Quando i libri sono di tutti e di nessuno. Un quaderno di lavoro condiviso su Elena Ferranteecologia e femminismo

SECONDO

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Dall’invisibilità  all’essere visti  (p. 132 – 136) è il titolo di uno dei quarantadue brevi capitoli che ne Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo  si riferisce genericamente a un soggetto plurale maschile, e non come avviene nel titolo di questa seconda parte del quaderno di lavoro.

Questo quaderno, come detto, ha la caratteristica di essere un testo che viene pubblicato più o meno nell’immediato in cui viene prodotto perché si vuole confrontare con avvenimenti  pressoché contemporanei. Scrivo infatti a una settimana dall’uscita del dialogo via email pubblicato dal Financial Times tra Elena Ferrante  e Marina  Abramović  e dalla pubblicazione su Tutto Libri de La Stampa del discorso dell’autrice inviato al posto della sua persona nell’ambito del conferimento di uno dei più prestigiosi riconoscimenti letterari dei Paesi Bassi, il Premio Belle van Zuylen dell’International Literature Festival.

Dall’invisibilità all’essere vista ovvero la performance del corpo femminile mancante  è il titolo invece che ho scelto per il testo che state leggendo e si riferisce a una soggettività singolare e femminile. Questa discrepanza grammaticale, tra il titolo del capitolo del mio libro e questo testo che sto scrivendo ora, non è casuale.

Così come non è casuale che il resto del titolo di questa seconda parte del quaderno esprima quella che sembra a un primo sguardo una contraddizione in termini. Un concetto di performance riferito a un corpo che manca, riducendo la questione ai minimi termini,  significa compiere, eseguire, dare forma e visibilità a qualcosa, senza che compaia l’artefice di ciò, che però esiste, è enunciato, si tratta di un corpo femminile mancante. Scrivevo a questo proposito già nell’edizione tedesca del mio libro nel 2018 e poi in quella Italiana

Attraverso la propria immagine mancante (Ferrante) ha infatti acceso i riflettori su un vuoto che urlava da tempo il bisogno di essere colmato. L’assenza dell’autrice come corpo e come identità femminile non è da considerarsi un elemento esterno al romanzo di Elena Ferrante ma è posto nell’ambito del dispositivo rappresentato da tutto ciò che concerne questa autrice, a segnalare una mancanza che investe in larga misura sia la società che lo statuto del romanzo.(V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020 p. 27)

Per sostenere quanto la performance narrativa  di Elena Ferrante si trovasse in questa mancanza data  dall’incertezza  di un  passaggio dal invisibile al visibile, dal non esistente all’esistere determinato dall’esercizio di un qualche potere esterno, mi sono riferita a Ferrante  parafrasando il pensiero di Judith Butler 

il riconoscimento reciproco, e quindi l’essere visti, non si riduce all’identità di ciascuno. Che peraltro è un concetto statico e passibile di falsificazioni all’atto di una certificazione che sia definitivamente inclusa in un sistema di riferimento i cui elementi sono così variabili dal punto di vista storico, sociale e biologico, appunto. Ma è un luogo di continua trasformazione, quello del riconoscimento, cui si accede proprio attraverso lo smarrimento di quei parametri attraverso i quali viene governato un riconoscimento sfavorevole quando la dialettica si articola tra oppressore e oppresso. Cioè tra coloro che vivono la situazione favorevole di detenere un potere e coloro che vivono quella sfavorevole di subirlo in un sistema governato da logiche che non riconoscono altro che il proprio mandato.(V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020 p. 135)

Per confortare l’ipotesi di quel capitolo declinavo l’invisibilità/visibilità in termini universali, cioè plurali e maschili e prendevo a questo proposito in esame tutte le protagoniste ferrantiane da Delia a Giovanna cercando di delineare quell’aspetto performativo insito nella loro natura di personagge ( R. Mazzanti S. Neonato, B. Sarasini ( a cura di), L’invenzione delle personagge, Guidonia, Iacobelli Editore, 2016 ) che come soggettività non riconosciute sono costrette, o si costringono, a intraprendere  le loro vite attraverso un atto performativo, finalmente agendo nella relazione con l’altra/o, con la società, con la loro origine. La parabola di questo agire ordito dai romanzi di Ferrante ci da la misura del punto infinitesimo, che tende  all’inesistenza, in cui ogni contesto di fatto situa le protagoniste. Nonostante questo tutte tentano, quando riuscendo quando no, la performance più ardua, quella di esistere, cioè essere viste, legittimandosi, in primo luogo da sole. Lila è la personaggia per antonomasia che performa l’atto di autolegittimarsi e tutte sappiamo come va a finire: sparisce.

 

L’atto performativo che la scrittura di Ferrante compie però non è solo quello di far agire le sue protagoniste nella subalternità cui è costretto il genere femminile. In fondo alla strada di questo tentativo, quando una svolta può voler dire essere viste o non essere viste, l’incontro cruciale è quello con il potere che non è uno solo e non è sempre lo stesso. 

