Quando i libri sono di tutti e di nessuno. Un quaderno di lavoro condiviso su Elena Ferranteecologia e femminismo

QUARTO

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Come scrivo nella prima parte di questo quaderno citando Chiara Zamboni, un certo modo di scrivere ricalca uno stile che segue nel suo idearsi ciò che è evidente. Uno stile che risulta dalla non adesione a categorie, seppure nuove, ma mostra il composito, sottraendosi così a un discorso interpretativo che cerchi di ridurre a un ordine noto accadimenti disturbanti.  Il risultato è che quegli accadimenti, per così dire fuori dalle righe, diventano i veri protagonisti delle scene ritratte come accade in tutti i romanzi di Elena Ferrante.

Come premessa di questa quarta parte del quaderno vorrei tornare ancora a quanto ho affermato nella prima parte del mio discorso, parlando di un vero e proprio ecosistema la cui emersione non scontata, è stata promossa a mio avviso proprio da questo approccio al disturbante cui Ferrante si riferisce in molte occasioni. Ossia ciò che orienta le immagini create da chi scrive verso una relazione di tipo ecologico con la realtà intesa come evidenza. Questa evidenza disturbante che a volte non trova categorie nella grammatica e nel linguaggio standard, è ciò che può rendere letteratura e natura, forse non proprio gemelle (come ho scritto in un momento di cedimento al desiderio che fosse davvero così) ma almeno sorelle elettive, i cui rapporti comunque ambivalenti, come quelli tra Lila e Lenuccia, come quelli tra Giovanna e la zia Vittoria, sono la porta d’accesso che può rendere lo sguardo qualcosa che davvero vede.

Esprimendo la natura, noi partecipiamo del suo processo e lo accompagniamo nel suo fluire di forme (C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, Milano, Mimesis, 2020 p. 37) scrive Zamboni riferendosi non a caso a una scrittrice come Anna Maria Ortese che utilizzò per prima in Italia questa forma di espressività. Una scrittura dell’espressività quella di Ortese che solo in parte si lega allo stile, dove in altra misura questo processo di accompagnamento di lettrici e lettori dentro altri aspetti del visibile, è da intendersi come una prospettiva, una posizione del soggetto diversamente collocato e diversamente consapevole della propria postura. Parafrasando Zamboni siamo con questo a un percorso diverso da tutto ciò che è illustrabile da un paradigma interpretativo che non tenga conto che questo soggetto che scrive, è parte del contesto di cui parla e non solo ne partecipa, ma anche ne è influenzato e lo influenza a sua volta.

In Corpo celeste (1997) Ortese dava questa definizione della parola inquietudine sotto forma di istruzioni per l’uso in riferimento alla propria ricerca letteraria: ricercare senza tregua il nome che avevi, e il nome del Luogo in sé. Ciò che è inquietudine, disturbo, discrepanza quando si parla di paradigmi che siano linguistici, interpretativi, ideologici, performativi già denuncia l’insufficienza illustrativa del concetto di paradigma. Per inciso qui voglio riportare solo uno dei parziali significati della parola paradigma nel caso in cui si tratti di quello grammaticale: “si usa per indicare i modelli di declinazione o di coniugazione dati dai manuali di studio” dove in tutta evidenza chi scrive e ha scritto i manuali è da intendersi come unico depositario del Verbo.

Come facciamo a non chiederci se non sia proprio il concetto di paradigma, un contesto in cui quel processo naturale che la scrittura agisce di concerto ai tempi e ai quadri che l’evidenza illustra, ciò che non può prevedere tutti soggetti che ne fanno parte e lo influenzano con le loro differenze esorbitanti e stranianti. E che tutto quanto non sia previsto, visto, o sia ignorato da un paradigma che si vuole esaustivo in termini di definizioni, possa rendersi visibile dentro un ecosistema che non nasca necessariamente da uno scarto, che non sia fondato da questa o da quella ideologia ma al contrario è qualcosa che c’era da prima, che stava nella natura, e aveva nomi propri inusitati viventi in un Luogo in sé che sta a un paradigma come il mare sta alla plastica

