In questa seconda puntata di NINA a cura di Viviana Scarinci, Chiara Zamboni risponde a quattro domande sul suo intervento al convegno di Viterbo Ecopoetiche e Ecopolitiche Poesia come cura del mondo e sulla sua ricerca espressa nell’ambito di Diotima comunità filosofica femminile nata presso l’università di Verona nel 1984. L’occasione costituita da questa seconda puntata di NINA è da non perdere. Chiara Zamboni traccia un percorso che riguarda la poesia in senso generale ma anche la soggettività femminile per come si rapporta alla realtà. Da un certo punto di vista filosofico l’atteggiamento poetico consiste nel credere nel reale oltre ciò che del reale è visibile. La visione femminile ha una qualità in più nell’adattarsi al multiforme che concerne la storia, il presente e il futuro. Zamboni con estrema sintesi ci racconta tutto questo tracciando un orizzonte culturale in cui la visionarietà delle donne nella storia del mondo si è costituita ed è stata considerata prima un valore e poi un disvalore, in termini religiosi con la Riforma protestante e la Controriforma cattolica, e infine con l’avvento dello scientismo che ha ammantato il femminile visionario di molti pregiudizi tuttora difficili da scardinare. Un excursus quello di Zamboni che include l’ideologia della bontà della natura alla necessità di un riconoscimento effettivo del ruolo centrale della soggettività femminile nell’ambito delle politiche ecologiste. Insomma un’occasione di ascolto chiarificatrice sugli infiniti legami in cui femminismo, poesia, filosofia e ecologia devono e possono essere compresi e praticati nella stringente contemporaneità.
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Nasce Nina il podcast della SIL
NINA nasce per rilanciare parte del materiale audio prodotto dalla ricerca SIL e per presentare contenuti nuovi implementando l’attitudine alla comunicazione che ha sempre contraddistinto il lavoro di ricerca della Società Italiana delle Letterate.
Dopo mesi di progettazione sono molto felice di annunciare la pubblicazione della prima puntata di NINA il podcast della Società Italiana delle Letterate che ho ideato e organizzato insieme a Anna Toscano. Ogni 10 del mese pubblicheremo una puntata nuova su un sempre maggiore numero di piattaforme podcast a partire da Spotify e Audible di Amazon e altre piattaforme in cui l’ascolto è completamente libero da abbonamenti vincolanti. Il mio interesse, anche tecnico per il formato podcast è nato tre anni fa attraverso alcuni audio diffusi su Diaria Blog e non si è mai sopito. Se l’ho poco praticato rispetto a quanto avrei voluto è stato solo per mancanza del tempo necessario che serve a una cura adeguata a tutti gli aspetti tecnici, insieme a quelli contenutistici necessaria a una produzione qualitativamente fruibile e tematicamente interessante degli audio proposti. Quando ci siamo trovate con Anna Toscano insieme nel nuovo direttivo SIL a avere lo stesso tipo di interesse (Anna per la SIL si occupa dell’ufficio stampa e social, io della gestione del sito) per questa forma di comunicazione, abbiamo immaginato un podcast per la Società delle Letterate attraverso un progetto che è stato accolto dalle colleghe del direttivo con grande entusiasmo perciò qualche mese fa ci siamo messe al lavoro. L’idea di NINA nasce con l’obiettivo di rilanciare parte del materiale audio pregresso prodotto dalla ricerca SIL e di presentarne del nuovo implementando l’attitudine alla comunicazione che la Società delle Letterate ha sempre avuto nell’ambito di una prospettiva futura tanto prossima da essere già presente. Questo non solo per aggiornare SIL con i tempi ma soprattutto per individuare una forma di comunicazione più aderente al modo di essere SIL, stando più vicine alle proprie socie e così potenzialmente incontrarne altre. NINA quindi attraverso questo media del tutto nuovo per SIL che è il podcast sarà un contenitore e un luogo di suoni, parole e silenzi in cui ascoltare le nostre voci. Ascoltando Nina troverete interviste, letture, dialoghi, poesie, canzoni, dibattiti tutto attraverso la lente del femminismo.
Il primo podcast che potete ascoltare si intitola Passaggi metamorfici della poesia e riguarda l’intervento di Chiara Zamboni, introdotto da Elvira Federici (presidente SIL) che ha avuto luogo nell’ambito del convegno Ecopoetiche Ecopolitiche. Poesia come cura del mondo che si è tenuto nel mese di marzo 2022 presso la Biblioteca Consorziale di Viterbo (video integrale del convegno qui, qui e qui) . Il podcast del 10 luglio sarà una mia intervista a Chiara Zamboni sulla sua ricerca e sul libro Sentire e scrivere la natura
La musica: pochi secondi di studio di un duetto di Béla Bartók suonato dalle violiniste Daniela Santi e Sara Michieletto. L’immagine è di Anna Toscano.
Chiara Zamboni insegna Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Verona. Nel 1984 ha fondato assieme ad altre (Luisa Muraro, Adriana Cavarero, Wanda Tommasi ecc) la comunità di filosofia femminile “Diotima”, all’università di Verona. L’impianto della ricerca filosofica si basa su una teoria della differenza sessuale, assunta come significante e non come significato, cioè come orientamento ermeneutico dei segni della realtà, come guida ad atti interpretativi del tessuto del mondo. La sua riflessione su linguaggio, basata sulla relazione di fiducia che abbiamo con la terra, fiducia che si sottrae al dispositivo soggetto oggetto, evoca fin nella sua scrittura filosofica, quell’attenzione poetica che ci consente di vivere la realtà “nutrendola creativamente di parole”. Tra le sue pubblicazioni: Parole non consumate. Donne e uomini nel linguaggio (2001); Pensare in presenza. Conversazioni, luoghi, improvvisazioni (2009), Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza tra reale e irreale (2009) La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe (2019) e Sentire e scrivere la natura (2020)
Biomimetica e destino
Possono le strategie e il #linguaggio delle piante cambiare il modo di intraprendere, intendere e interpretare la #scrittura in senso ecologico? Gli ambiti sterminati di applicazione della #biomimetica ci fanno sognare questo.
Da persona che scrive e ha un giardino che cura da anni ho una conoscenza empirica delle strategie e del linguaggio delle piante, dei modi in cui mi dimostrano come stanno, ciò che vogliono da me e quali sono le loro intenzioni. Lo so quanto mi vogliono bene o quanto mi vogliono male se sbaglio o ho ragione a trattarle prendendo decisioni anche fuori dalla manualistica. Chiunque abbia una pianta anche d’appartamento lo conosce il modo straziante in cui ti rimprovera con tutto il corpo di non essere stata troppo attenta al nocciolo della questione.
Ultimamente mi ha molto coinvolto la lettura di un libro di Renato Bruni che si intitola Erba volant. Imparare l’innovazione dalle piante (Codice Edizioni, 2022). Sono rimasta folgorata dai principi della biomimetica che Bruni descrive nel libro. In realtà mi ha colpito soprattutto il linguaggio con il quale l’autore rende possibile all’immaginazione di chi legge di compiere il salto nel vuoto che la biomimetica si propone di fare in ogni campo di applicazione. Leggo sul sito dell’Eni questa definizione di biomimetica:
dal greco bios, vita, e mimesis, imitazione, che potremmo definire come un’applicazione delle nuove tecnologie allo studio della biologia al fine di produrre materiali e strutture ispirati agli organismi e agli ecosistemi. Non una semplice copia, né un’impostazione estetica, di design, ma un vero e proprio modo nuovo di intendere l’architettura, l’industria tessile, l’edilizia e persino l’urbanistica senza prescindere dalla salvaguardia dell’ambiente e del clima da un lato e della sostenibilità energetica dall’altro.
Certo letta sul sito dell’Eni una definizione per così dire etica della biomimetica sembra un po’ grottesca. Tuttavia il libro di Bruni mostra anche a lettrici amatoriali, come lo sono io relativamente a questo tema, che al di là degli interessi delle multinazionali del petrolio e del farmaco la biomimetica ha effettivamente campi sterminati di applicazione. La natura inventa un po’ come si inventano la vita e la scrittura quelle e quelli che hanno l’istinto poetico cioè creando senza avere un piano d’uso, un disegno di destinazione. Ma questo non deve far pensare a uno speciale amore per l’inutilità o al perseguimento di un’etica disinteressata. Il loro motore insiste come quello dei vegetali, come scrive Bruni, sul numero, sul caso, sulla prova costante, sulla permanente elaborazione delle soluzioni in cerca di quella più appropriata al contesto, sempre volti al concepimento di qualcosa ancora non pervenuto. Queste vite e questa scrittura, come i movimenti non movimenti più o meno enfatici e plateali delle piante, con buona pace dei patiti della matematica, si avvalgono di una scientificità che c’entra comunque con un modo alternativo di intendere i modelli.
La natura crea stando ogni organismo vegetale ben piantato e fiducioso relativamente ai meccanismi chimici e biologici alla base del fatto che sei una pianta viva e sei pronta a perpetrare le tue singolarità oltre che a determinarti seguendo le propensioni del tuo genere e della tua specie. Bruni parla suggestivamente di un testo nascosto, un testo borderline che si trova nelle variazioni evolutive di ciascun vegetale. L’autore illustra alcuni modelli di questo testo attraverso uno storytelling fatto per entrare nel vivo delle dinamiche essenziali. Storie di scelte strategiche vere e proprie rese trasferibili in contesti tutt’altri anche dalla verve ironica di chi ha perso l’innocenza di guardare alla natura secondo il preconcetto tutto umano di una sua innata bontà di fondo. Storie quelle di Bruni raccontate attraverso la descrizione delle imprese più impensabili che le piante compiono con un efficacia e una fiducia incrollabile nel potere della quotidianità che per loro si esprime nel ciclo circadiano. In effetti come dovrebbe essere per noi animali, cioè attraverso un tempo fortemente connotato da ore di buio e di luce in un’alternanza che lascia poco spazio al contraddittorio.

Si chiama biomimetica, ed è il metodo per studiare e imitare la natura garantendo all’uomo innovazioni efficaci e sostenibili. Così, le felci da appartamento che assorbono sostanze nocive diventano un modello per la depurazione dell’aria, mentre gli adattamenti sviluppati da alcune piante per resistere nei deserti forniscono idee per raccogliere acqua piovana e conservare vaccini senza frigorifero. In altri campi, osservare il regno vegetale può aiutare a progettare reti per lo scambio d’informazioni, a pianificare nuovi approcci al marketing, a sviluppare architetture leggere ecosostenibili, a ottenere la fotosintesi artificiale. Dal sito dell’editore
Alcuni elementi di botanica grossomodo li sapevo per esperienza diretta di una che non si allontana mai troppo a lungo dalla natura e un po’ anche grazie all’aiuto di tutta una formidabile letteratura sulla botanica e la filosofia del giardino che chiunque voglia capire qualcosa di scrittura dovrebbe mettere in lista tra le prime letture da fare. Un po’ come accadeva nella Firenze di Dante se volevi fare il politico, ti dovevi laureare nell’arte dello speziale, conoscendo il nome di tutte le piante e assicurando di aver svolto un appropriato tirocinio attraverso un preciso numero di visite negli orti botanici.

Quello ritratto nella foto reciso e posto in acqua è il fiore di taràssaco, una delle piante più comuni e diffuse. Ha virtù officinali note fin dall’antichità. È comunemente conosciuto come dente di leone, dente di cane, soffione, nonnino, cicoria selvatica, cicoria asinina, grugno di porco, ingrassaporci, brusaoci, insalata di porci, pisciacane, lappa, missinina, piscialletto, girasole dei prati, erba del porco o anche con lo storpiamento del nome in tarassàco.
Insomma lo sapevo quanto i comportamenti delle piante potessero essere illuminanti su tutti i fronti proprio a partire dal principio che le idee, come dice Bruni, degne di essere chiamate tali, che funzionino o meno, sono sempre figlie di un ambiente reale che le sottopone a quanto c’è di ineludibile rispetto al porsi il problema di continuare a esistere. Di esistere in qualche modo ma anche di proliferare sulla base delle effettive risorse disponibili, alle condizioni oggettive in cui ci si trovi e resistendo alle aggressioni subite alla propria identità. Identità che nella tassonomia delle piante è qualcosa di scandito da presupposti misurabili. Ma soprattutto le piante insegnano quanto sia importante avere una percezione diversa rispetto a quella umana relativamente a quei pericoli costituiti dalle intenzioni predatorie e colonizzatrici dei soliti meccanismi di prevaricazione. Prevaricazione che in natura è sempre governata da un equilibrio che prescinde i soggetti coinvolti ed è volto al mantenimento di un’ecosistema mai basato su distruzioni da intendersi su vasta scala. Semmai, sacrificando qualcosa la prevaricazione delle piante è sempre indicizzata verso un mantenimento della vita nel senso più ovvio e più banale, a fronte del quale gli interessi di una soggettività di tipo antropocentrico fanno sorridere. Certo come si fa a non partire in quarta con l’immaginazione quando Bruni scrive la parola testo? Come si fa a non pensare in termini che si possano avvalere di alcuni concetti della biomimetica ipotizzando una riflessione sull’unicità della scrittura di ciascuna donna che scrive ad esempio. Lo si potrebbe fare in questo caso abbozzando approssimativamente un osservatorio sulle potenzialità conoscitive o deleterie dell’importanza data ai numeri nel caso delle digital humanities:
è un’area di attività accademica all’intersezione tra le tecnologie informatiche o digitali e le discipline umanistiche. Comprende l’uso sistematico delle risorse digitali nelle discipline umanistiche, nonché l’analisi della loro applicazione.
