Il romanzo storico è quello che ho studiato e su cui mi sono arrovellata di più negli ultimi anni. Del romanzo storico mi interessa come l’invenzione narrativa si relazioni ai documenti che a loro volta hanno in sé una variabile legata a un’involontaria o volontaria menzogna. Chi li ha scritti è figlio del suo tempo, si sarà sicuramente misurato con le fake news della sua epoca, avrà fatto i conti di quello che potevano essere le opinioni diffuse, il modo in cui l’informazione veniva veicolata e pilotata. Se l’informazione era contenuta in una lettera o gli fosse pervenuta a bocca come si diceva nel tardo medioevo. Se le informazioni su cui ragionare stavano in un dispaccio militare, in una legge, in una sentenza di tribunale o se venivano da spie disperate o prezzolate o tutte e due. Se la fonte dovesse o volesse rimanere anonima, allora a chi attribuire l’informazione per darle credibilità? E se qualcuno avesse riferito qualcosa di cruciale a qualche cronista che era noto per l’efficacia con la quale avrebbe fatto trapelare quel segreto, magari inventando o componendo artatamente una storia bella, o utile a qualcuno, cui il tempo avrebbe dato dignità documentaristica? Lo scrittore o scopritore di quel documento poi doveva essere persona socialmente abbastanza in vista perché quella testimonianza potesse essere accreditata come un fatto e non una ciarla. Inoltre questo ipotetico latore del documento che ci interessa oltre che avere le sue buone ragioni per redigerlo avrà anche dovuto considerare le opinioni del suo partito, le idee degli avversari, il grado di credulità dei suoi simili. Infine e prima di tutto, per gran parte della storia che conosciamo, lo scrittore del documento che ci è pervenuto, è maschio. Dicevo, ho cominciato a leggere i romanzi storici scritti da donne a partire da una decana, Maria Bellonci. Ho iniziato dalla sua Lucrezia Borgia nonostante mia madre mi avesse regalato intorno ai diciott’anni Rinascimento privato. Lucrezia l’ho letta prima e poi ascoltata attraverso un audio libro in una conturbante e travolgente lettura di Anna Bonaiuto. La penna di Bellonci e la voce di Bonaiuto insieme mi hanno fatto capire una cosa sul romanzo storico per come me lo sento, che altrimenti non avrei capito mai, credo. Quello scrittore di documenti i cui fatti si stagliano non inconfutabili oggi grazie al lavoro di ricerca storica che continua da parte di molte e molti, Bellonci con un romanzo scritto parecchi anni fa l’ha confutato. Non in modo diretto ossia negando l’attendibilità dei documenti da cui tutte le sue pagine sono sostenute ma con un linguaggio non da scrittore ma da scrittrice. Poi Anna Banti con la sua Artemisia mi ha confermato che l’invenzione calibrata su altri pesi e misure può dire una parte femminile della storia che lo scritture di documenti neanche si immaginava che esisteva realmente, mentre cercava di risolvere il problema di accreditarsi come fonte degna di passare agli onori della storia. Proprio stamattina su Rai5 si parlava di Umberto Eco, de Il nome della rosa, di come Eco cambiò idea provocando lo sdegno dei suoi sodali sul fatto che una trama classica, una trama addirittura ispirata ai libri di Conan Doyle potesse ancora dire qualcosa a lettrici e lettori. Eco si documentò moltissimo, e chi lo nega? Ma un po’ inventò, giustamente, perché il suo voleva che fosse un romanzo. Cambiò idea insomma e cambiò genere e per quel libro da saggista ossessionato dall’accuratezza delle fonti, divenne uno che mise nel suo romanzo nomi di erbe che al tempo dei frati dell’abbazia dei delitti del suo giallo non erano conosciute. Ma scrisse Il nome della rosa e come andò lo sappiamo tutti. A un certo punto del documentario che ho visto stamattina Eco dice una cosa fighissima, una cosa tipo che nel romanzo basta che la bugia che vogliamo raccontare sia consistente. Ha utilizzato proprio la parola consistente, mi pare. Io Il nome della rosa non sono mai riuscita a leggerlo fino in fondo. Colpa mia perché lo so che è un monumento del romanzo storico e della letteratura italiana. Ma Lucrezia Borgia e Artemisia sì. Bellonci e Banti le ho lette e rilette perché nel doppiofondo della loro voce, nel controcanto delle loro immagini si avverte che quello che mancava alla storia nota di queste due personagge era anche ciò che premeva di più alle autrici. Quello che non si trovava nei documenti scrupolosamente consultati, Bellonci e Banti lo hanno creato, ciascuna a suo modo, con una operazione simbolica legata al linguaggio, relativa alla trasposizione narrativa di una esperienza di genere. Non esperienza di vita ma di genere sessuale, voglio dire. Non sto dicendo esperienza biografica di un’autrice che usa una vicenda storica per raccontare la propria vita ma esperienza di una dimensione di genere e di come renderla universalmente riconoscibile attraverso un linguaggio che ne sappia raccontare risvolti fino ad allora impensati. Biografia e esperienza di genere del resto sono due dimensioni correlate ma non sovrapponibili. Rileggetele oggi Banti e Bellonci e vi accorgerete che questa operazione creativa e letteraria di inventarsi di sana pianta un linguaggio senza passato, ha sopperito in parte al tantissimo che ancora manca al racconto della grande storia.