Ma se appena sto calma, ecco, anche questi sentieri sono l’essere stesso, materno e paterno; sono la pace. Mi sento figlia di chi non vedo. Ma non sempre sono calma. L’inquietudine è questo: ricercare senza tregua, il nome che avevi, e il nome del Luogo in sé. Un paese senza nome: l’uomo – e tutto il vasto universo – è questo. È anche terra di occupazione, perché manca di identità. In questo vuoto (di identità) precipita tutto ciò che strazia la Terra: violenza, corruzione, menzogna, arbitrio. Ritrovare l’identità, dunque – o cercarla: subito l’occupazione si fa impossibile. (A.M. Ortese, Corpo Celeste, Milano, Adelphi, 1997, p 115)

La città, la cittadinanza come e cosa può avere a che fare con l’illustrazione di quel Luogo in sé che non è solo nostro, pubblico o privato, amoroso, mediatico, agonistico, politico, relazionale, lavorativo, familiare, affettivo? È vero che non costituisce più un problema soprattutto per la reale condizione delle donne la distanza che metteva lo scrivere di una mano dentro un luogo privato e il corpo femminile corrispondente in una socialità separata? Quanta vera scrittura si smarrisce ancora dentro il baratro schiuso dalla difficoltà di colmare questa distanza? Io personalmente credo che le pagine più importanti scritte da Ferrante al momento che ha scenarizzato l’evidenza di quanto sia disturbante il quadro che questa domanda pone, siano quelle più profondamente letterarie e in un certo senso umanistiche che il dispositivo Ferrante ha prodotto in quasi trent’anni.

Torniamo alla terza parte del quaderno, quella che indicavo come uno tra i principali interessi miei nell’opera di Ferrante, ossia l’illustrazione immaginaria e possibile di come le italiane fossero entrate a far parte di un concetto più o meno agibile di cittadinanza, al momento di un confronto del tutto pragmatico con il lascito della storia, della politica e della lingua in cui questa storia e questa politica si sono configurate e cristallizzate in un percorso istituzionale. Ferrante fa un’osservazione perfettamente calzante a quello che illustra nelle vicende inventate dai Romanzi napoletani in merito all’istruzione o meglio, alla storia delle nostre istituzioni scolastiche:

Lo studio è stato soprattutto sentito come essenziale nella mobilità sociale. Nell’Italia del secondo dopoguerra l’istruzione ha cementato vecchie gerarchie ma anche avviato una discreta cooptazione dei meritevoli […] Insomma c’è stata un’ideologia dell’istruzione che oggi non funziona più. Il suo cedimento è stato evidente: i laureati allo sbando testimoniano drammaticamente che la crisi ormai lunga della legittimazione delle gerarchie sociali sulla base dei titoli di studio è giunta a compimento […] Mentre Lena insomma è il tormentato punto di arrivo di un vecchio sistema, Lila ne mette in scena con tutta la sua persona la crisi e in un certo senso un possibile futuro (E. Ferrante, La frantumaglia, Roma, edizioni e/o, 2016, pp. 360-361)

Le due amiche dei Romanzi napoletani sognano fin da piccole di diventare scrittrici. La scrittura di Elena entra in quel Luogo in sé fatto di mondo, le vicende di come questo avviene, emergono dall’immane flusso di coscienza dell’antica bambina che diventa autrice. La scrittura di Lila rimane separata dal suo corpo (La fata blu, i diari, le lettere sono un fatto privato) finché diventa un documento sindacale ma ciò accade nel momento in cui, quasi contemporaneamente, il suo corpo si ammala. L’ideologia dell’istruzione pure nell’opera di Ferrante agisce in modo ambivalente, se da una parte cementa vecchie gerarchie dall’altra copta i meritevoli e con ciò agisce in modo incalcolabile su una nascente identità civile delle italiane