Si potrebbe partire dal presupposto che quella delle donne sia un genere di scrittura o una scrittura di genere che come la poesia per sua natura tende a farsi laboratorio di elaborazione permanente delle soluzioni per adattarsi a un contesto ancora ostile e spesso universalmente inospitale. Si potrebbe pensare anche alla scrittura sulla base di come questa appartenendo a scrittrici o a scrittori, a poete o a poeti, all’accademia, o al romanzo, o al giornalismo si adatti o meno a un ecosistema che si crede del tutto mappabile, al prezzo di ingenti sacrifici in termini di perdita del senso della realtà.
Quando il campo è il testo per chi lo pensa e poi cerca una lingua per scriverlo, può prevalere quel mondo così controverso in cui a contare sono i dati se si fa dei numeri l’unico ecosistema, cristallizzando ogni movimento del linguaggio dentro modelli che fanno categoria. Ma se sostituissimo all’efficacia di un algoritmo quegli oggetti del reale che determinano le cose che effettivamente avvengono in natura, che succederebbe? Intorno alle piante e ai loro comportamenti creativi, distruttivi, colonizzatori quando non esplicitamente ruffiani o opportunisti a fare contesto non è il consenso, il successo formale ma come in natura, il ripetersi di prassi che ogni volta devono dimostrare sul campo la loro efficacia di fronte alla maggiore o minore severità dei singoli habitat.
Voglio dire per fortuna anche in letteratura esistono a fare contesto anche le condizioni climatiche e ambientali, storiche e sociali in cui un seme di un determinato genere e di una tale provenienza geografica vive la sua specie nella necessità di esistere anche attraverso una tassonomia integrata da un immaginario sfuggente e impensabile, come fanno i vegetali al fine di garantirsi la sopravvivenza. Un immaginario attivo avvinto alla pura necessità di non essere spazzati via dagli elementi, un immaginario che ha sempre legato gli esseri viventi a una cifra potenzialmente ignota che insiste allo stesso modo nella natura e nella letteratura.
Su Bianca Battilocchi per Letterate Magazine
Il magico e il già pensato in cui si parla di Emilio Villa, tarocchi, magia e della poesia di Bianca Battilocchi
Su Leggendaria 151 e Convegno SIL

Viviana Scarinci, Relazione, alleanza e confronto tra alterità
Società Italiana delle Letterate
ECOPOETICHE/ECOPOLITICHE. POESIA COME CURA DEL MONDO
BIBLIOTECA CONSORZIALE DI VITERBO
18- 20 marzo 2022
Il 2021 è stato un anno che ha visto il protrarsi dell’incertezza dovuta alla pandemia ma anche la centralità della crisi climatica e ambientale nell’ambito del discorso pubblico. L’anno passato è stato segnato inoltre dalla scomparsa di Lidia Curti e Liana Borghi, due figure di grande rilievo verso il pensiero delle quali la Società delle Letterate e il femminismo italiano in genere hanno contratto un debito importante.
Il convegno Ecopoetiche-Ecopolitiche. La poesia come cura del mondo si propone di recepire e rilanciare una parte del lascito di queste due maestre focalizzando alcuni temi del femminismo cari alla loro ricerca, attraverso l’ottica della poesia.


Emily Dickinson, Dante, Goethe e Elena Ferrante
Quando i libri sono di tutti e di nessuno. Un quaderno di lavoro condiviso su Elena Ferrante, ecologia e femminismo
QUINTO e ultimo
Leggi qui il PRIMO , SECONDO, TERZO e QUARTO
Al momento le ultime notizie che riguardano Elena Ferrante sono sul fronte dell’opera letteraria, si tratta di un altro importante riconoscimento. Sabato 9 ottobre a Elena Ferrante viene assegnato il Sunday Times Award for Literary Excellence. La consegna del premio ha avuto luogo durante un evento speciale del Cheltenham Literary Festival, uno dei festival letterari più importanti del Regno Unito. Il premio stavolta viene consegnato a Eva Ferri, a capo di Europa Editions UK ed Edizioni E/O. Per l’occasione Ferrante ha scritto anche in questo caso un discorso. Alla consegna è seguita una tavola rotonda che ha coinvolto la scrittrice, giornalista e critica letteraria Alex Clark, l’editrice Eva Ferri e la traduttrice Ann Goldstein. Tema: il privilegio di lavorare a stretto contatto con una delle più grandi scrittrici della nostra generazione.
Negli anni passati il Sunday Times Award for Literary Excellence è stato assegnato a autori e autrici di rilievo come Margaret Atwood, Ted Hughes, Ian McEwan, Kazuo Ishiguro. La vincitrice dell’edizione dello scorso anno è stata la scrittrice irlandese Edna O’Brien. Dal 1987 il premio viene consegnato a una autrice, a un autore la cui intera opera è ritenuta meritevole per il valore letterario e per l’impatto culturale.
Ad oggi sono oltre 15 milioni le copie de L’amica geniale vendute in 45 lingue, in più di 50 paesi, e inizia a essere considerevole il numero di adattamenti dell’opera ferrantiana tra quelli di prossima uscita e quelli richiesti in TV, cinema e teatro. Su Netflix prossimamente potremo guardare La vita bugiarda degli adulti con la regia di Edoardo De Angelis e La figlia oscura con la regia di Maggie Gyllenhaal e febbraio 2022 sulla Rai la terza parte de L’amica geniale con la regia di Daniele Lucchetti. In questo momento Elena Ferrante è tra le italiane più note al mondo, sicuramente tra le scrittrici italiane viventi, la più nota, e lo è già da un lasso di tempo lungo che non si concluderà a breve. Insomma mi pare indiscutibile che l’Italia dovrebbe essere orgogliosa di Ferrante non dico come la nazionale di calcio campione d’Europa ma giù di lì.
A maggio del 2021 Leggendaria 147 pubblica un dialogo tra Silvana Carotenuto e me che considero tra le opportunità più importanti che mi siano state offerte in relazione al mio lavoro su Elena Ferrante. Il genio della lingua, e ciò che accade è il titolo del testo che Carotenuto ha dedicato a Il libro di tutti e di nessuno (il dialogo è stato pubblicato per esteso successivamente su Letterate Magazine). Come accademica specialista di studi di genere e postcoloniali Carotenuto tra le molte preziose riflessioni suggeriva una domanda che in questa parte finale del quaderno vorrei fare mia
per il demone che interpreto, è qui in gioco l’ultimo e forse il più importante tratto della “differenza”. Se il presente ha sancito la capacità del “dispositivo Ferrante” di rappresentare l’individuazione comune al femminile che, in realtà, ancora oggi fa fatica ad accedere alla visibilità e alla dicibilità privata e pubblica (attirando a sé, letalmente, sempre più violenza e aggressività), si potrà mai rivendicare una “singolarità” che egualmente appartiene a una generazione di donne che non possono condividere in nessun modo i percorsi dei personaggi femminili di Ferrante?
Questa è la domanda che simbolicamente vorrei lasciare aperta in relazione a un discorso a venire perché mi pare la più calzante per trascendere il rischio che il dispositivo Ferrante diventi un paradigma, con tutte le controindicazioni che ho illustrato nel capitolo quarto di questo quaderno. Carotenuto coglie al cuore la questione delle problematiche che può sollevare l’acquisizione di un’importanza in qualche modo universalizzante dell’opera di Ferrante che è l’altra faccia, quella pericolosa, rispetto alla prima, così importante, relativa alla valorizzazione di quell’ecosistema letterario ( vedi il primo capitolo del quaderno ) che l’opera ferrantiana ha avuto il potere di promuovere. A Carotenuto rispondevo nell’ambito di quel dialogo, in modo sintetico e non esaustivo, a fronte della vastità della sua domanda, richiamando una confidenza di altro segno che è di alcune scrittrici e della poesia
Esiste un assoluto della scrittura femminile capace di immanenza e trascendenza, ed è quello che può e sa Lila, ma non lo leggiamo ne L’ amica geniale, ne abbiamo notizia solo dal rovello di Lenuccia che lo conosce, lo invidia, lo copia e lo comprende inarrivabile. È vero, quella di Ferrante non è una lingua confidente, come quella di Lispector, Bachmann, Ortese, Woolf, Morante. Non è una scrittura fiduciosa che lo scavo linguistico dentro l’indipendenza utopica di una scrittrice sia in grado di esercitare tutti i poteri, compreso quello di mutare le contraddizioni, le ossessioni, la paura e l’esproprio (tipici di una storia governata da un destino legato al genere cui appartengono Lila e Lenuccia) in quella forma di letteratura sublime e necessaria in cui, invece, alcune altre scrittrici hanno a ragione creduto.
L’enormità dell’opera di Ferrante sta anche nel fatto che questo sdoppiamento si vede, è trama, e lo rappresentano due personagge così eloquenti che nei Romanzi napoletani fanno tremare i polsi se le si legge inquadrate in quest’ottica. Si vede, perché Ferrante vuole che si veda: l’elitarismo è un fatto da cui non si salva nessuno, a meno che non sei Lila che si trincera nel proprio minuscolo non esistere e sparisce. Come non si salva nessuno, dalla costituzione di una cerchia magica, un collettivo elitario cui l’assoluto della soggettività è sacrificabile perché conta meno di tutto il resto. E questo avviene anche quando si tratta di consessi in cui si parla di anima come lo indica l’indimenticabile immagine tracciata da Elena Croce che ricordavo nella quarta parte di questo testo, in cui i festini collettivi dell’anima, suggeriscono più o meno lo stesso legame con un potere qualsiasi, che sta al centro di qualsiasi altro festino collettivo.
Nessuno si salva dall’elitarismo tranne poche e pochi. Emily Dickinson si è salvata non a caso chiudendosi in una stanza per lo più a scrivere. E comunque bisognerebbe iniziare un altro quaderno per studiare cosa significhi, in questo senso, salvarsi o meno.
Quello che invece qui interessa è lo spunto sul quale mi piacerebbe procedere oltre quanto sommariamente illustrato in questo quaderno riguardo proprio la suggestione lasciata dal Dialogo con Carotenuto. Per parafrasare maldestramente i plausibili timori di Carotenuto, bisognerà chiederselo se l’enormità del dispositivo Ferrante non possa finire per diventare un elemento potentissimo che sua volta rischi di colonizzare letterariamente e pragmaticamente i contesti e i contenuti che se ne occupano, e anche quelli che non lo riguardano, per la verità.
Il 24 aprile scorso Robinson pubblica uno degli interventi scritti di Ferrante più lunghi di sempre. Si tratta di un saggio intitolato ‘Il nuovo alfabeto di Dante, le parole di Beatrice’ che sarà letto, qualche giorno dopo, il 29 aprile, da Tiziana de Rogatis, in occasione del Convegno Internazionale dell’Associazione degli Italianisti – ADI su ‘Dante e altri classici da Petrarca a Soyinka’.
Nel testo rivolto in quell’occasione da Ferrante ai dantisti, l’autrice non parla di sé e dei suoi romanzi, come fino a allora le era stato spesso richiesto dalle occasioni, ma parla di Dante, di letteratura e in un certo qual modo della storia delle donne.
Ferrante parlando di Dante ne illustra un percorso biografico e poetico in cui la figura di Beatrice si trasforma nell’immaginario del poeta. Forse, ciò accade, presume Ferrante nel momento in cui Dante mette in connessione la propria idealizzazione del femminile, con la condizione reale delle donne della sua epoca. Ferrante scrive forse si era accorto che il mondo delle donne non era solo quello immediatamente sotto i suoi occhi. E poi, più oltre, in riferimento alla mistica femminile Ferrante scrive anche di Luisa Muraro relativamente al Dio delle donne (2003). La scrittrice de L’amica geniale ipotizza un Dante che potrebbe aver assorbito nei suoi scritti l’esperienza delle beghine (uno dei saggi tra i molti importanti di Muraro, Le amiche di Dio (2014), è quello che ricostruisce la vicenda di Margherita Porete e la nascita e diffusione del beghinaggio, con la persecuzione delle beghine, come un caso strettamente politico oltre che storico) così da reinventarsi poeticamente la figura di Beatrice guardando alla donna studiosa e commentatrice delle Scritture.
