Elena Ferrante. La vita vera, il peccato originale e il repertorio di trucchi che fanno il genio

mi sono confessata quando il libro era a buon punto, io che scrivo insieme a Lenu’, io, l’autrice, saprei fare la scrittura di Lila? Quella scrittura straordinaria non la sto inventando proprio per raccontare l’insufficienza della mia? p.111

Esce oggi in libreria da edizioni e/o I margini e il dettato di Elena Ferrante. Il libro contiene tre saggi completamente inediti e La costola di Dante, intervento conclusivo del convegno su Dante e altri classici dell’ADI Associazione degli italianisti (di questo saggio su Dante ne parlo qui) Contemporaneamente a partire da stasera per tre sere alle 20.30, va in scena al Teatro Arena del Sole di Bologna La scrittura smarginata – Le Umberto Eco Lectures di Elena Ferrante, un ciclo di tre lezioni per ascoltare i tre differenti testi: La pena e la penna, Acquamarina, Storie, io, i tre saggi contenuti ne I margini e il dettato e proposti al pubblico sotto forma orale dall’attrice Manuela Mandracchia[1].

Vi dico subito una cosa che sta a pagina 115 di questo ultimo libro di Ferrante, riguarda tre righe in cui Elena Ferrante svela il peccato originale di Lila e Lenuccia, quello che regge il dramma contraddittorio, incoerente e struggente su cui si articola L’amica geniale: Il peccato originale delle due amiche era di aver creduto di potercela fare da sole, la prima da bambina, la seconda da adulta.

È questo che urta, anzi da proprio uno spintone per utilizzare un’espressione che la stessa Ferrante usa ne I margini e il dettato. Ma anche ciò che ripropone due differenti soggettività che in ogni caso tendono a individuarsi esponendosi a essere sospettate di individualismo. Peccato comunque inconfessabile proprio perché si articola più o meno sommessamente anche tra amiche. Un’eventualità comunque dolente, di un dolore che Lenuccia cerca di blandire perpetrando amaramente lo stare in bilico tra la propria individuazione e il proprio individualismo, mentre Lila finisce per sparire forse senza aver sciolto con se stessa l’equivoco o forse proprio perché l’ha sciolto. Contraddizioni e equivoci fatali più che ambivalenze che non cessano mai di creare smagliature nel plot di quello che è l’altro sterminato e incessante romanzo costituito dalla vita vera che il dispositivo Ferrante è stato in grado di raccontare, croce e delizia di un orizzonte mai soltanto frontale, se riguarda la scrittura e l’ambizione, due frangenti in cui quando sono le donne a voler fare da sole risultano, agli occhi degli altri, spesso imperdonabili.

I margini e il dettato racconta proprio l’impossibilità di districarsi tra vita e letteratura nonché il valore fluttuante dell’ambizione di essere una vera scrittrice. Ambizione che se da un lato, come il fuoco scalda e cuoce, dall’altro può divorare anche la consistenza di quel fenomeno occasionale che è il futuro testo al momento del suo insorgere incerto, quando potrebbe diventare qualcosa di inevitabile (Ferrante usa proprio questa parola) o esaurire, dimostrando al mondo quanto chi l’ha scritto sia di fatto trascurabile. Questo a secondo di una casualità non casualità, i cui contorni Ferrante, con questi suoi saggi disegna in modo indelebile.

Intanto questi dell’ultimo libro di Ferrante appunto sono saggi, è scrittura saggistica. Non erano saggi invece i testi raccolti nelle varie edizioni della Frantumaglia (2003 prima pubblicazione), erano perlopiù interviste, né lo erano gli articoli per il Guardian raccolti ne L’invenzione occasionale (2019). Tuttavia questa dell’ultimo libro è una saggistica pensata credo anche per essere detta. Non è un particolare da poco, come non è da poco l’ormai considerevole numero di corpi e voci femminili che hanno incarnato la parola di Elena Ferrante, cancellandone così definitivamente il legame con il presunto corpo la cui esistenza in vita dovrebbe aver generato l’opera. Corpo che invece nell’oralità è un elemento decisivo allorquando è soprattutto un corpo a proferire le proprie parole. Ma quello della funzione dei corpi femminili sostitutivi di Elena Ferrante richiederebbe un lavoro dedicato. Qui ne parlo in parte illustrando la performance del corpo mancante in Elena Ferrante nel recente e avvincente dialogo pubblico con Marina Abramović.

Più o meno negli anni in cui usciva L’amore molesto (1995) veniva pubblicato Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi, il primo saggio deI I margini e il dettato, La pena e la penna mi ha riportata a una parte del libro di Tabucchi che mi colpì molto e che credo di aver letto verso metà degli anni Novanta più o meno nello stesso periodo in cui stavo leggendo L’amore molesto.

Lèggiamo in Tabucchi che i primi médecins-philosophes Théodule Ribot e Pierre Janet erano medici e psicologi, ma anche filosofi che sostenevano la teoria della confederazione delle anime. Chi crede di essere ‘uno’, secondo questa teoria, uno che fa parte di un unico sè, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, si illude, peraltro ingenuamente di avere un’unica anima di tradizione cristiana, fa spiegare Tabucchi a uno dei personaggi del romanzo. La personalità è quindi una confederazione di varie anime, indipendente perciò dal sesso biologico, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone. Quella che viene chiamata la norma, o il nostro essere, o la normalità, è solo un risultato, non una premessa, e dipende dal controllo di un io egemone che si è imposto sulla confederazione delle nostre anime; nel caso che sorga un altro io, più forte e più potente, codesto io spodesta l’io egemone e ne prende il posto, passando a dirigere la coorte delle anime, meglio la confederazione, e la preminenza si mantiene fino a quando non viene spodestato a sua volta da un altro io egemone, per un attacco diretto o per una paziente erosione.

