante posso testimoniare che tutto ciò funziona, ha funzionato in termini globali perché ha creato una pletora (plètora significa in patologia vegetale, abbondanza anormale di succhi in una pianta) di lavori che ponendosi liberamente in dialogo con un’opera letteraria hanno davvero creato un altro ecosistema e hanno scardinato molte preclusioni relazionali, di genere, sociali e gerarchiche. E anche gli alti livelli raggiunti dal lavoro di alcune donne che se ne sono occupate, sono stati legittimati via via che il mondo legittimava l’opera di Ferrante. Livelli alti perché se da una parte quelle donne che li hanno raggiunti erano allenate a studiare e introiettare un modus operandi creativo e relazionale maschile molto preclusivo (dico maschile perché lo hanno inventato gli uomini ma lo praticano e lo subiscono la maggioranza delle persone) nel dispositivo Ferrante hanno potuto liberare quella loro scienza altra, una scienza legata al loro altro leggere. La scienza dell’intonarsi ai movimenti del reale e a tutto il reale che si è in grado di percepire, più che quella di attenersi alle indicazioni inevitabilmente autoritarie di un sapere prescrittivo che tende a una fissità pretestuosa e falsamente ieratica. La scienza di questo scrivere ricalca quello che Zamboni chiama un dire in fedeltà a ciò che sentiamo via via (p.31) restando in una relazione per così dire ecologica con un reale che è multiforme.
Esiste davvero quella differenza di genere, letterario e sessuale, che rende la scrittura diversamente esplorativa, pur trattando di una realtà necessariamente condivisa? Io penso di sì, ed è il motivo per cui sono femminista. Tutto quello che ho visto e letto fin qui, me lo conferma. Però ho anche altre domande senza risposta: pur vivendo una realtà che tende all’infinito, tanto quante sono imponderabili le sfumature della soggettività di ciascuno, di che cosa parliamo quando crediamo di dire la verità? Quando crediamo a qualcuno che dice di raccontarci la verità? L’indice di variabilità in cui è iscritto il senso di questa realtà cui tutte le scritture dovrebbero riferirsi quando si vogliono vere, quanto è dipendente dalla qualità del rapporto che emittente, cioè chi scrive, e ricevente, cioè chi legge, istaurano nel patto relazionale che ogni tipo di scrittura propone? A questo proposito si guardi il capitolo del Libro di tutti e di nessuno che intitolo Frantumata (p.109-112).
La poesia ad esempio vive, più di altre scritture, di una componente inconscia, che in qualche modo ne è la centralità e perciò si costituisce come una variabile decisiva in termini di comunicazione, una variabile imponderabile e questo bisogna accettarlo. Una scrittura saggistica alle parole dovrebbe imprimere forse una maggiore convinzione razionale se non altro perché il suo obiettivo è quello di cercare una forma di coerenza che sviluppi il discorso oltre un punto di partenza noto. Per non parlare della narrativa, luogo dell’incontro per eccellenza: se l’emittente e il ricevente si vogliono incontrare davvero dentro una storia inventata, se vogliono diventare davvero l’una/o lo specchio dell’altra/o, come in amore, ci vuole abbandono e spirito di carità, ci vuole reciprocità, e forse ci vuole anche di perdonare qualche bugia, altrimenti non funziona. Sul rapporto tra verità e bugie nell’opera di Elena Ferrante si guardi ne Il libro di tutti e di nessuno il capitolo che intitolo Gli adulti sono bugiardi? (p.16-21)
Sul funzionamento di una scrittura, ossia su quanto possa davvero essere in grado di illustrare la realtà materiale e simbolica del vivere, a me pare che pesino in senso negativo il travisamento di due fattori che mi sembrano onnipresenti oggi e mi schiacciano. Quello legato a un così detto uso del linguaggio politicamente corretto, e legato a un modus operandi politicamente molto connotato che genera codici linguistici rigidi, che a loro volta generano gruppi di appartenenza per nulla permeabili alla pluralità di linguaggi di cui chi lavora con la scrittura dovrebbe sempre considerare il grado di risonanza in termini reali e non solo ideali. E quello che accosta ogni genere di scrittura alle regole di uno storytelling volto al profitto, inteso come vendita, consenso, successo della propria scrittura pubblica, promozione e iconizzazione della propria immagine mediatica. Le derive dell’una si iscrivono nelle derive dell’altra: quando l’attivismo si fa opera artistico letteraria, può diventare un marchio che usa gli stessi metodi che combatte per vendersi al consenso e al mercato, cessando l’opera in questo modo di spendersi in quell’economia di relazione ecologica che contiene, quello che oggi chiamiamo presente, ma che esiste al mondo tale e quale da sempre.
Da persona che ora sta scrivendo un romanzo che si vorrebbe storico, sono obbligata a chiedermi quanta realtà può custodire e comunicare una scrittura che si mette alacremente in regola con l’istituzione dello storytelling, o un’altra che si fregia attraverso un’operazione creativa di sviluppare gli assunti impositivi e preclusivi che segnano confini oggettivamente invalicabili in merito al vero, minacciando con ciò ogni immaginazione che la possa accostare. Può un regolamento narrativo che vale per la pubblicità che ti deve far comprare, per la politica che deve procurare accoliti e produrre schieramenti, condivisioni, like, valere anche per una scrittura tesa esclusivamente sul filo di se stessa? E può valere anche per una scrittura che si riferisce al passato e che con ciò dovrebbe leggere in controluce tutti i documenti? Nessuno escluso, anche quelli seppelliti dal disinteresse per una questione in cui non vi si trovino politiche tramandabili ai posteri. Magari in favore di un’altra politica che è giunto il momento di trattare con tutti i riguardi per risarcirla e farla diventare anche lei storia con la S maiuscola. E questo a prescindere dalle verità possibili o certe, dalla realtà mutabile o immutabile che concerne una storia sepolta dal tempo o una presente oberata dalle infinite pretese di verità che spesso con l’autenticità letteraria c’entrano poco. Si veda a questo proposito il capitolo che ne Il libro di tutti e di nessuno intitolo Perché il romanzo di Elena Ferrante è politico (p.11-15) e per tutto il discorso di cui sopra il capitolo dell’edizione italiana che si intitola come il libro medesimo (p.22-28).
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