Il saggio su Dante di Ferrante dice molto altro oltre quanto di cui sopra ma mi voglio soffermare per un attimo a questo meccanismo messo in luce dal pensiero di Ferrante in merito a Dante e proporre un’ipotesi di riflessione sul ruolo analogo (in riferimento ai vari meccanismi creativi per così dire colonizzanti illustrati dalla stessa Ferrante) che un altro grande poeta può aver avuto, non nella trasformazione di una figura narrativa ma nella costruzione di una trama in virtù di un rovesciamento del paradigma di genere.
Mi riferisco al Goethe del Faust che Ferrante indica anche in esergo di tutta la tetralogia. Scrivo ne Il libro di tutti e di nessuno a questo proposito del rovesciamento al femminile da cui Ferrante può essersi fatta tentare colonizzando alcuni dei temi forti di quel virile monumento poetico che è il Faust. Così come, la stessa indica che Dante può aver assorbito dalla mistica femminile ciò che gli ha consentito tuttavia non di diventare Beatrice (che fu pur sempre nella realtà una donna morta giovane cui Dante forse non stava neanche tanto presente) ma di asservirne l’idea attraverso il nome, riproponendola letterariamente grazie ai temi della mistica femminile, dentro il personale disegno poetico che ha reso Dante padre indiscusso della nostra lingua senza madre
A ben guardare i punti di contatto tra L’amica geniale e il Faust di Goethe vanno molto oltre l’esergo. Il demone Mefistofele viene a volte inteso come l’alter ego di Faust, le due figure femminili in qualche modo opposte e speculari presenti nella tragedia di Goethe, quella di Margherita e quella di Elena, evocano due vicende inter connesse con un destino inscindibilmente legato alla loro appartenenza di genere. Inoltre i temi faustiani dell’anelito, dello scontento sono quelli che animano platealmente l’agire di tutti i personaggi della saga ferrantiana in una sorta di coralità che rende evidente, proprio sotto l’egida bifronte del disordine evocato da questi sentimenti, il proprio motore originario. Infine l’archetipo della hybris, classicamente incarnato nell’uomo che non accetta i propri limiti cercando, con esiti alterni, di superarli, ne L’amica geniale diventa un tracciato ex novo che si focalizza in primo luogo sull’aspetto femminile della non accettazione del limite della propria condizione di genere che, come abbiamo visto, sfocia in un’altra possibilità data al significato di trascendenza.(V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020 p.209)
E’ qui che voglio interrompere questo quaderno con una riflessione preceduta da una premessa: la cultura è anche contaminazione, colonizzazione, a volte furto, serendipità, altre plagio inconscio e lapsus, le poete e i poeti lo sanno. Se non fosse così la cultura non sarebbe mai quello che invece a volte è: natura, riflesso della natura delle cose in sé, quadri falsi di verissime evidenze. Tuttavia, e proprio per questo, il femminile quando prende la parola attraverso una postura soggettiva in un’opera letteraria, perciò anche finzionale, spesso non ha avuto bisogno di rovesciare programmaticamente paradigmi. Pensiamo solo a come Elsa Morante ne La storia (1974) ha trattato la Storia, alla fluidità di quella visione altra, pur riferita all’universale di vicende terribili che hanno riguardato tutte e tutti.
Quando la leggiamo, non stride il sottofondo di un andamento programmatico nell’assenza del corpo con cui Emily Dickinson ha deciso di rispondere al mondo. La figlia del guantaio, l’enigmatica Elmina del Cardillo, non somiglia a qualcuna che si possa vedere in giro, eppure lei davvero è tutte nel momento in cui diciamo noi.
Questo non toglie nulla a Elena Ferrante e all’enorme maestria che è individuabile nel meccanismo che ha animato questo dispositivo. Però, credo sia importante per le donne che oggi scrivono ricordarsi che quella scrittura confidente nel proprio ha saputo dirsi dal nulla, da una genealogia letteraria inesistente cui tante volte anche Ferrante si è riferita in merito all’urgenza di una ricostruzione e riconoscimento. E pur essendo proferita da pulpiti inesistenti, ha saputo arrivare fino a noi dicendo l’inaudito. Quella letteratura femminile è sorprendentemente accaduta attraverso enormi difficoltà materiali, attraverso le proprie multiformi soggettività e senza capovolgere strategie finzionali ma trovandosi a palesare a posteriori certe evidenze indicibili. È da quell’a posteriori, scrutando nella natura propria la natura delle cose, che alcune hanno finito per scrutare preoccupate il futuro di tutte e tutti decine e decine di anni prima che il mondo si accorgesse di loro.
FINE
*l’immagine di copertina di questo articolo è di Michael Zajkov
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Elena Ferrante: l’istruzione, il linguaggio e le evidenze disturbanti
Quando i libri sono di tutti e di nessuno. Un quaderno di lavoro condiviso su Elena Ferrante, ecologia e femminismo
QUARTO
Leggi qui il PRIMO , SECONDO e TERZO
Come scrivo nella prima parte di questo quaderno citando Chiara Zamboni, un certo modo di scrivere ricalca uno stile che segue nel suo idearsi ciò che è evidente. Uno stile che risulta dalla non adesione a categorie, seppure nuove, ma mostra il composito, sottraendosi così a un discorso interpretativo che cerchi di ridurre a un ordine noto accadimenti disturbanti. Il risultato è che quegli accadimenti, per così dire fuori dalle righe, diventano i veri protagonisti delle scene ritratte come accade in tutti i romanzi di Elena Ferrante.
Come premessa di questa quarta parte del quaderno vorrei tornare ancora a quanto ho affermato nella prima parte del mio discorso, parlando di un vero e proprio ecosistema la cui emersione non scontata, è stata promossa a mio avviso proprio da questo approccio al disturbante cui Ferrante si riferisce in molte occasioni. Ossia ciò che orienta le immagini create da chi scrive verso una relazione di tipo ecologico con la realtà intesa come evidenza. Questa evidenza disturbante che a volte non trova categorie nella grammatica e nel linguaggio standard, è ciò che può rendere letteratura e natura, forse non proprio gemelle (come ho scritto in un momento di cedimento al desiderio che fosse davvero così) ma almeno sorelle elettive, i cui rapporti comunque ambivalenti, come quelli tra Lila e Lenuccia, come quelli tra Giovanna e la zia Vittoria, sono la porta d’accesso che può rendere lo sguardo qualcosa che davvero vede.
Esprimendo la natura, noi partecipiamo del suo processo e lo accompagniamo nel suo fluire di forme (C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, Milano, Mimesis, 2020 p. 37) scrive Zamboni riferendosi non a caso a una scrittrice come Anna Maria Ortese che utilizzò per prima in Italia questa forma di espressività. Una scrittura dell’espressività quella di Ortese che solo in parte si lega allo stile, dove in altra misura questo processo di accompagnamento di lettrici e lettori dentro altri aspetti del visibile, è da intendersi come una prospettiva, una posizione del soggetto diversamente collocato e diversamente consapevole della propria postura. Parafrasando Zamboni siamo con questo a un percorso diverso da tutto ciò che è illustrabile da un paradigma interpretativo che non tenga conto che questo soggetto che scrive, è parte del contesto di cui parla e non solo ne partecipa, ma anche ne è influenzato e lo influenza a sua volta.
In Corpo celeste (1997) Ortese dava questa definizione della parola inquietudine sotto forma di istruzioni per l’uso in riferimento alla propria ricerca letteraria: ricercare senza tregua il nome che avevi, e il nome del Luogo in sé. Ciò che è inquietudine, disturbo, discrepanza quando si parla di paradigmi che siano linguistici, interpretativi, ideologici, performativi già denuncia l’insufficienza illustrativa del concetto di paradigma. Per inciso qui voglio riportare solo uno dei parziali significati della parola paradigma nel caso in cui si tratti di quello grammaticale: “si usa per indicare i modelli di declinazione o di coniugazione dati dai manuali di studio” dove in tutta evidenza chi scrive e ha scritto i manuali è da intendersi come unico depositario del Verbo.
Come facciamo a non chiederci se non sia proprio il concetto di paradigma, un contesto in cui quel processo naturale che la scrittura agisce di concerto ai tempi e ai quadri che l’evidenza illustra, ciò che non può prevedere tutti soggetti che ne fanno parte e lo influenzano con le loro differenze esorbitanti e stranianti. E che tutto quanto non sia previsto, visto, o sia ignorato da un paradigma che si vuole esaustivo in termini di definizioni, possa rendersi visibile dentro un ecosistema che non nasca necessariamente da uno scarto, che non sia fondato da questa o da quella ideologia ma al contrario è qualcosa che c’era da prima, che stava nella natura, e aveva nomi propri inusitati viventi in un Luogo in sé che sta a un paradigma come il mare sta alla plastica
Ma se appena sto calma, ecco, anche questi sentieri sono l’essere stesso, materno e paterno; sono la pace. Mi sento figlia di chi non vedo. Ma non sempre sono calma. L’inquietudine è questo: ricercare senza tregua, il nome che avevi, e il nome del Luogo in sé. Un paese senza nome: l’uomo – e tutto il vasto universo – è questo. È anche terra di occupazione, perché manca di identità. In questo vuoto (di identità) precipita tutto ciò che strazia la Terra: violenza, corruzione, menzogna, arbitrio. Ritrovare l’identità, dunque – o cercarla: subito l’occupazione si fa impossibile. (A.M. Ortese, Corpo Celeste, Milano, Adelphi, 1997, p 115)
La città, la cittadinanza come e cosa può avere a che fare con l’illustrazione di quel Luogo in sé che non è solo nostro, pubblico o privato, amoroso, mediatico, agonistico, politico, relazionale, lavorativo, familiare, affettivo? È vero che non costituisce più un problema soprattutto per la reale condizione delle donne la distanza che metteva lo scrivere di una mano dentro un luogo privato e il corpo femminile corrispondente in una socialità separata? Quanta vera scrittura si smarrisce ancora dentro il baratro schiuso dalla difficoltà di colmare questa distanza? Io personalmente credo che le pagine più importanti scritte da Ferrante al momento che ha scenarizzato l’evidenza di quanto sia disturbante il quadro che questa domanda pone, siano quelle più profondamente letterarie e in un certo senso umanistiche che il dispositivo Ferrante ha prodotto in quasi trent’anni.
Torniamo alla terza parte del quaderno, quella che indicavo come uno tra i principali interessi miei nell’opera di Ferrante, ossia l’illustrazione immaginaria e possibile di come le italiane fossero entrate a far parte di un concetto più o meno agibile di cittadinanza, al momento di un confronto del tutto pragmatico con il lascito della storia, della politica e della lingua in cui questa storia e questa politica si sono configurate e cristallizzate in un percorso istituzionale. Ferrante fa un’osservazione perfettamente calzante a quello che illustra nelle vicende inventate dai Romanzi napoletani in merito all’istruzione o meglio, alla storia delle nostre istituzioni scolastiche:
Lo studio è stato soprattutto sentito come essenziale nella mobilità sociale. Nell’Italia del secondo dopoguerra l’istruzione ha cementato vecchie gerarchie ma anche avviato una discreta cooptazione dei meritevoli […] Insomma c’è stata un’ideologia dell’istruzione che oggi non funziona più. Il suo cedimento è stato evidente: i laureati allo sbando testimoniano drammaticamente che la crisi ormai lunga della legittimazione delle gerarchie sociali sulla base dei titoli di studio è giunta a compimento […] Mentre Lena insomma è il tormentato punto di arrivo di un vecchio sistema, Lila ne mette in scena con tutta la sua persona la crisi e in un certo senso un possibile futuro (E. Ferrante, La frantumaglia, Roma, edizioni e/o, 2016, pp. 360-361)
Le due amiche dei Romanzi napoletani sognano fin da piccole di diventare scrittrici. La scrittura di Elena entra in quel Luogo in sé fatto di mondo, le vicende di come questo avviene, emergono dall’immane flusso di coscienza dell’antica bambina che diventa autrice. La scrittura di Lila rimane separata dal suo corpo (La fata blu, i diari, le lettere sono un fatto privato) finché diventa un documento sindacale ma ciò accade nel momento in cui, quasi contemporaneamente, il suo corpo si ammala. L’ideologia dell’istruzione pure nell’opera di Ferrante agisce in modo ambivalente, se da una parte cementa vecchie gerarchie dall’altra copta i meritevoli e con ciò agisce in modo incalcolabile su una nascente identità civile delle italiane
Un’identità civile e femminile di cui, anche in questo caso, Ferrante illustra narrativamente una visione duplice: quella di Lila, cui non sarà possibile accedere a un’istruzione superiore ma che è portatrice di un’identità declinata al femminile che “smargina” secondo un pragmatismo scomposto ma irriducibile verso la propria autodeterminazione. E quella di Elena che compie il suo percorso educativo e perciò tenta di definire se stessa entro i parametri rigidi di una sfera pubblica, risentendo, anche in altri ambiti, di una sanguinosa lotta intestina tra la propria lingua madre, intesa come dialetto, e l’acquisizione di un italiano standardizzato; con tutto ciò che comporta a livello psicologico un uso della lingua sempre più esclusivista e connotata retoricamente. (V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020 p. 58)
Io che ho scritto e pubblicato queste parole e che resto una ferrantiana convinta nonostante tutto, alla luce di quanto di cui sopra, come faccio a non sentirmi inquieta di fronte al cortese e circostanziato richiamo della Crusca all’utilizzo di un italiano standard e ortodosso, fatto di strutture grammaticali, illustrate dai manuali, le quali rientrano in paradigmi richiamanti all’universalità del maschile? Per di più rispettando scrupolosamente i quali, opere come ad esempio il Porto di Toledo (1975) non sarebbero mai esistite. E molte gigantesche opere poetiche non sarebbero mai esistite. E niente sarebbe mai esistito di certa letteratura che si basa sull’evidenza di una realtà che si avvale di un’inventiva sfrenata soprattutto legata alla nomina di luoghi e di creature. Esseri cui la letteratura da sempre ha dato vita intendendo con ciò che non fossero metafore o similitudini riferite a qualcosa di noto, ma ritratti, canti, ricami, lallazioni che pur con stili complessi, vogliono riferirsi all’evidenza per quella che è.