Attacchi diretti, pazienti erosioni, strategie consce a metà o per niente. Capirete bene che la coerenza, la costanza, la volontà sotto quest’ottica rappresentino una minuscola parte del tutto, mentre la contraddizione, la casualità, le ambivalenze, sono lo specchio che descrive per sommi capi il risultato di battaglie tanto invisibili, quanto verissime. Se ad esempio quegli spintoni con cui infieriscono vita, relazioni, casualità estreme Elena Ferrante li descrive come la prima forza che la spinge a scrivere, se quei traumi di cui parla Virginia Woolf sono ciò che hanno fatto di lei una scrittrice, la scrittura vera sembrerebbe essere il risultato di un’instabilità litigiosa e di un armistizio momentaneo inventato da chi scrive, ossia da quelle persone, molte e molti, che ciascuna, ciascuno di noi è scrivendo.

È potentemente letterario e estremamente evocativo il modo nel quale Ferrante suggerisce questa eventualità. Ci sono due ( o forse più?) scritture quella tra i margini del quaderno e quella smarginata, quella che non può o non vuole tenersi in riga. Le scritture di quei due io certo non definiscono anagraficamente, biologicamente, sessualmente (o forse sì?) chi scrive. Nessuno dei due io è da preferirsi, nessuno dei due è depositario del genio. Si invidiano, come Lila e Lenuccia, perché l’uno ha quello che l’altro non ha. L’una può prodursi in romanzi di buona confezione utili alla carriera, l’altra può smarginare nella trascendenza pura e contemporaneamente bruciare nel proprio incendio, rendendo la vita vera che cerca, lontanissima dalla scrittura vera che ha letto nei libri degli altri. Ferrante offre credo delle immagini profondamente oneste di queste eventualità così reali e rivelatrici la cui grana semplice è l’unico inganno, perché mente sulla stratificazione poderosa di un’esperienza di scrittura importante e complessa da testimoniare e trasmettere.

L’altra questione sollevata da I margini e il dettato su cui le studiose femministe di Elena Ferrante dovranno fare molta attenzione riguarda i riferimenti all’opera di Adriana Cavarero che Ferrante indica nel saggio Acquamarina tra quei lavori che hanno influito nella direzione presa dalla trama de L’amica geniale. In questo intervento Ferrante chiarisce anche in modo esplicito l’avvenuto passaggio originato dall’esperienza delle prime tre protagoniste Delia, Olga, Leda descritte come portatrici di un corpo sigillato. Sigillato perché si tratta di un ripiegamento sul proprio stesso dolore che ha significato l’isolamento per generazioni di donne producendo un’esperienza con poca speranza di essere trasmessa. Da qui il passaggio alla coppia di amiche che assume una funzione risaputa e importantissima fulcro di certa filosofia e delle pratiche dei femminismi da decenni. Ma che è stata portata all’attenzione di tutte e tutti grazie a Ferrante, come un elemento fondativo, centrale, che genera realtà plurali e precipue non più dovendo dare sporadica notizia di sé da un margine tanto defilato da non esistere in nessuna mappa.

Storie, io è il saggio che mi ha riportato a Elena Croce (parlo di Elena Ferrante in relazione a Elena Croce qui) proprio attraverso una citazione che Ferrante fa da Dostoevskij che riguarda quella vita vera evocata anche da Elena Greco nei primi tempi in cui esplora la reciprocità dell’amore con Nino. Scrivevo ne Il libro di tutti e di nessuno in merito a quella vicenda Cos’è il perimetro di una vita? In che relazione sta la misura di questo perimetro con l’impressione che si ha di vivere una vita vera? Il Dostoevskij che Ferrante cita parla di un insufficienza del genere umano che già ai suoi tempi si dimostrava secondo lui incapace di sopportare la fatica di una vita vera, preferendo un romanzo che metta tutti d’accordo nel rinunciare al lavoro troppo faticoso di vivere per davvero. Elena Croce scriveva sullo stesso avviso che in certi circoli elettivi si poteva generosamente consolare e esaltare la presenza di qualsiasi disgraziato, trattandolo come un pari, purché quella presenza diventasse docilmente personaggio di un immaginario della quotidianità che già si profilava più romanzesco che realistico. Un immaginario che lo prescindeva, e che lo accettava solo nel ruolo vacante di una storia inventata che certo non era la sua.

C’è molto quindi in questo ultimo libro di Ferrante, moltissimo che anche non ho detto qui, in merito all’attinenza del romanzo come forma letteraria più o meno adatta a dire la vita. Oppure a dire una realtà più viva di quella reale, mediando attraverso tutto un repertorio di trucchi che rende quelle e quelli che scrivono con ambizione o per mestiere a volte streghe, maghi altre niente e nessuno. Ciò dipende, secondo Ferrante, da quello che alla loro mano capita di pescare dal magico sacchetto delle parole, che appunto, come la borsa nera di don Achille in egual misura contiene materia viva e materia morta.

 

 

 


[1] Per chi volesse seguire la in diretta streaming sui profili social di Unibo (Facebook e Youtube); ERT/Teatro Fondazione (Facebook e Youtube); Teatro Arena del Sole (Facebook); Edizioni E/O (Facebook).