Un’identità civile e femminile di cui, anche in questo caso, Ferrante illustra narrativamente una visione duplice: quella di Lila, cui non sarà possibile accedere a un’istruzione superiore ma che è portatrice di un’identità declinata al femminile che “smargina” secondo un pragmatismo scomposto ma irriducibile verso la propria autodeterminazione. E quella di Elena che compie il suo percorso educativo e perciò tenta di definire se stessa entro i parametri rigidi di una sfera pubblica, risentendo, anche in altri ambiti, di una sanguinosa lotta intestina tra la propria lingua madre, intesa come dialetto, e l’acquisizione di un italiano standardizzato; con tutto ciò che comporta a livello psicologico un uso della lingua sempre più esclusivista e connotata retoricamente. (V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020 p. 58)

Io che ho scritto e pubblicato queste parole e che resto una ferrantiana convinta nonostante tutto, alla luce di quanto di cui sopra, come faccio a non sentirmi inquieta di fronte al cortese e circostanziato richiamo della Crusca all’utilizzo di un italiano standard e ortodosso, fatto di strutture grammaticali, illustrate dai manuali, le quali rientrano in paradigmi richiamanti all’universalità del maschile? Per di più rispettando scrupolosamente i quali, opere come ad esempio il Porto di Toledo (1975) non sarebbero mai esistite. E molte gigantesche opere poetiche non sarebbero mai esistite. E niente sarebbe mai esistito di certa letteratura che si basa sull’evidenza di una realtà che si avvale di un’inventiva sfrenata soprattutto legata alla nomina di luoghi e di creature. Esseri cui la letteratura da sempre ha dato vita intendendo con ciò che non fossero metafore o similitudini riferite a qualcosa di noto, ma ritratti, canti, ricami, lallazioni che pur con stili complessi, vogliono riferirsi all’evidenza per quella che è.

Chi abbia un po’ di familiarità con l’opera di Anna Maria Ortese e con alcuni particolari biografici che si legano alle diverse vicende editoriali relative alla pubblicazione dei libri di questa grande scrittrice italiana, forse ricorderà l’annosa polemica che suscitò Il mare non bagna Napoli (1953), libro cui Ferrante si riferisce a più riprese ricordando come alcuni di quei racconti abbiano avuto un legame importante con la genesi dei Romanzi Napoletani. La polemica nacque dalla decisione che venne presa dalla casa editrice di Ortese in accordo con l’autrice, relativamente al racconto Il silenzio della ragione di mantenere i nomi veri dei personaggi maschili, amici dell’autrice. Persone per descrivere le quali nel racconto Ortese usava spesso un noi sodale ma anche nello stesso momento rilevando dolorose distanze contenute appena dai confini di quel noi. Il silenzio della ragione è un racconto che illustra una parabola esistenziale e politica decadente molto connotata ideologicamente. La illustra in termini non edificanti, immaginosi e iperrealisti che recano a quel racconto un’atmosfera molto particolare che sembra scavalcare gli anni, i generi e le ideologie

Si determinò una situazione assurda, in cui il vecchio rivoluzionario, seduto al centro della reazione, e chiamati a raccolta funzionari e ribelli, si mise a insultare tutti, e quelli abbassavano la testa e piangevano. Comunisti o liberali, eravamo pur sempre comunisti e liberali di Napoli, e lo amavamo troppo per non vedere nei suoi insulti la furia e la malinconia del mare. Inoltre tarati, deboli eravamo tutti. Egli ci diceva i nostri vizi, uno per uno, le nostre piaghe. Quello si era suicidato, questo stava per farlo, quello rubava, questo era derubato. Egli era veramente come la nostra terra, la nostra madre comune, la città che avevamo voluto vincere, e ci ricordava le nostre debolezze e vergogne, affinché mai più osassimo levarci contro di lei. Egli era questo, ed era anche il figlio di lei, di questa terra, che così facendo rinunciava per sempre a se stesso. (A.M. Ortese, Il mare non bagna Napoli, Milano, 1998, p.120)