Chi abbia un po’ di familiarità con l’opera di Anna Maria Ortese e con alcuni particolari biografici che si legano alle diverse vicende editoriali relative alla pubblicazione dei libri di questa grande scrittrice italiana, forse ricorderà l’annosa polemica che suscitò Il mare non bagna Napoli (1953), libro cui Ferrante si riferisce a più riprese ricordando come alcuni di quei racconti abbiano avuto un legame importante con la genesi dei Romanzi Napoletani. La polemica nacque dalla decisione che venne presa dalla casa editrice di Ortese in accordo con l’autrice, relativamente al racconto Il silenzio della ragione di mantenere i nomi veri dei personaggi maschili, amici dell’autrice. Persone per descrivere le quali nel racconto Ortese usava spesso un noi sodale ma anche nello stesso momento rilevando dolorose distanze contenute appena dai confini di quel noi. Il silenzio della ragione è un racconto che illustra una parabola esistenziale e politica decadente molto connotata ideologicamente. La illustra in termini non edificanti, immaginosi e iperrealisti che recano a quel racconto un’atmosfera molto particolare che sembra scavalcare gli anni, i generi e le ideologie
Si determinò una situazione assurda, in cui il vecchio rivoluzionario, seduto al centro della reazione, e chiamati a raccolta funzionari e ribelli, si mise a insultare tutti, e quelli abbassavano la testa e piangevano. Comunisti o liberali, eravamo pur sempre comunisti e liberali di Napoli, e lo amavamo troppo per non vedere nei suoi insulti la furia e la malinconia del mare. Inoltre tarati, deboli eravamo tutti. Egli ci diceva i nostri vizi, uno per uno, le nostre piaghe. Quello si era suicidato, questo stava per farlo, quello rubava, questo era derubato. Egli era veramente come la nostra terra, la nostra madre comune, la città che avevamo voluto vincere, e ci ricordava le nostre debolezze e vergogne, affinché mai più osassimo levarci contro di lei. Egli era questo, ed era anche il figlio di lei, di questa terra, che così facendo rinunciava per sempre a se stesso. (A.M. Ortese, Il mare non bagna Napoli, Milano, 1998, p.120)
Questo quadro letterario è un esempio di come la scrittura possa testimoniare, comprendendoli, gli antipodi di una conoscenza originaria di quel Luogo di per sé che è il mondo. Un mondo che Ortese condivideva con persone vere che costituivano anche in parte i suoi affetti. Un mondo in cui la scrittura della giovane Anna Maria negandosi a un’ottica condivisa, non di meno ambiva a prendere parte. Tuttavia superato un primo momento fatto di riconoscimenti, Il mare non bagna Napoli è costato alla nostra grandissima italiana una sorta di subdola damnatio memoriae. E un’inversione di marcia in merito alla scelta dei temi relativi ai romanzi successivi nei quali Ortese avrebbe impegnata, tenendosi lontana dai nomi propri di luoghi e persone, la stessa immaginazione amara e lucida.
Non che Ortese sia stata propriamente dimenticata, ma a lato del Barone rampante (1957) chi è che davvero studia altri romanzi che sembrano favole ma non lo sono, come Il cardillo addolorato (1993) o Alonso e i visionari (1996)? La lettura di questi proprio oggi a scuola dimostrerebbe quanto Ortese si fosse mossa con un anticipo davvero inconcepibile rispetto ai suoi contemporanei, soprattutto nel sentimento della natura. L’opera di Ortese insegna che la natura delle cose può essere vista anche procedendo per quadri, per testimonianze che sono diversamente vere perché dicono quanto l’evidenza di quello che consideriamo contemporaneo al tempo percepito, sia invece troppo mobile e ambivalente perché l’assertività ci rassicuri almeno un poco in merito ai nostri valori di sempre.
Nel 2020 viene pubblicato da Garzanti un libro di Annamaria Guadagni che si intitola La leggenda di Elena Ferrante. Il testo si avvale della lunga esperienza di giornalista culturale dell’autrice che intona alcuni aspetti che riguardano le città ferrantiane, su tutte Napoli ma anche Pisa, a un più vasto contro canto che individua analogie e spunti di riflessioni interessanti, come quello che Guadagni fa emergere dagli indizi secondo i quali la scelta del nome Elena Ferrante da parte di qualcuno che abbia deciso di non adottare il proprio scrivendo, possa esprimere una qualche connessione in termini di analogie culturali con le vicende biografiche e letterarie legate Elena Croce.
Per apprendere i motivi che hanno portato Guadagni a dedicare molte pagine a questo interessante e fondato punto di vista, consiglio la lettura del suo bel libro. Dal canto mio sono venuta a conoscenza di qualcosa che poteva concernere le due Elena da uno strano video amatoriale che circolava anni fa su YouTube e sembrava ripreso dal salotto di una persona che attraverso un cellulare filmasse la televisione. La televisione in questione trasmetteva uno spezzone connesso al premio Strega dell’anno in cui Elena Ferrante fu candidata da Roberto Saviano, in cui Carlo Lucarelli con la sua enfasi da detective, rivelava che Elena Croce, figlia di Benedetto, in alcune circostanze si fosse firmata Elena Ferrante. Guadagni, se la leggete, vi spiegherà in modo opportuno e suggestivo tutte le possibili connessioni storiche, bibliografiche e culturali per cui la cosa sembra essere vera.
Personalmente non ho fatto ricerche in questo senso però ho letto l’irresistibile Snobismo liberale di Elena Croce, subito dopo quella singolare affabulazione televisiva per di più piratata. Ciò non di meno quel libro mi è servito molto per capire la prospettiva che Ferrante ha usato costruendo una delle sue immagini più sagaci, quella in cui la famiglia Airota e la famiglia Greco vanno a nozze. Ferrante mandando a nozze due genealogie riconoscibilissime è come se indicasse che in quelle nozze si ripetano rituali sempiterni, mossi da una costante ineludibile
Con la comparsa della famiglia Airota infatti Elena capisce che la disparità in ambito sociale non nasce dal valore oggettivo di ciò che si è in grado di produrre ma dal contesto da cui si proviene e dalla capacità di assorbire, facendoli scrupolosamente propri, sia gli ordinamenti gerarchici sia i codici e i linguaggi emergenti che in quella fase miravano a infrangere quegli stessi codici, come se l’infrazione riaffermasse il valore della regola: «Eravamo insomma dalla parte dell’infrazione, ma solo perché si riaffermasse il valore della regola» (V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020 p.34)
Una costante ineludibile come se appena ieri a nozze fossero andati i così detti populisti e i così detti radical chic. E ai tempi della scomunica di Ortese, che erano gli stessi in cui Lila e Lenuccia iniziavano a capire, le nozze che sarebbero naufragate, fossero state appunto quelle tra comunisti e liberali
In quest’ottica, sdoppiata e riunificata, lo scontro tra l’individuo “migliore” – in quanto di formazione umanista e classica nel suo affrontare le sfide del presente – e l’individuo che non si accetta “peggiore” – perché si percepisce contemporaneo nel rigettare la conoscenza di una stratificazione omologata della propria matrice culturale – diventano un dato. Un dato importante che, espresso dal matrimonio e dalla separazione nelle due famiglie dei Greco e degli Airota, diventa ancora più significativo in quanto capace di andare oltre l’economia narrativa di quella porzione specifica di racconto. (V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020 p. 43)
Elena Croce focalizza il momento in cui l’immaginario collettivo si cristallizzava intorno al concetto di élite. La cosa sorprendente è che esponendo questa focalizzazione da un punto di vista femminile, Croce racconta di come l’elaborazione di questo concetto abbia avuto luogo non tanto in ambiti politici, non solo per questioni legate al quantitativo di denaro che all’inizio del secolo scorso le famiglie italiane di ogni ceto sociale avevano nella loro disponibilità. Croce afferma che il concetto di élite è una elaborazione culturale femminile e lo circostanzia ancora una volta in un modo in cui sono annullati in un colpo solo il tempo, lo spazio, e le parole di chi scrive diventano, quelle sì, davvero universali ma di un’universalità di cui possiamo fidarci
E sin dalle origini queste grandi personalità femminili, che pure erano vere ispiratrici di uomini geniali, avevano dato l’esempio di un nuovo stile, aristocratico-rivoluzionario, che nel romanticismo più tardi si sarebbe poi cristallizzato nella formula delle élite: l’intimità mondana, i festini collettivi dell’anima, le meravigliose artificiali società di esseri sublimi dove il genio è parificato alla bellezza, e si crea un superiore rango, con l’inevitabile conseguenza di una volontà di potere tanto più feroce perché si tratta di “anima”, e con gli inevitabili compromessi e degradazioni snobistiche. (E. Croce, Lo snobismo liberale, Milano, Adelphi, 1990 p. 11)

Quanto del concetto di élite e di potere formulato da Elena Croce si può dire superato? Per dirlo superato bisognerebbe essere così onesti da frugare nei cassetti in cui custodiamo la nostra idea culturale di bellezza, di piacere, di desiderio come se fossero gioielli di famiglia. Qualora quel sentimento così pervasivo che genera desideri falsi e veri per noi non avesse origine da ciò che Elena Croce disegna in modo così acuto nel momento della sua genesi, comunque dobbiamo convenire sul fatto che quel sentire culturale ci ha alimentato alla radice. Ammesso che ce ne volessimo affrancare, pure il miraggio di quel sentimento elitario così pervicace nomina un Ortesiano Luogo in sé. Un luogo fatto tanto delle costruzioni culturali abbaglianti attraverso le quali regna la famiglia Airota, tanto degli atavismi che rendono la famiglia Greco capace di generare una Elena così incastrata tra due mondi, ritratta nel momento in cui capisce che ci sarebbe la possibilità di partecipare a entrambi. Diversamente dall’inquieta Lila che ricerca senza tregua il nome che aveva all’inizio di tutto, lasciando prima di sparire, il mondo alla sua topografia contorta, e il cassetto dei desideri falsi e veri ben chiuso.
Continua
*l’immagine di copertina di questo articolo è di Ivy Haldeman
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Elena Ferrante una genealogia plurale femminile per le italiane
Quando i libri sono di tutti e di nessuno. Un quaderno di lavoro condiviso su Elena Ferrante, ecologia e femminismo
TERZO
Leggi qui il PRIMO e il SECONDO
Il 24 settembre scorso il sito dell’Accademia della Crusca pubblica un articolo intitolato Un asterisco sul genere che avrà una notevole risonanza mediatica al punto che verrà ripreso da molti quotidiani. La maggior parte dei quali, come La Repubblica, sintetizzeranno il lungo articolo come un consiglio da parte della Crusca in questi termini: schwa e asterisco? Meglio il maschile plurale (vedi qui una buona spiegazione su tutto ciò che riguarda la genesi e l’utilizzo del simbolo della schwa).
Paolo D’Achille che scrive per il sito della prestigiosa Accademia, indica quanto sia confortante che i molti quesiti che hanno motivato la presa di posizione della Crusca fossero stati formulati secondo gli scopi più nobili, sdoganando la questione e inserendola in un’universalità per così dire finalmente comprensiva e umanamente disponibile. A patto però che certe ideologie non pretendano di forzare gli usi istituzionali e standardizzati che si insegnano e si apprendono a scuola:
come sono stati formulati i quesiti, documenta una larga diffusione di atteggiamenti di civiltà, di comprensione, di disponibilità. È senz’altro giusto, e anzi lodevole, quando parliamo o scriviamo, prestare attenzione alle scelte linguistiche relative al genere, evitando ogni forma di sessismo linguistico. Ma non dobbiamo cercare o pretendere di forzare la lingua – almeno nei suoi usi istituzionali, quelli propri dello standard che si insegna e si apprende a scuola – al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire.