Il potere può trovare modo di esprimersi in forme contraddittorie inimmaginabili. Un potere può avere la capacità di incidere sulla realtà. Un potere è ciò che può legittimare qualcosa o qualcuno secondo logiche di opportunità confacenti al proprio mantenimento. Questa performance tipica del potere, che abbia luogo in ambiti marginali o in termini globali, privati o pubblici, nell’immaginario collettivo o in un contesto comunitario qualsiasi, vive anche  di altri aspetti, per così dire universali, oltre a quelli  di genere, aspetti che contribuiscono a formare subalternità sempre nuove (si veda a questo proposito anche il capitolo de Il libro di tutti e di nessuno che intitolo Vergogna sociale p.33-38).   

Tra i molti temi di estremo interesse che emergono dal dialogo tra Abramović e Ferrante è davvero un passo  breve quello che ci conduce a constatare la  capacità performativa del simbolico in cui è riuscita la scrittura di Ferrante attingendo a piene mani dai temi portanti del femminismo e del pensiero della differenza sessuale (si vedano oltre al capitolo già citato in riferimento a Butler, i capitoli de Il  libro di tutti e di nessunoLa matrice delle nostre parole (p. 101-104) e Un romanzo come trasmissione diffusa della cultura di genere p. 105-108).  È questo ciò che rende le due artiste Abramović e Ferrante  simili in un modo tutto sommato niente a fatto sorprendente. Ossia la performer di The Artist Is Present in cui l’opera coincide con il corpo e, l’altra, quella di una scrittrice tra le più famose del mondo la cui performance coincide con una scrittura, senza il corpo che la agisce, il cui tema è dedicato al femminile mancante.

Nel caso di Abramović il corpo è qualcosa che accade qui e ora, in presenza dell’artista  nel caso di Ferrante la visibilità  è separata radicalmente dai tempi in cui il corpo si lascia andare alla scrittura. Dove il corpo femminile per entrambe le artiste però è il soggetto e l’oggetto posto al centro di qualsiasi ottica performativa legata al potere in genere  e al potere indiscutibile di cui la loro arte straordinaria le ha rese latrici. Perché da sempre è così: tutto ciò che declinato su un sé a sua volta rappresentato da un corpo femminile, presente o mancante, collude e collide con il potere.

“Secondo lei” scrive Ferrante riferendosi a una sua interlocutrice epistolare americana nell’ambito del già nominato discorso tenuto in occasione del conferimento del premio Belle van Zuylen “i libri hanno bisogno di una persona monumentalizzabile. Essi non sono semplicemente la concrezione di una intelligenza, il raggrumarsi di un talento. Hanno invece la necessità di un corpo che, esponendosi nell’interezza della sua esistenza, li valorizzi valorizzandosi; un essere umano che in prospettiva si meriti l’ingresso in qualche pantheon, abbia la sua apoteosi già da vivo, faccia da corpo-bambola sulle pagine dei magazine, in televisione, sui social”.

La questione dell’analogia tra le artiste Abramović e Ferrante alla luce di questa affermazione  appare ancora più legata alla loro comune origine europea. La storia non universale del corpo, ma quella del corpo femminile, ancora così poco raccontata, è costellata di atti performativi che hanno assunto giocoforza un enorme valore d’uso. La chiesa di Roma ad esempio dopo l’ondata riformista scatenata da Lutero, impose una svolta a quello che sembrava un declino irreversibile anche attraverso il rigido controllo e l’uso di questa performatività simbolica legata al corpo delle donne. Furono per questa ragione, prevalentemente i corpi femminili, i protagonisti materiali e simbolici della Controriforma. Quelli delle sante vive, delle streghe ma soprattutto  quelli privi di vita, delle martiri protocristiane attraverso l’importanza che assunsero le reliquie per i fedeli e di conseguenza il giro d’affari costituito dal loro mercato. 

Particolare del reliquiario contenente il cranio di Maria Maddalena. St. Maximin-la Sainte-Baume. Cripta

Ogni performance si espone, anche quella esclusivamente scritta, anche questa mia di adesso nel suo piccolo, si candida all’essere guardata, perciò vista e con ciò puo generare un potere se legittimata da uno sguardo che la legge e può non esistere quando questo non accade. Come dimostrano su tutto  le vicende legate da quasi trent’anni a una scrittura come quella di Ferrante. Un potere che sta nelle cose, illustrato  dalla  realtà delle cose umane che diventa con il tempo un’evidenza difficile da smentire. Anche quando questa realtà non fosse strategicamente congegnata da un’immaginazione performativa strepitosa, comunque attingendo simbolicamente  al corpo della donna o alla sua dolorosa mancanza, trae una potenza indiretta quasi infallibile. E spaventosa. Ce lo insegna addirittura  la storia che  comunque prevalentemente è orientata a concentrarsi altrove.  Perfino la clavicola di una fanciulla  nata poco meno di duemila anni fa, se posta in una teca di cristallo, sotto una volta di affreschi e stucchi, può rendere l’ignara un vero e proprio  brand.  La chiesa cattolica sono secoli che per promuoversi e mantenersi in auge fa di queste istallazioni impareggiabili veri e propri oggetti di culto, corroborando  una mistica potentissima e intramontabile che riguarda il corpo di antiche fanciulle più  o meno ignare. 