Questo quadro letterario è un esempio di come la scrittura possa testimoniare, comprendendoli, gli antipodi di una conoscenza originaria di quel Luogo di per sé che è il mondo. Un mondo che Ortese condivideva con persone vere che costituivano anche in parte i suoi affetti. Un mondo in cui la scrittura della giovane Anna Maria negandosi a un’ottica condivisa, non di meno ambiva a prendere parte. Tuttavia superato un primo momento fatto di riconoscimenti, Il mare non bagna Napoli è costato alla nostra grandissima italiana una sorta di subdola damnatio memoriae.  E un’inversione di marcia in merito alla scelta dei temi relativi ai romanzi successivi nei quali Ortese avrebbe impegnata, tenendosi lontana dai nomi propri di luoghi e persone, la stessa immaginazione amara e lucida.

Anna Maria Ortese e la redazione di SUD

Non che Ortese sia stata propriamente dimenticata, ma a lato del Barone rampante (1957) chi è che davvero studia altri romanzi che sembrano favole ma non lo sono, come Il cardillo addolorato (1993) o Alonso e i visionari (1996)? La lettura di questi proprio oggi a scuola dimostrerebbe quanto Ortese si fosse mossa con un anticipo davvero inconcepibile rispetto ai suoi contemporanei, soprattutto nel sentimento della natura. L’opera di Ortese insegna che la natura delle cose può essere vista anche procedendo per quadri, per testimonianze che sono diversamente vere perché dicono quanto l’evidenza di quello che consideriamo contemporaneo al tempo percepito, sia invece troppo mobile e ambivalente perché l’assertività ci rassicuri almeno un poco in merito ai nostri valori di sempre.

Nel 2020 viene pubblicato da Garzanti un libro di Annamaria Guadagni che si intitola La leggenda di Elena Ferrante. Il testo si avvale della lunga esperienza di giornalista culturale dell’autrice che intona alcuni aspetti che riguardano le città ferrantiane, su tutte Napoli ma anche Pisa,  a un più vasto contro canto che individua analogie e spunti di riflessioni interessanti, come quello che Guadagni fa emergere dagli indizi secondo i quali la scelta del nome Elena Ferrante da parte di qualcuno che abbia deciso di non adottare il proprio scrivendo, possa esprimere una qualche connessione in termini di analogie culturali con le vicende biografiche e letterarie legate Elena Croce.

Per apprendere i motivi che hanno portato Guadagni a dedicare molte pagine a questo interessante e fondato punto di vista, consiglio la lettura del suo bel libro. Dal canto mio sono venuta a conoscenza di qualcosa che poteva concernere le due Elena da uno strano video amatoriale che circolava anni fa su YouTube e sembrava ripreso dal salotto di una persona che attraverso un cellulare filmasse la televisione. La televisione in questione trasmetteva uno spezzone connesso al premio Strega dell’anno in cui Elena Ferrante fu candidata da Roberto Saviano, in cui Carlo Lucarelli con la sua enfasi da detective, rivelava che Elena Croce, figlia di Benedetto, in alcune circostanze si fosse firmata Elena Ferrante. Guadagni, se la leggete, vi spiegherà in modo opportuno e suggestivo tutte le possibili connessioni storiche, bibliografiche e culturali per cui la cosa sembra essere vera.

Personalmente non ho fatto ricerche in questo senso però ho letto l’irresistibile Snobismo liberale di Elena Croce, subito dopo quella singolare affabulazione televisiva per di più piratata. Ciò non di meno quel libro mi è servito molto per capire la prospettiva che Ferrante ha usato costruendo una delle sue immagini più sagaci, quella in cui la famiglia Airota e la famiglia Greco vanno a nozze. Ferrante mandando a nozze due genealogie riconoscibilissime è come se indicasse che in quelle nozze si ripetano rituali sempiterni, mossi da una costante ineludibile  

Con la comparsa della famiglia Airota infatti Elena capisce che la disparità in ambito sociale non nasce dal valore oggettivo di ciò che si è in grado di produrre ma dal contesto da cui si proviene e dalla capacità di assorbire, facendoli scrupolosamente propri, sia gli ordinamenti gerarchici sia i codici e i linguaggi emergenti che in quella fase miravano a infrangere quegli stessi codici, come se l’infrazione riaffermasse il valore della regola: «Eravamo insomma dalla parte dell’infrazione, ma solo perché si riaffermasse il valore della regola» (V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020 p.34)