Colpisce che praticamente nello stesso periodo in cui la Crusca promulga il suo consiglio, cioè meno di un mese fa, imperversava e imperversa nell’ambito del panorama internazionale la scrittura sessuata (ma senza corpo) dell’italiana Elena Ferrante, attraverso discorsi per il ritiro di premi, dialoghi via email con importanti artiste di fama mondiale, film e serie tv di respiro internazionale. Al centro di ognuna di queste recentissime relazioni che Ferrante stabilisce tra la sua invisibilità e il mondo, come abbiamo visto, la mancanza del corpo femminile che si registra come autrice/marchio di produzione, è un fattore simbolico e mediatico determinante per il funzionamento in termini di comunicazione di ogni operazione creativa e commerciale collegata al dispositivo Ferrante.
L’addensarsi dell’attenzione intorno all’utilizzo non sessista della lingua italiana colpisce anche per come la Crusca articola le sue motivazioni, rendendole con ciò di largo consumo mediatico. L’Accademia privilegia cioè, come è di sua competenza, l’ortodossia grammaticale dell’italiano standard, ponendosi però in relazione a quesiti che testimoniano istanze contemporanee tra le più cocenti e lo fa riferendosi esplicitamente a un posizionamento consigliato a istituzioni come la scuola.
In un contesto in ogni caso così densamente orientato a porsi il problema dell’utilizzo non sessista della lingua italiana, praticamente negli stessi giorni, viene pubblicato da Iacobelli in versione eBook Il primo Quaderno del Centro di documentazione internazionale Alma Sabatini (autrici: Edda Billi, fondatrice e prima presidente del Centro, Maria Rosa Cutrufelli, attuale presidente del Centro, Alessandra Pigliaru, Bianca Pomeranzi, Giulia Caminito, Laura Fortini e Sara De Simone) che ha come filo conduttore la domanda Dove batte la lingua oggi? L’ebook racconta una storia anche per così dire istituzionale più specifica e puntuale relativa all’Italia e all’italiano in cui la figura di Alma Sabatini viene analizzata a partire, come scrive Alessandra Pigliaru, dalla “sua impresa più nota ovvero Il sessismo della lingua italiana. Edito per iniziativa della presidenza del Consiglio dei ministri e della Commissione nazionale della parità tra uomo e donna, è il 1987 quando fa la sua comparsa sulla scena pubblica”. Si veda tra l’altro l’articolo di Laura Fortini in cui viene riportato il saggio incluso nel primo Quaderno del Centro di documentazione internazionale Alma Sabatini di cui è autrice la stessa, che spiega come siano molte le accademie che in questi ultimi anni hanno varato o stanno discutendo su regolamenti e indicazioni di comportamento linguistico.
A indicare anche la risonanza mediatica oltre che politica di istanze linguistiche legate alla discriminazione di genere e al sessismo insito nella lingua scritta e parlata c’è anche la felice notizia del mese di maggio di quest’anno che riguarda la modifica da parte dell’Enciclopedia Treccani della voce relativa alla definizione della parola donna. La modifica è stata resa effettiva in risposta a una lettera aperta pubblicata il marzo precedente da La Repubblica che vedeva tra le firmatarie anche Elvira Federici per il direttivo della Società Italiana delle Letterate, in cui si chiedeva di eliminare i riferimenti sessisti che compaiono nel sinonimo della parola “donna” della versione online del vocabolario Treccani.
Un libro che per me è stato particolarmente significativo quando decisi di organizzare i materiali che desideravo includere nell’edizione italiana de Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo fu sicuramente Il mondo è sessuato di Geneviève Fraisse (Nottetempo, 2019 edito in Francia nel 2016 con il titolo La sexuation du monde: Réflexions sur l’émancipation) che mi ritrovai in mano in modo del tutto fortuito una mattina che curiosavo tra i molto politicamente eterogenei volumi che la storica libreria Minerva di Piazza Fiume a Roma mette in vetrina.
Mi è stato subito chiaro perché Geneviève Fraisse poteva interessarmi per articolare un punto di vista prettamente civile e italiano su Elena Ferrante e sul linguaggio da lei usato. La lettura di Fraisse infatti mi ha offerto parallelamente un punto di vista molto ben articolato, rispetto al possibile legame che sussiste tra la fondazione di una democrazia e il percorso di inclusione delle donne nella vita pubblica del loro Paese.
Già nell’ambito del convegno che ha avuto luogo presso l’Università di Lipsia nel mese di novembre del 2019, intitolato Elena Ferrante: genealogia e archeologia del XX secolo mi ero trovata a lavorare, nella relazione che mi competeva, su una domanda credo tra le più importanti rispetto a quelle che si debba porre una studiosa di Elena Ferrante: in che modo l’opera di Ferrante è connaturata all’archeologia e alla genealogia del XX secolo? E più precisamente secondo il mio sentire: avvalendosi di quale linguaggio, di quali temi, di quali storie quella scrittura osata da Ferrante è di fatto riuscita a rendersi interprete di una genealogia e di una archeologia mancante quando si tratta di raccontare la storia delle italiane non illustri? Quale linguaggio, quali i tempi, quali sono i riferimenti di Elena Ferrante che hanno potuto rendere il particolare della marginalità femminile e sociale Italiana, così profondamente dialogante con tutto l’altro da sé, cioè tutto quel pubblico universale che si è raccolto con la sua attenzione intorno all’opera di Ferrante?
È continuando a ragionare su questo che mi è parso di rintracciare un legame tra ciò che Fraisse coglie in alcuni aspetti della storia del suo Paese, la Francia, (in cui la rivoluzione ha giocato un ruolo tanto importante quanto controverso) tra l’istituzione della repubblica e l’inclusione delle donne nel concetto di cittadinanza, e quello che diversamente potesse essere stato lo stesso processo che con esiti diseguali, e in tempi diversi, avevano intrapreso le italiane. Quanto l’opera di Ferrante ha attinto dalle politiche dei movimenti femministi italiani? Quanto costituisce una denuncia volta all’irresponsabilità che per lungo tempo il canone letterario vigente ha agito verso la possibile emersione, e perciò verso la compilazione di studi adeguati, rivolti al riconoscimento del lavoro di scrittura delle italiane?
Come riporta sinteticamente Annarosa Buttarelli nella prefazione del libro di Fraisse (p. 7- 12) il risultato dell’analisi che l’autrice compie mette in luce un aspetto su cui a monte bisognerebbe riflettere di più parlando dell’importanza storica e sociale del movimento #MeToo come movimento globale: attraverso la protesta di un corpo femminile individuale si è attuata per la prima volta da quando si parla di globalizzazione, la rivolta di un corpo femminile collettivo. E questo non è avvenuto in un contesto di nicchia, non riguarda una qualche questione che può essere liquidata come ideologica ma risulta come un fenomeno illustrato dalla realtà dei fatti. A proposito del corpo femminile collettivo come vittima materiale e simbolica in un capitolo intitolato La scrittura di Ferrante e #MeToo Tiziana de Rogatis scrive
In questo scenario, la scrittura di Ferrante ha proposto all’immaginario internazionale un’etica femminile della sopravvivenza, che è anche una risposta indiretta al tentativo di ridurre #MeToo a un movimento vittimista. Nella quadrilogia, sopravvivere significa includere l’eredità subalterna delle antenate nel presente emancipato delle figlie, far convergere la corrente violenta del matricidio nel riconoscimento della madre e della sua genealogia, rielaborare il retaggio del dominio sulle donne attraverso un modello controverso ma solido di amicizia, fondare una nuova capacità assertiva e creativa proprio sulle inevitabili fragilità e contraddizioni della vittima (T. de Rogatis, Elena Ferrante. Parole chiave, Roma, edizioni e/o, 2018 p.17-18)
È una rivolta, quella del corpo femminile globale, che ha determinato una fuoriuscita dal margine di quei saperi raccolti dall’esperienza del corpo femminile e con ciò ha reso possibile il profilarsi di un’azione di protesta diffusa e socialmente accettata che però è partita da una rottura. Ovvero da una presa di posizione che ha potuto avere luogo solo da una scelta consapevole in merito alla necessità politica di una mancanza di ortodossia rispetto alla conformità nell’ambito di pratiche accettate, per quella che è una percezione del corpo della donna avallata anche in contesti geografici e socio economici insospettabili e molto diversi tra loro.
Personalmente quello che del pensiero di Fraisse mi è soprattutto interessato è la descrizione di una origine storica del baratro che separa il corpo femminile individuale con la sua singolarità e la sua condizione precipua e irripetibile e il corpo femminile collettivo che risiede nell’immaginario di donne e uomini, nelle politiche di alcune ideologie, ma anche e soprattutto nella lingua parlata e nella lingua scritta, di cui organi illustri come l’Accademia della Crusca e l’Istituto Treccani sono riconosciuti tra i principali custodi in Italia.
Fraisse illustra già a partire dalle prime pagine del suo libro il percorso culturale di un corpo femminile in un contesto che inizia a considerarlo nella parzialità di ruoli attribuiti alle singole individualità, come quello di donna artista, scrittrice, giornalista, donna alto borghese, riconosciuti nel corso della storia francese. Questo riconoscimento appannaggio solo di alcune condizioni femminili crea un’ulteriore disparità, che in Francia ad esempio ha preso un corpo evidente con la rivoluzione. Ma non ha un motivo solo storico, un motivo che riguardi l’economia, la politica e la cultura dei singoli Paesi, è qualcosa che nasce da una condizione femminile globale subalterna molto prima che la globalità potesse essere concepita e essere definita da linguaggi totalmente all’oscuro di quella condizione, proprio perché è una condizione materiale estranea al modo in cui si sono composte e studiate le categorie del pensiero e del linguaggio universale.
In altre parole questa rassicurazione è ciò che il linguaggio vigente, cioè plurale e maschile, ci ha da sempre rifilato in merito all’esperienza di quelle singole, come riconoscimento del fatto generale che la loro scrittura, la loro arte, la loro industria, le loro politiche, le loro bellezze, la loro indipendenza potessero soddisfare l’idea dell’emancipazione di un intero genere. Questa credenza è potuta entrare nel senso comune perché non è accaduto quasi mai che diverse definizioni e analisi avessero impegnato il genio linguistico e tutelare di chi poteva essere interessato nei secoli da questa responsabilità.
Sono stati certamente tanti ma non ce ne sono stati tramandati molti, i lavori di donne impegnate nell’atto di guardare realmente alla condizione senza linguaggio in cui i corpi femminili, e tutti i corpi mancanti all’appello della realtà di un linguaggio condiviso, risultano come vittime di una subalternità invincibile.
Oggi alcuni di questi lavori sono stati tratti in salvo dall’indifferenza, dalla furia censoria, dalla derisione, dall’albagia di alcune analisi totalmente estranee alla materia cui si riferiscono, e stanno a indicare come siano soprattutto i corpi mancanti all’appello del catalogatore volto all’ortodossia, e perciò al controllo, quelle e quelli che hanno visto il loro destino determinarsi nel bene e nel male per via, a causa e in conseguenza del loro essere solo corpi senza lingua, spesso in odore di vittimismo per via delle loro lacrime, dei loro silenzi, dei loro balbettii.
Dal punto di vista storico l’idea che il percorso di una sola persona fuori dal comune, scrive Fraisse, testimoniasse il riconoscimento del progresso per tutte, ha prevalso. Del resto sta nel concetto stesso di democrazia una possibile trappola che fa incorrere in questo fraintendimento: “In democrazia, l’eccezione può diventare la regola; in democrazia si sottolinea la similitudine di tutti piuttosto che le differenze categoriali; in democrazia la totalità degli esseri è teoricamente implicita (…) Ma “ognuna” è anche la persona che è solo l’”uno” singolare, senza l’obbligo di riconoscersi nella molteplicità del collettivo, mentre attinge allo stesso tempo, all’interno di questo collettivo, la possibilità di essere quell”uno” singolare” (p. 15-22).
L’assunto del libro di Fraisse è che la storia è sessuata perché la sessuazione di tutto è un fatto: “Non il fatto di una definizione della differenza sessuale, non il fatto di una categoria antropologica come la differenza dei sessi ma il fatto di una realtà politica semplice: i sessi fanno la storia.”
