PRIMA PARTE
Nel 1998 avevo 25 anni e Poesia pubblicata da Crocetti la trovai per la prima volta all’edicola del mio paese. Una sorpresa, la poesia non mi arrivava in quel caso come Anterem, per posta sotto forma di un prestigioso fascicolo, ma un giorno per caso l’ho trovata che mi guardava dall’edicola della piazza attraverso la foto di un volto di una persona che non era detto che fosse morta, anzi. Come per Anterem quelle persone agivano da vive, nei versi che scrivevano, evidentemente anche dentro la mia vita. Ricordo benissimo l’impressione che suscitò in me la lettura de L’infanzia dei nomi di Giorgio Bonacini trovata su un numero di Anterem quando quel poema era ancora in uno stato germinale, e quanto quel precedente che ha legato la mia formazione di poeta a quella rivista, abbia reso il mio lavoro di scrittura potenzialmente foriero di tutto il nuovo che ha più o meno potuto esprimere poi.
Il numero 358 di Poesia non è che ci sono partita da casa per comprarlo perché in quel caso avrei dovuto giustificare l’uscita come di stringente necessità. E a dirvela tutta in tempi di lockdown dire alla Municipale che una rivista di poesia può rientrare in quella casistica, mi è sembrato rischioso. L’ho invece comprato in quella stessa edicola di fronte alla farmacia, in cui comprai il primo numero dei tantissimi acquistati poi, uno o due giorni prima di Pasqua quando ho avuto la giustificazione di andare in paese in quanto le preziose mascherine erano finalmente arrivate.
Perciò in maschera e con la mano guantata in lattice, ho finalmente potuto procedere all’acquisto rituale dell’ultimo storico numero in cui Poesia esce in quella che ormai era la veste editoriale di sempre. Poi da maggio 2020 non sarà più un mensile disponibile in edicola ma un bimestrale con il doppio delle pagine, da comprare in libreria: “Lo sforzo del cambiamento, la solidità e il prestigio di un editore storico come Feltrinelli, il lavoro di vecchi e nuovi collaboratori ci consentiranno di ampliare l’offerta di proposte, di articoli e di traduzioni dei maggiori poeti di tutto il mondo” leggo, e non mi consola, sull’editoriale dell’ultimo numero di un giornale che non troverò mai più all’edicola in piazza. In copertina il volto gentile ma per niente rassicurante di Nelly Sachs e all’interno tra l’altro Rimbaud, che recita il titolo dell’articolo in modo assai indicativo dati i tempi, fu un poeta che superò se stesso fino ad annientarsi.
Lo sappiamo, lo abbiamo detto, lo abbiamo ascoltato fino allo sfinimento, questa fase così densa e straniante data dall’immobilità da lockdown, al di là della retorica dell’#andratuttobene e dei soliti catastrofisti, riguarda tutto: l’amplificazione delle cose per quelle che sono, la metabolizzazione di un recentissimo a posteriori di ciò che era contemporaneo solo meno di due mesi fa, per non parlare della lotta di certe cose per restare tali mentre quelle che si vogliono nuove di zecca nascono alla luce perturbata di un oggi che arriverà a breve ma di cui sappiamo ancora pochissimo.
Comunque chi può si impegna in un adeguamento a una complessità ulteriore, che se non fosse così spaventosa sarebbe avvincente. Questo adeguamento lo sta mettendo in campo anche il mondo della poesia o per lo meno quello che concerne alcune scritture definite come tali o movimenti performativi che emergono sotto questo nome insieme alla loro analisi e diffusione.
Anterem che quest’anno bandisce la trentaquattresima edizione del Premio Lorenzo Montano (qui il bando a scadenza 30 aprile) include la possibilità dell’invio in formato pdf anche relativamente ai libri editi partecipanti. E con l’occasione la redazione mette in consultazione gratuita online attraverso il suo sito, il consueto Carte nel Vento, (disponibile qui) periodico del premio che propone la presentazione delle opere segnalate e finaliste dell’edizione 2018: “Tutte le opere sono introdotte dalle note della redazione di “Anterem”: senza definizioni generiche, abbiamo cercato anche questa volta di accompagnare le poesie e le prose qui contenute con spunti di lettura originali”.
Anterem è una rivista letteraria fondata nel 1976 e nasce come un laboratorio fortemente orientato alla ricerca nell’ambito della poesia della contemporaneità. L’impegno, come scrive la redazione “riguarda la natura stessa del pensiero poetico. Concretamente, “Anterem” è il risultato del confronto tra ricerca poetica individuale ed elaborazione teorica collettiva”. Dunque un dialogo niente affatto scontato che è avvenuto entro un arco di tempo molto esteso tra uno dei modi in cui si può intendere la specificità della poesia e il mondo di fuori. Il Premio Lorenzo Montano venne costituito per arrivare a questo, oltre che allo stesso fine è stato fondato un Centro di Documentazione sempre intitolato a questo poeta. Una continuità definita dall’appuntamento mai mancato con adeguamenti costanti, che hanno garantito anno dopo anno la pubblicazione delle sillogi inedite vincitrici in versione cartacea, e il lavoro di critica letteraria sui materiali tra editi e inediti pervenuti al premio, condivisi liberamente in rete attraverso pubblicazioni digitali. Anterem ha di fatto costruito, senza pregiudizi, una mappa spazio temporale di quello che è connaturato al variegato tessuto umano della produzione poetica italiana.