Una costante ineludibile come se appena ieri a nozze fossero andati i così detti populisti e i così detti radical chic. E ai tempi della scomunica di Ortese, che erano gli stessi in cui Lila e Lenuccia iniziavano a capire, le nozze che sarebbero naufragate, fossero state appunto quelle tra comunisti e liberali

In quest’ottica, sdoppiata e riunificata, lo scontro tra l’individuo “migliore” – in quanto di formazione umanista e classica nel suo affrontare le sfide del presente – e l’individuo che non si accetta “peggiore” – perché si percepisce contemporaneo nel rigettare la conoscenza di una stratificazione omologata della propria matrice culturale – diventano un dato. Un dato importante che, espresso dal matrimonio e dalla separazione nelle due famiglie dei Greco e degli Airota, diventa ancora più significativo in quanto capace di andare oltre l’economia narrativa di quella porzione specifica di racconto. (V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020 p. 43)

Elena Croce focalizza il momento in cui l’immaginario collettivo si cristallizzava intorno al concetto di élite. La cosa sorprendente è che esponendo questa focalizzazione da un punto di vista femminile, Croce racconta di come l’elaborazione di questo concetto abbia avuto luogo non tanto in ambiti politici, non solo per questioni legate al quantitativo di denaro che all’inizio del secolo scorso le famiglie italiane di ogni ceto sociale avevano nella loro disponibilità. Croce afferma che il concetto di élite è una elaborazione culturale femminile e lo circostanzia ancora una volta in un modo in cui sono annullati in un colpo solo il tempo, lo spazio, e le parole di chi scrive diventano, quelle sì, davvero universali ma di un’universalità di cui possiamo fidarci

E sin dalle origini queste grandi personalità femminili, che pure erano vere ispiratrici di uomini geniali, avevano dato l’esempio di un nuovo stile, aristocratico-rivoluzionario, che nel romanticismo più tardi si sarebbe poi cristallizzato nella formula delle élite: l’intimità mondana, i festini collettivi dell’anima, le meravigliose artificiali società di esseri sublimi dove il genio è parificato alla bellezza, e si crea un superiore rango, con l’inevitabile conseguenza di una volontà di potere tanto più feroce perché si tratta di “anima”, e con gli inevitabili compromessi e degradazioni snobistiche. (E. Croce, Lo snobismo liberale, Milano, Adelphi, 1990 p. 11)

Elena Croce

Quanto del concetto di élite e di potere formulato da Elena Croce si può dire superato? Per dirlo superato bisognerebbe essere così onesti da frugare nei cassetti in cui custodiamo la nostra idea culturale di bellezza, di piacere, di desiderio come se fossero gioielli di famiglia. Qualora quel sentimento così pervasivo che genera desideri falsi e veri per noi non avesse origine da ciò che Elena Croce disegna in modo così acuto nel momento della sua genesi, comunque dobbiamo convenire sul fatto che quel sentire culturale ci ha alimentato alla radice. Ammesso che ce ne volessimo affrancare, pure il miraggio di quel sentimento elitario così pervicace nomina un Ortesiano Luogo in sé. Un luogo fatto tanto delle costruzioni culturali abbaglianti attraverso le quali regna la famiglia Airota, tanto degli atavismi che rendono la famiglia Greco capace di generare una Elena così incastrata tra due mondi, ritratta nel momento in cui capisce che ci sarebbe la possibilità di partecipare a entrambi. Diversamente dall’inquieta Lila che ricerca senza tregua il nome che aveva all’inizio di tutto, lasciando prima di sparire, il mondo alla sua topografia contorta, e il cassetto dei desideri falsi e veri ben chiuso.   

Continua

*l’immagine di copertina di questo articolo è di Ivy Haldeman


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