A chiusura del libro di Fraisse, non a caso c’è una postfazione di Luisa Muraro in cui la studiosa italiana sottolinea in modo diretto e esplicito che nei moltissimi contesti storici in cui le donne compaiono eccezionalmente o marginalmente, ciò si deve alla selezione e alla lettura dei documenti storici: “selezione e lettura che sono fatte in vista di quello che risulta memorabile e degno di essere trasmesso alle nuove generazioni”.
È con questa considerazione in riferimento a Fraisse e Muraro che o scelto di aprire Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo con il capitolo Perché il romanzo di Ferrante è politico? Infatti ho voluto ricalcare il tracciato disegnato da queste due studiose per indicare quanto sia prezioso il desiderio che l’opera di Elena Ferrante ha universalmente suscitato. Cioè quello di ricostruire tutti quegli aspetti non sufficientemente considerati, rintracciabili tra le pieghe della storia universale e della filosofia classica europea e di quella contemporanea femminista. Solo così si può comprendere meglio la difficoltà di passaggi decisivi in cui la storia delle donne ha spesso subito narrazioni molto distanti da quello che sarebbe oggi una ricostruzione accettabile, al di fuori delle importanti ricerche specifiche attuali.
Nella selezione di questi documenti che sarebbe stato così necessario conservare, quanti sono rimasti muti, sono scomparsi o sarebbero potuti essere e non sono stati? In questa cernita così decisiva quanto è stato determinante un consiglio linguistico più o meno accettato dal senso comune, come l’unica competenza accreditata a legiferare in materia di linguaggio?
Continua
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Ecologia letteraria dell’immaginazione senza corpo
Quando i libri sono di tutti e di nessuno. Un quaderno di lavoro condiviso su Elena Ferrante, ecologia e femminismo
PRIMO
Poco prima dell’estate la redazione di una rivista di critica e ricerca letteraria mi ha chiesto un contributo su un argomento che mi interessa molto, specie in questo momento che sto riflettendo in modo un po’ più accorto sulle mie scritture, quelle pubblicate, quelle ancora inedite e quella cui mi sto dedicando adesso, di altro genere rispetto ai miei lavori di poesia e saggistica. Frattanto la Casa delle donne di Pisa mi ha fatto sapere che sta organizzando un gruppo di riflessione legato alle opere di Elena Ferrante che si vorrebbe occupare di moderare la presentazione de Il libro di tutti e di nessuno (V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020) a novembre finalmente in presenza a Pisa. La cosa mi ha fatto molto piacere, naturalmente. Ma anche mi ha fatto rendere conto come da quel mio saggio emergano questioni cruciali e elementi della mia ricerca personale su cui devo tornare. In effetti già quel quesito tardo primaverile, mi aveva colto sul vivo e mia ha accompagnato per un po’, risuonando in modo esponenziale proprio in questi giorni in cui tutto sembra si stia rimettendo in moto. Qualcosa ricominciando davvero daccapo, e qualcos’altro invece che riesce a trovare in modo stupefacente una continuità con pratiche annose e così pervicaci che neanche una pandemia in tutta evidenza è riuscita a disarcionare.
Perciò ho immaginato di portare, qui sul mio sito, il quaderno di lavoro che sto compilando in questi giorni e che vorrei idealmente condividere con chi ha voglia di leggere di Elena Ferrante ma certo non solo. Sarà un lavoro che pubblicherò qui in corso d’opera (con tutti i limiti del caso) per motivi precisi che spero saranno chiari a quelle e quelli che avranno la pazienza di leggere fino in fondo questa prima parte che funge anche da introduzione a questo quaderno di lavoro intitolato Quando un libro è di tutti e di nessuno.
Nello specifico vorrei sviluppare alcuni elementi che Il libro di tutti e di nessuno propone, perché mi paiono ora più che mai connessi a una riflessione sul presente che desidero condividere. Grazie quindi alla Casa delle donne di Pisa che mi sta dando un buon motivo per tornare a mettere a punto temi importanti per me. Ma anche grazie a quella rivista che chiedendomi un pezzo che rispondesse a una domanda che mi riguardava così da vicino, ha acceso una riflessione che tuttora mi anima e mi ispira.
Quella domanda, per come l’ho letta io, si può riassumere in questi termini: la realtà cui la scrittura si riferisce è sempre la stessa, anche se l’intento che la suscita, riguarda formati di scrittura differenti come narrativa, poesia, saggistica, giornalismo, storiografia? La realtà è la stessa, anche se il genere sessuale di chi scrive si esprime in termini centrali nell’economia di una scrittura che si riferisce alla realtà che è sotto gli occhi di tutti? Come accade ad esempio in Ferrante, nell’opera della quale la narrazione è apertamente condotta secondo una prospettiva di genere, e si alimenta dei temi di questa prospettiva. E noi lettrici e lettori contemporanei cosa dobbiamo pretendere da tutte queste forme di scrittura, affinché la realtà che ci illustrino non sia un diversivo, un inganno, un mero esercizio narcisista in cui chi scrive vuole esercitare soprattutto un potere che ha l’obiettivo di ottenere consenso?
Ricordo molto bene il giorno di parecchi anni fa in cui con la mia casa editrice tedesca abbiamo immaginato un titolo per il libro su Elena Ferrante che stavo pubblicando con loro e che poi sarebbe uscito in Germania nel 2018. Ricordo di aver chiesto, come chiesi poi alla mia casa editrice italiana, che il nome di Elena Ferrante non figurasse nel titolo ma rimanesse impigliato nel sottotitolo. Nel mio sentire ciò doveva significare che gli argomenti, la ricerca, le citazioni, un certo modo studiato di orientare l’illustrazione e la collocazione di quello che ho chiamato dispositivo Ferrante, significasse fin dalla prima occhiata alla copertina, un lavoro indipendente, indipendente anche da madrinaggi e equivoci sulla necessità di possibili accrediti.
Il mio obiettivo con la scrittura di quel libro non era usare il nome di Elena Ferrante ma era collocare quel dispositivo in una realtà italiana, per come la mia soggettività la percepiva, perciò dal mio punto di vista, una realtà di genere e poi globale, che fosse il meno possibile il frutto di una presa di posizione di un gruppo, di una condizione o professione, di una qualche mia appartenenza. In entrambi i libri, quello tedesco e quello italiano, esiste un capitolo dedicato al senso e ai motivi di questo titolo.
Nel rispetto di questa mia esplicita richiesta il libro tedesco si intitolò Bambole napoletane (V. Scarinci, Neapolitanische Puppen. Ein Essay über die Welt von Elena Ferrante (trad.Ingrid Ickler) Colonia, Launenweber, 2018) quello italiano Il libro di tutti e di nessuno cioè esattamente come avevo chiesto. Volli quel titolo perché riformulava un concetto importantissimo espresso da Elena Ferrante, uno di quelli che mi convinse su tutto quando anni prima che l’autrice raggiungesse la fama mondiale, ne avevo colto un’analogia profonda con il mio modo di intendere la scrittura
Tra il libro che va in stampa e il libro che i lettori acquistano c’è sempre un terzo libro, un libro dove accanto alle frasi scritte ci sono quelle che abbiamo immaginato di scrivere, accanto alle frasi che i lettori leggono ci sono le frasi che hanno immaginato di leggere. (E. Ferrante ‘Il libro di nessuno’ in La frantumaglia. Nuova edizione ampliata, Roma, Edizioni e/o 2016, p. 185)
Quel concetto è lo stesso che ha permesso a molte e molti che hanno lavorato sulla materia ferrantiana (ma anche a molte scritture che con Ferrante niente apparentemente hanno a che fare) di usare in modo più o meno dichiarato questo ormai ineludibile dispositivo che Elena Ferrante rappresenta. Ovunque, dopo Ferrante, si legge di amicizie femminili ambivalenti, di subalternità sociali, psicologiche e di genere, di madri e figlie che si odiano e si amano, di famiglie rese disfunzionali dalla troppa povertà, ricchezza o avidità.
Quello che veramente fa la cultura però, la cambia e la rende dialogante con il reale è quel terzo libro che Ferrante ha teorizzato in modo esplicito e diretto chiamandolo il libro di nessuno: quello che non è ciò che l’autrice ha scritto o quello che lettrici e lettori hanno letto, ma ciò che l’autrice in un regime di parità assoluta, ha immaginato che fosse reale, e reale si è dimostrato tanto per chi ha scritto quanto per chi ha letto, nei termini in cui l’immaginazione è stata capace di modificare la realtà.
È sotto gli occhi di tutti che questa operazione dell’immaginario è diventata più vera della realtà. È l’immaginazione che crea per così dire una relazione di tipo ecologico che attiene a ciò che rende vera la cultura, perché rende gemelle letteratura e natura, le iscrive in un divenire incessante che ha per motore il tempo per come è conchiuso nella capacità immaginativa dell’umano.
Non posso non pensare a questo proposito a uno dei libri più belli che ho letto quest’anno grazie a un suggerimento di Elvira Federici, Sentire e scrivere la natura di Chiara Zamboni ( C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, Milano, Mimesis, 2020). Tra le molte illuminazioni di cui sono debitrice a quel libro ce n’è stata una che mi ha rassicurata sul mio modo di procedere quando affronto la pagina. Un procedimento che ho sempre seguito istintivamente e che mi sono legittimata per analogia con un processo del tutto simile a quello che ha riguardato l’esistenza e il potere di quel terzo libro così lucidamente e precocemente inquadrato da Ferrante al punto di farne uno dei motori della sua poetica di poi. Zamboni scrive riferendosi a Ingeborg Bachmann (il tipo di legame di questa autrice con Ferrante è espresso in forma germinale ma esplicita ne Il libro di tutti e di nessuno quando parlo di trascendenza)
Si tratta del passaggio dalla realtà all’emergere del reale, carico di onirico. Dove, per realtà possiamo intendere ciò che rientra nel mondo dei fatti, mentre il reale intrattiene un rapporto con il visibile non visto (…) Occorre essere radicalmente scostati dalla finta armonizzazione della realtà, per cogliere la verità nella percezione stessa. (…) è necessaria una specie di attenzione fluttuante, di sentire tra conscio e inconscio, una sensibilità aperta a percepire la dimensione onirica della realtà. (…) La storia è dimensione verticale del percepire, che è però intrecciata con l’esperienza sognante di lande desertiche, di luoghi altri e lontani. La percezione ha una trama inconscia, onirica che ci fa cogliere, intensificando, l’essenza delle cose presenti. (p.19-20)
Del resto ogni scrittura degna di chiamarsi tale risponde a ciò cui si riferisce Bachmann: Di che cosa parlare? Al meglio di qualcosa di evidente (possiamo leggere questo preambolo in Christine Koschel e Inge von Wendenbaum, in I. Bachmann, Luogo eventuale, p. 71-72). Cioè parlare di quale reale se non quello evidentemente situato in una prospettiva riconoscibile, come ad esempio è il caso di Ferrante, e di altre e altri che per la propria scrittura hanno preferito un inquadramento di genere.
In ciò Zamboni, dal canto suo, riecheggia magistralmente proprio parlando di uno degli aspetti della differenza di genere sessuale nella scrittura: “Lo stile di scrittura segue dunque ciò che è evidente, attraverso il mostrare, l’indicare un fatto dopo l’altro. Si sottrae così a un discorso interpretativo, che cerchi un’interpretazione di accadimenti disturbanti” (p. 21). Lo fa Ferrante da sempre, ho tentato di farlo io seguendo l’insegnamento relativo al valore di quel terzo libro che non interpreta proprio nulla, che per dirsi non stabilisce gerarchie di riferimento, che non aderisce a linee di pensiero. Ma che si pianifica in termini di opera ricalcando l’andamento delle evidenze, la loro tempistica, le illustra ma non le spiega, perché occupandosi tanto del reale attraverso la propria scrittura, quanto del lavoro dell’altra/altro, un conto è intonarsi un conto è interpretare.
Operando in questo modo su una scrittura di cui non si è autrici, si tradisce l’opera? La si ruba un po’ a chi l’ha scritta? Penso di sì, ma questa scienza così alternativa è anche quella su cui si sono fondate e rese riconoscibili genealogie espressive oppresse e recluse. Per riuscire a cogliere i contorni di una soggettività che possa dire finalmente io, quando quell’io non è visibile al mondo, non e nominabile, è irriconoscibile anche a se stesso, l’unica possibilità è dirsi/indagarsi per differenza e analogia, rispecchiandosi con quanto è evidente e con chi è riuscito a esistere solo dicendosi. Questo Elena Ferrante, teorizzando la poetica del terzo libro, lo aveva intuito, lo ha detto e ne ha fatto romanzi.
Quando il linguaggio si intona, dice Zamboni, al movimento dell’infinito è inevitabile che vada da essere a essere. Ed è, penso, inevitabile che crei relazioni non preclusive che proliferano da quella letteratura che può intendersi una delle prime forme di ecologia che introduce a quella che ci serve di introiettare ora più che mai, cioè una materia che ha per oggetto le funzioni di relazione tra persone, organismi vegetali e animali e l’ambiente in cui tutto è immerso. Dove l’ago della bilancia è sicuramente la qualità della relazione.