Il 20 settembre scorso  il sito Le Ortique pubblica un articolo  di  Marilyne Bertoncini che ricorda come il corpo femminile sia stato il fulcro di un più moderno dibattito filosofico e politico che oggi si può collocare facilmente  nell’ambito della storia dei movimenti e del pensiero dei femminismi, ossia molto prima che la potentissima performance di Elena Ferrante lo ponesse sotto gli occhi dell’interesse universale

Hélène Cixous, in Le Rire de la Méduse, nel 1975, la promosse dichiarando che le donne che erano state espropriate della letteratura così come dei loro corpi dovevano reclamarli attraverso la scrittura. Questa affermazione fu sostenuta all’epoca dal lavoro della linguista Luce Irigaray, che denunciava il fallocratismo del linguaggio, come lo fu dalla critica femminista Elaine Showalter – fondatrice di Women’s studies – che definì questo movimento come «l’iscrizione del corpo femminile e della differenza femminile nella lingua e testi» (Elaine Showalter, “Critica femminista nel deserto” in The New Feminist Criticism: saggi su donne, letteratura e teoria, Londra, Virago, 1986, p. 249.) Fu il tempo di una rivendicazione politica pienamente giustificata sotto questa forma, che sceglie di porre il corpo della donna al centro della sua scrittura per richiedere di fargli posto anche in una società prevalentemente maschile, e bianca (le lotte femministe sono sempre state unite a lotte per l’integrazione delle minoranze).

Bertoncini segue il filo di un discorso evocato dal fatidico interrogativo se esista o meno una differenza di genere dentro una materia artistica e performativa spesso imperscrutabile come quella della scrittura domandandosi: “Dovremmo però attenerci a queste posizioni – arte femminile vs arte maschile – nel 2021, ora che i dibattiti sui generi e le scoperte scientifiche (oltre alla ricerca etnologica) ci portano a pensare alla binarietà come superata, residuo di un pensiero occidentale segnato anche da secoli di religione?” Secoli di religione  però in cui il corpo femminile è stato l’oggetto di una centralità occulta e ben amministrata costituiscono un antagonista niente affatto sorpassato che il pensiero dei femminismi europei si è trovato a combattere con pratiche condivise, azioni politiche su un campo di battaglia universale che è molto più vasto di qualsiasi meraviglioso intervento chirurgico che alcuni femminismi possono portare a buon esito enunciando l’auspicabile evidenza che la binarietà è superata

Un sentimento di indipendenza che deve ancora essere costruito, in quanto tutto ciò che è stato approntato nei secoli, essendo congegnato e coniugato quasi esclusivamente al maschile, è troppo differente per essere autenticamente riconosciuto da chi uomo non è. Questa corrente filosofica prende l’avvio da quelle prime critiche che Irigaray, attraverso la pubblicazione di Speculum, mosse rispetto all’interpretazione che il pensiero di Freud dava della sessualità femminile. Ponendo la donna al centro di una ricerca che riguarda soprattutto il suo corpo, Irigaray sottolinea la necessità che l’identità femminile si possa conoscere e quindi costruire in modo autonomo. Ma la decostruzione di un mondo già dato, oltre che favorire l’ipotesi di un rinnovamento, comporta almeno in prima battuta una disorganizzazione delle energie: i romanzi di Ferrante sembrano tutti nascere soprattutto dalla proliferazione ragionata di questo disordine.(V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020 p.182-183)

Il grado di espressività del dispositivo Ferrante in termini di performance da quest’ottica è ancora più impressionante perché in un segmento di tempo che va dal 1992 (L’amore molesto) al 2019 (La vita bugiarda degli adulti) è stata declinata tutta la disorganizzazione energetica inevitabile quando si tratta di passaggi cruciali, come il nascere di una creatura che dal non esistere, esiste.  Un  passaggio sempre molto incerto quello alla visibilità. Come diversamente incerto è tutto ciò che riguarda una scrittura più che altro femminile, per secoli dipendente dalla condizione vissuta da chi l’ha comunque praticatacioè un dettato  che è stato trascritto lontano dal corpo  che agisce nella socialità, tanto da correre tuttora il serio rischio di non esistere in mancanza di un posto al mondo attraverso il quale anche quella scrittura possa essere rappresentata come universale.

Continua


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