Non per fare l’ottimista che non sono ma a me pare che farsi pervadere da una necessità di adeguamento attraverso una mobilitazione e un’espansione delle possibilità fornite dalle risorse cui potenzialmente si ha accesso, sia un fatto che nella difficoltà dell’andamento passato e attuale è annoverabile tra quelli positivi, specie se parliamo di un frangente così specifico e di nicchia come quello della poesia.
Ad esempio l’adesione de il verri alla solidarietà digitale attraverso la possibilità di scaricare gratuitamente il numero 72 “La poesia fa male” è un buon segno che fa pensare a un desiderio/bisogno di maggiore diffusione relativa alla complessità di certe forme e modalità inerenti, inamovibili e chiuse in quanto tali. La rivista a lungo considerata tra le più importanti in Italia è stata fondata nel 1956 da Luciano Anceschi e ininterrottamente uscita nella sua versione storica fino al 1995 cambiando diversi editori e qualche volta autogestendosi, per poi riprendere l’uscita in una seconda fase dal 1996. Milli Graffi, attuale direttrice, attraverso l’editoriale del numero in questione descrive così il motivo del titolo nato intorno ad alcuni eventi riguardanti lo studio e la commemorazione della poesia di Nanni Balestrini: “La poesia fa male e La poesia fa bene […] estremi assolutamente compatibili e contemporaneamente presenti del linguaggio poetico. Può capitare che nel fare il male, si susciti il bene. E viceversa nel fare il bene (tema che Balestrini ha in seguito ampiamente sviluppato in tutte le sue poesie sul pubblico della poesia) capita che si finisca col produrre una ragguardevole quantità di ipocrisia”.
Di questo numero 72 mi ha molto colpito l’intervento di Chiara Portesine nell’articolo «Bien recueilli, débouté de chacun»*:la missione del critico (accademico). Portesine inquadra per altri versi un aspetto della specificità, stavolta relativa alla critica letteraria che riguarda la poesia, di cui ho avuto modo di parlare attraverso una citazione dal Dopo il covid-19 di Leonardo Caffo (qui) che invece si riferiva alla specificità della filosofia. Scrive Portesine:
“Prendere la parola a proposito di uno ‘stato attuale della critica’ significa accettare preliminarmente una divisione schizofrenica tra due settori di produzione del sapere (l’Accademia e la ‘militanza digitale’) che si esplicitano, nella prassi, in due piattaforme di riproduzione e divulgazione dei contenuti rigidamente perimetrate (le riviste di settore e i blog). A ogni settore la sua narrazione irrelata, un’autofiction della letteratura e dei suoi ‘operatori’ che racconta due campi d’applicazione e due ‘tipi’ umani diversi”.
Non per fare la pessimista che non sono ma se ho capito bene la questione della specificità impegnata nell’esclusivo sondaggio delle proprie complessità così come l’autofiction degli operatori dei diversi settori culturali impegnati nella militanza digitale, produce narrazioni irrelate. Ma che cos’è una narrazione irrelata quando parliamo di poesia o di romanzo? Non che io conosca la risposta. Detto tra noi una cosa che mi solleva è quella di non sapere rispondere a una domanda come questa, da cui può nascere un allettante ginepraio di indagini alla volta di mete pressoché impensabili, questo sia scrivendo romanzi e poesie in proprio, sia ragionando su quelli di altri. Ma il fatto che proprio “ora” l’open sources di molte pubblicazioni diverse tra loro, inizi a inquadrare il problema in termini di “tipi umani” ossia di persone e di comportamenti precipui che definiscono nel bene e nel male l’applicazione delle loro discipline nel contesto social(e), è bello, almeno io lo trovo bello e liberatorio.
L’applicazione e esclusiva dedizione alla propria disciplina e il consenso diffuso alla autonarrazione come velleità, è possibile che, al di là del contesto e del linguaggio in cui avvengono, spesso sembrino un’operazione dello stesso segno? Ci fa male vederli entrambi come limiti appartenenti a un passato pericoloso in cui il mostro è stato soprattutto l’avvento di internet venuto a nuocere a certe accreditate ma rigide integrità cartacee e accademiche? O di contro che sia un bene che quello stesso mostro sia arrivato a promuovere e diffondere disordinatamente, e senza badare troppo a gerarchie e sfumature, contenuti prodotti da tipi umani che, con buona pace di chi vorrebbe diversamente, non sono poi così differenti tra loro e da chi li ha preceduti? Bisognerà che quelli che scrivono se lo chiedano specie ora che più di prima si può non riuscire a cogliere una realtà che quanto a irrealtà, è foriera di sorprese peggio della fantascienza.
A breve la seconda parte.