Nel caso di Ferrante posso testimoniare che tutto ciò funziona, ha funzionato in termini globali perché ha creato una pletora (plètora significa in patologia vegetale, abbondanza anormale di succhi in una pianta) di lavori che ponendosi liberamente in dialogo con un’opera letteraria hanno davvero creato un altro ecosistema e hanno scardinato molte preclusioni relazionali, di genere, sociali e gerarchiche. E anche gli alti livelli raggiunti dal lavoro di alcune donne che se ne sono occupate, sono stati legittimati via via che il mondo legittimava l’opera di Ferrante. Livelli alti perché se da una parte quelle donne che li hanno raggiunti erano allenate a studiare e introiettare un modus operandi creativo e relazionale maschile molto preclusivo (dico maschile perché lo hanno inventato gli uomini ma lo praticano e lo subiscono la maggioranza delle persone) nel dispositivo Ferrante hanno potuto liberare quella loro scienza altra, una scienza legata al loro altro leggere. La scienza dell’intonarsi ai movimenti del reale e a tutto il reale che si è in grado di percepire, più che quella di attenersi alle indicazioni inevitabilmente autoritarie di un sapere prescrittivo che tende a una fissità pretestuosa e falsamente ieratica. La scienza di questo scrivere ricalca quello che Zamboni chiama un dire in fedeltà a ciò che sentiamo via via (p.31) restando in una relazione per così dire ecologica con un reale che è multiforme.
Esiste davvero quella differenza di genere, letterario e sessuale, che rende la scrittura diversamente esplorativa, pur trattando di una realtà necessariamente condivisa? Io penso di sì, ed è il motivo per cui sono femminista. Tutto quello che ho visto e letto fin qui, me lo conferma. Però ho anche altre domande senza risposta: pur vivendo una realtà che tende all’infinito, tanto quante sono imponderabili le sfumature della soggettività di ciascuno, di che cosa parliamo quando crediamo di dire la verità? Quando crediamo a qualcuno che dice di raccontarci la verità? L’indice di variabilità in cui è iscritto il senso di questa realtà cui tutte le scritture dovrebbero riferirsi quando si vogliono vere, quanto è dipendente dalla qualità del rapporto che emittente, cioè chi scrive, e ricevente, cioè chi legge, istaurano nel patto relazionale che ogni tipo di scrittura propone? A questo proposito si guardi il capitolo del Libro di tutti e di nessuno che intitolo Frantumata (p.109-112).
La poesia ad esempio vive, più di altre scritture, di una componente inconscia, che in qualche modo ne è la centralità e perciò si costituisce come una variabile decisiva in termini di comunicazione, una variabile imponderabile e questo bisogna accettarlo. Una scrittura saggistica alle parole dovrebbe imprimere forse una maggiore convinzione razionale se non altro perché il suo obiettivo è quello di cercare una forma di coerenza che sviluppi il discorso oltre un punto di partenza noto. Per non parlare della narrativa, luogo dell’incontro per eccellenza: se l’emittente e il ricevente si vogliono incontrare davvero dentro una storia inventata, se vogliono diventare davvero l’una/o lo specchio dell’altra/o, come in amore, ci vuole abbandono e spirito di carità, ci vuole reciprocità, e forse ci vuole anche di perdonare qualche bugia, altrimenti non funziona. Sul rapporto tra verità e bugie nell’opera di Elena Ferrante si guardi ne Il libro di tutti e di nessuno il capitolo che intitolo Gli adulti sono bugiardi? (p.16-21)
Sul funzionamento di una scrittura, ossia su quanto possa davvero essere in grado di illustrare la realtà materiale e simbolica del vivere, a me pare che pesino in senso negativo il travisamento di due fattori che mi sembrano onnipresenti oggi e mi schiacciano. Quello legato a un così detto uso del linguaggio politicamente corretto, e legato a un modus operandi politicamente molto connotato che genera codici linguistici rigidi, che a loro volta generano gruppi di appartenenza per nulla permeabili alla pluralità di linguaggi di cui chi lavora con la scrittura dovrebbe sempre considerare il grado di risonanza in termini reali e non solo ideali. E quello che accosta ogni genere di scrittura alle regole di uno storytelling volto al profitto, inteso come vendita, consenso, successo della propria scrittura pubblica, promozione e iconizzazione della propria immagine mediatica. Le derive dell’una si iscrivono nelle derive dell’altra: quando l’attivismo si fa opera artistico letteraria, può diventare un marchio che usa gli stessi metodi che combatte per vendersi al consenso e al mercato, cessando l’opera in questo modo di spendersi in quell’economia di relazione ecologica che contiene, quello che oggi chiamiamo presente, ma che esiste al mondo tale e quale da sempre.
Da persona che ora sta scrivendo un romanzo che si vorrebbe storico, sono obbligata a chiedermi quanta realtà può custodire e comunicare una scrittura che si mette alacremente in regola con l’istituzione dello storytelling, o un’altra che si fregia attraverso un’operazione creativa di sviluppare gli assunti impositivi e preclusivi che segnano confini oggettivamente invalicabili in merito al vero, minacciando con ciò ogni immaginazione che la possa accostare. Può un regolamento narrativo che vale per la pubblicità che ti deve far comprare, per la politica che deve procurare accoliti e produrre schieramenti, condivisioni, like, valere anche per una scrittura tesa esclusivamente sul filo di se stessa? E può valere anche per una scrittura che si riferisce al passato e che con ciò dovrebbe leggere in controluce tutti i documenti? Nessuno escluso, anche quelli seppelliti dal disinteresse per una questione in cui non vi si trovino politiche tramandabili ai posteri. Magari in favore di un’altra politica che è giunto il momento di trattare con tutti i riguardi per risarcirla e farla diventare anche lei storia con la S maiuscola. E questo a prescindere dalle verità possibili o certe, dalla realtà mutabile o immutabile che concerne una storia sepolta dal tempo o una presente oberata dalle infinite pretese di verità che spesso con l’autenticità letteraria c’entrano poco. Si veda a questo proposito il capitolo che ne Il libro di tutti e di nessuno intitolo Perché il romanzo di Elena Ferrante è politico (p.11-15) e per tutto il discorso di cui sopra il capitolo dell’edizione italiana che si intitola come il libro medesimo (p.22-28).
Continua
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Femminismo multispecie e poesia
In un’appassionata nota introduttiva a Manifesto cyborg di Donna Haraway intitolata La molteplicità: un’etica per la nostra epoca, oppure meglio cyborg che dea (per la maternità di questo titolo si veda anche Leggendaria di luglio 1991 su donne e nuove tecnologie) Rosi Braidotti associa il concetto di biopotere a un paradosso quanto mai lungimirante, esprimendo la questione in questi termini: “Il biopotere è anche e soprattutto questo paradosso di carne, viva e vulnerabile, che si trova presa e ri-presa nello sguardo disumano di una telecamera che viola tutti i limiti e non lascia neanche più spazio, o necessità, alla memoria”.
Da Manifesto cyborg a Chthulucene (dell’importanza di questi due testi di Haraway sommariamente ne parlo qui) e anche a attraverso il bellissimo e ancora tutto da studiare Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie di Federica Timeo, uno dei punti nevralgici di questi lavori così importanti, per me come poeta, riguarda la confutazione del concetto di specismo, ossia la convinzione secondo cui gli esseri umani siano superiori per status e valore agli animali, o alle altre forme viventi non umane, e pertanto giustificati nel godere di diritti assolutisti su tutto il vivente.
Il concetto di biopotere così lucidamente sintetizzato dalle parole di Braidotti è in grado da solo di varcare una soglia importantissima che tanto il linguaggio della poesia di per sé che quello strettamente legato al femminismo speculativo, hanno praticato con largo anticipo. Infatti entrambi i linguaggi si sono resi capaci di una lettura, avvertita più di altri, dei paradossi intrinseci al complesso sentimento di questa contemporaneità. E uso la parola sentimento non a caso.
La soglia a cui mi riferisco è quella in grado di connettere i corpi (tutti i corpi umani, animali, vegetali, minerali) alla umanità-disumanità di uno sguardo e di un dettato assolutisti e colonizzatori come sono quelli imposti alle soggettività di ciascuno dall’imperativo macchinico di una riproduzione compulsiva dell’immagini proprie e altrui. La poesia, almeno quella che piace a me, vive di questa idiosincrasia endemica rispetto a ogni forma di linguaggio che si esprima attraverso una postura egemonica e assertiva, proprio perché questo linguaggio determina un congelamento della memoria soggettiva, cioè del sentimento di continuità che consente l’unità espressiva di un dettato originale.
Allo stesso modo gli strumenti linguistici offerti dai moltissimi femminismi che si sono assunti la responsabilità di una lettura situata e non definitiva del presente, si sono avvalsi della stessa idiosincrasia in cui carne, viva e vulnerabile (e qui si intendono comprese tutte le vulnerabilità colonizzate e colonizzabili) trovino lo spazio e il riconoscimento di una propria memoria genealogica che prima deve passare per un linguaggio che sappia nominarle in un modo quanto più prossimo alla loro essenza precipua.
Anna Maria Ortese a questo proposito scriveva che per sottrarre a qualcuno la percezione di essere in diritto di praticare la propria identità, è sufficiente privarlo del suo linguaggio originario. Questo significa privarlo del diritto di esprimere la propria soggettività e di sentire propria e ben addentra alla Storia collettiva, la sua personale vicenda. Avvezzare qualcuno a non porsi la questione in questi termini è un atto colonizzatore a prescindere se a compierlo sia un uomo o una donna, uno Stato, un padre, una madre, una religione, un partito politico, una comunità, una razza, un’ideologia.
Giusto per aprire una parentesi sul mio lavoro relativo alla poetica di Elena Ferrante di prossima pubblicazione, personalmente ritengo che una parte del successo riscosso dall’opera di questa autrice arrivi dal fatto che la sua immagine esista perché è invisibile. Di un’invisibilità che assume contorni molto simili a quelli espressi da Braidotti quando parla dell’invadenza di una telecamera che viola tutti i limiti e non lascia neanche più spazio, o necessità, alla memoria. La mancanza dell’immagine di una donna che scrive, così acutamente connotata soltanto dal linguaggio che essa produce, ha creato lo spazio di esistenza per una moltitudine di argomenti che stava lì da sempre, ma che prima era continuamente smorzata in virtù del suo carattere endemico posto agli antipodi rispetto all’imperio dell’assolutismo, della violenza colonizzatrice, del sessismo.
Questo è un discorso che ho ricostruito a posteriori. Quando ho scritto le poesie di Annina tragicomica nel 2016, sono partita da un sentimento della natura e da una necessità di convivenza con il mondo animale tutti miei e da un amore totale che non saprei come collocare e neanche voglio. Tuttavia dalla poesia intesa per come l’ho sommariamente spiegata e da molte letture di allora (fondamentali per una maggiore comprensione dell’opera di Elena Ferrante negli anni) andavo a chiudere un cerchio fondativo per me, me ne accorgo adesso più che mai. C’è una poesia tra le settanta contenute in Annina tragicomica che per me rappresenta a posteriori una specie di serpente che si morde la coda, cioè testa e coda, inizio e fine situati nello stesso punto soltanto per esprimere una qualche inoppugnabile continuità. La poesia si intitola Città e va a inaugurare la sezione audio che ho creato sulla homepage di questo sito.
Città, Annina tragicomica, Formebrevi 2017
Politiche dell’inadeguamento
Per quasi dieci anni ho gestito il fondo librario di poesia contemporanea che è stata un’attività di tipo associativo supportata dalle istituzioni (scuola e comune) e anche da un forte consenso della comunità locale in cui sono nata e vivo. La pandemia come per tutti è stata uno spartiacque anche per me. Questa necessità che ci ha colpito, di cercare di riorientarsi alla luce di un evento così imperscrutabile, si è confrontata nel mio caso di intellettuale con tutti i ruoli che come donna, mi si richiede di incarnare. Ma anche e inevitabilmente con il lavoro, le scritture e le esperienze relazionali che hanno contraddistinto il periodo in cui il massimo impegno che ho profuso, figli a parte, è stato quello della gestione del fondo librario di poesia e delle sue attività. La mia personale collusione con la poesia, insomma, mi ha condizionato non poco in termini di responsabilità.
Questo potrebbe sembrare una contraddizione per coloro che pensano la poesia allocata in un ipotetico altrove. Cioè non strettamente connessa a un modo di intendere la realtà che comprende i linguaggi che competono la società, l’ecologia, l’economia, l’oppressione di tutte le minorità. E soprattutto per coloro che disdegnano il linguaggio diciamo ‘basso’ non capacitandosi della stringente necessità di ammetterlo in un discorso condiviso tanto letterario quanto sociale che sia intragenerazionale, interclassista e interraziale.
Diversamente non si avrà difficoltà a seguirmi se si pensa la poesia come io la penso, e come la pensava Nadia Campana cioè come qualcosa che consente di vedere quanto si rende ammesso al dicibile, e mutare tutte le volte di conseguenza i registri del linguaggio entro i temi e gli agenti incontrollabili più o meno conclamati che ci investono.
Nadia Campana (1954-1985) è stata una figura importante nel panorama della poesia e della traduzione italiana ma come molte intellettuali donne, messa al margine dalle non alternative imposte dal tempo in cui è vissuta. Campana professava attraverso i suoi saggi e le sue traduzioni di Dickinson, Brontë, Cvetaeva il modo precipuo in cui la poesia e la letteratura si configurano attraverso il corpo e la condizione femminile. Ma anche l’impossibilità per la poesia e la letteratura femminile di essere apertamente e direttamente gravate della responsabilità politica e sociale pretese dalle ideologie del suo tempo. Campana ascriveva fiduciosamente alla bellezza, che secondo la poeta ha un rilascio lento, il compito di sortire i suoi effetti, all’interno di quel continuo mutare di cui sopra.
Mutamento che però ai giorni nostri, i fatti del presente mostrano come l’estensione di una complessità di cui i corpi contemporanei subiscono conseguenze dirette che sfumano nell’ignoto e nel paradossale. Vedi gli effetti della profondissima crisi economica che non molla la sua presa, della recente pandemia e dei cambiamenti climatici sul particolare della vita di ciascuna/o.

“Anche il discorso sulla letteratura femminile, che prima abbiamo sfiorato, ci pare ora viva su fondamenti eccessivamente rigidi e contrappositivi. Se fosse vero che il linguaggio delle scrittrici è solo orizzontale e troppo legato al corpo non avremmo altre artiste eccellenti seppur passionali come Gaspara Stampa, Marina Cvetaeva, le sorelle Brontë. La poesia autentica è più forte dell’ideologia e la violenza dispotica di ogni interpretazione, politica o psicanalitica che sia, spesso è incapace del principio di individuazione, di scorgere il particolare nel generale, riducendo tutto a un deja vu senza appello. Inoltre resta da chiedersi se è giusto sovrastare la figura di una poeta-donna con forme di responsabilità sociologiche e politiche così gravi. Pretendere insomma che cambiasse un orizzonte di pensiero, e se non sia più giusto puntare lo sguardo sulla poesia e sul coraggio che questo lavoro imponeva a quei tempi come in tutti i tempi. La bellezza è di per sé rivoluzionaria e suoi semi portano frutti, anche se non nell’immediato, perché i modi della sua trasmissione non sono così semplici come avviene per i sistemi di pensiero più innocui. Del resto questo racchiudere la poesia in griglie ideologiche ha sempre significato rimozione”
Campana viveva con piena coscienza la necessità di un principio di individuazione estraneo all’ideologie di segno diverso tra loro, ma custodi tutte di un carattere esclusivista che nessuna poetica culturale, a mio avviso, dovrebbe più consentirsi. Scrive Campana in merito a una delle possibili definizioni dell’agire poetico: fa parte di un gioco tragico quello di non lasciare che le immagini vengano strutturate dal pensiero o dal credo politico gettandosi invece contro le cose fuori dall’adeguamento e dalla registrazione.
Era soprattutto questo ciò che scandiva a chiare lettere Campana anche attraverso il suo destino personale, situandosi come corpo scrivente in questo gioco tragico con lucidità e sacrificio. E a mio parere anche segnando una possibilità di individuazione ancora più precisa per il corpo femminile scrivente articolato entro quel rilevamento linguistico che pure non si adeguava.

Molto interessante e a mio avviso assonante in questo senso è il contributo di Elvira Federici, presidente della Società Italiana delle Letterate che attraverso un articolo pubblicato per Letterate Magazine l’11 luglio scorso, analizza il celebre grafico della ciambella dell’economista inglese Kate Raworth. La studiosa è conosciuta per il suo lavoro che descrive come un modello economico in equilibrio, i bisogni umani essenziali e i confini planetari conosciuti dalle scienze umane, sociali e naturali. Federici nella descrizione del fondamentale contributo di Raworth conclude che un modello come quello dell’economista inglese, una rappresentazione cioè in grado di rilevare un numero più alto possibile di variabili e interazioni, costituisce quanto di più auspicabile in termini necessariamente cooperativi tra persone e specie.
Questa rubricazione dei vari piani del linguaggio specifico all’interno di una visione estesa e multidisciplinare non può non essere tenuta in considerazione da chi si occupa di poesia, là dove poesia è da intendersi come mutuabilità del proprio linguaggio entro una visione esterna di tutti i linguaggi per mezzo dei quali agisce il reale. Allo stesso modo non si può non tener conto della società in termini di diseguaglianze di genere, razziali, economiche e dei gruppi che costituiscono il tramutarsi di queste disuguaglianze in risultanti culturali non pervenute a ciò che intende se stessa come cultura universale.
L’emergenza climatica è rilevabile all’interno degli agenti che condizionano l’equilibrio naturale immediatamente fuori dalle grandi città. L’esperienza precipua che il corpo femminile scrivente, e non scrivente, quotidianamente compie entro tutti i ruoli che competono al suo agire configura una consapevolezza la cui precisazione oltranzistica è doverosa, soprattutto ai fini di una responsabilità generazionale che riguarda donne e uomini i quali consentono al proprio agire una posizione situata e fluida.
Perciò nel mio piccolo sto immaginando daccapo un lavoro redazionale e organizzativo per Contemporanea – fondo librario, con tempi diversi da quelli frenetici imposti dal blogging ma con una cura d’eccezione ai contenuti e alla loro presentazione grafica. In quest’ottica mi pare un’opportunità del tutto connessa alle necessità nuove di questo presente, quella della pubblicazione di testi di interesse al discorso di cui sopra, quella dei rapporti con le scuole e le università, ma anche l’organizzazione di eventi e promozioni di materiali connessi a tutto questo.
Ciò perché ancora credo che siano scelte indispensabili a una poetica, e quindi in questo senso diversamente politiche, tutte quelle relative al non adeguarsi dei linguaggi per mezzo dei quali ci si relaziona comunemente con il mondo di fuori. Non adeguarsi alla frenesia e alla sovraesposizione del corpo scrivente secondo le modalità prevalenti, non adeguarsi alla necessità di consenso che inevitabilmente agisce e tradisce l’eventuale originalità dei contenuti.
Penso che a questo punto sia più importante che mai la partecipazione ragionata come intellettuali su web e ciò che potrà ancora significare la partecipazione dei nostri corpi alla vita pubblica. Partecipazione reale che non potrà esimersi dal costituirsi come presenza agita attraverso la consapevolezza del percorso fatto da altre e altri in quello che possiamo considerare ormai passato. Ma allo stesso tempo aderendo quanto più consapevolmente possibile alle contingenze del presente, qualsiasi sia l’azione poetica, sociale e lavorativa all’interno della quale si abbia un ruolo.
Come se ci fosse un domani. Il lavoro culturale
“È importante a questo punto porre ancora una volta l’accento sulla parola “disturbo” anche nei termini di interferenza linguistica con la quale uno stile di analisi e un testo narrativo possono essere consapevolmente condotti”. Esce oggi su Il lavoro culturale il secondo articolo per il tema Ecologia Femminismi e Futuro. In questo contributo offro una delle letture possibili di Femminismi futuri edito da Iacobelli editore. Grazie mille a tutte le molte persone che negli ultimi mesi si sono sentite coinvolte con me in un discorso comune e necessario. Grazie alla redazione de Il lavoro culturale per i loro orientamenti sempre opportunamente scanditi, l‘accoglienza e la serietà. Leggi l’articolo.
Qui l’articolo precedente da intendersi come prima parte di quello in uscita oggi.
Ecofemminismi. Il lavoro culturale
ARTICOLO 1. Ecofemminismi

Qual è stato il peso di questi stereotipi legati al carattere universale della scienza? E quanto hanno potuto agire entro il senso comune, spingendosi fin dove il pregiudizio, legato a ciò che è scientifico e a ciò che non lo è, è stato inteso come oggettivamente valido in molti ambiti dell’esistenza? Una considerazione di questo tipo oggi più che mai si staglia come un elemento di riflessione che va considerato prioritario, in quanto non riguarda solo i movimenti ecofemministi nella loro pluralità, né un punto di vista che interessi una qualche distinzione di genere, specie, razza, orientamento sessuale e/o politico e così via.
Oggi su Il lavoro culturale esce il primo di due articoli che ho pensato e proposto come condivisione di una mia riflessione sul presente. Storie che creano mondi e mondi che creano storie. Disinnescare il rapporto tra scienza e mascolinità per rendere pensabile il futuro è il primo dei due articoli. Grazie infinite alle autrici di Femminismi futuri e alle organizzatrici del circolo di lettura Aperitivo con libro per aver creato quell’occasione così fervida di dialogo e di attenzione reciproca che è stato l’incontro su Zoom del 14 giugno scorso. Grazie infinite alla redazione de Il lavoro culturale per aver permesso che alcune mie riflessioni intorno all’ecofemminismo e al libro Femminismi futuri avessero seguito.
14 giugno ore 19 Femminismi futuri
Sono davvero lieta di poter raccontare perché a mio avviso sia importante leggere un libro come Femminismi futuri edito da Iacobelli editore per meglio comprendere il delicato momento che stiamo attraversando ma non solo. I saggi presenti in questo libro sono di particolare interesse anche per tutti coloro che si occupano di narrativa, poesia, filosofia, arte e ecologia e fossero interessati a comprendere quali direzioni altre poter intraprendere alla luce di questo presente nuovo di zecca. L’incontro sarà inoltre arricchito dalla presenza di alcune autrici del libro in dialogo con noi. Anna Maria Curci, Patrizia Sardisco, Cristina Polli e Contemporanea fondo librario vi aspettano!

Per partecipare all’evento gratuito scrivere a annamaria.curci@tiscali.it
Per leggere l’articolo in cui tra l’altro mi riferisco al libro
Per acquistare Femminismi futuri in formato digitale o cartaceo

Modi seri di stare in contatto con il problema
“cosa facciamo nel presente, ma, soprattutto, quanto oltre si può andare nel ricostruire il passato di una nazione, di una comunità, per avvicinare un futuro che sembra impensabile” Femminismi futuri, Iacobelli editrice
Da lettrice accanita in questa fase 3 così satura di incognite sono ricorsa ancora di più ai libri. Così ho trovato particolarmente interessante e per certi versi confortante, incrociare la lettura di due testi che nella loro connessione, amplificano l’attualità di alcuni temi a partire da un’analogia vitalistica relativa all’esigenza di pensare a un modo di narrare storie più confacente agli orizzonti complessi che si vanno delineando.
Pensare, pensare dobbiamo, prescrive Donna Haraway l’autrice di uno dei due libri di cui sto parlando. Not Nero Edizioni nel settembre 2019 pubblica in Italia Chtulucene, sopravvivere su un pianeta infetto traduttrici Claudia Durastanti e Clara Ciccioni. Un libro fondamentale, da leggere ora più che mai ma la cui lettura va preceduta o accompagnata a mio avviso necessariamente da Femminismi futuri. Teorie, pratiche e fabulazioni, edito da Iacobelli nel 2019 a cura di Lidia Curti con Antonia Anna Ferrante e Marina Vitale.

Dalle avvincenti complessità che nascono dall’incrocio di queste due letture mi piacerebbe sviluppare un discorso più ampio tuttavia al momento mi limiterò alla descrizione di un evento importante che in parte mi ha aiutata a comprendere meglio alcuni dei molteplici risvolti di qualcosa di cui sarebbe respons-abile (utilizzo una delle traduzioni possibili di una parola inventata da Haraway) da parte di ciascuna/o essere informate/i.
Il salone internazionale del libro di Torino 2020 quest’anno in versione Extra ossia in versione distanza sociale, ha ospitato un intervento a distanza di Donna Haraway che con un’intervista rilasciata a una delle sue traduttrici Claudia Durastanti e a Loredana Lipperini illustra i contenuti di Chthulucene pubblicato negli Stati Uniti nel 2016 con il titolo Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene. Il libro è risultato una delle letture più popolari in Italia durante la fase del lockdown ed è definito, a volte, come la svolta ecologista dell’autrice di Manifesto cyborg.
Nell’intervista Haraway innesta i contenuti di Chtulucene alla realtà odierna della pandemia, stimolando ancora una volta in chi ascolta e legge Haraway la necessità di un ribaltamento del pensiero su cui poggiano i capisaldi del nostro presente biologico e culturale di individui. Infatti dalla preziosa intervista si evince veracemente la capacità di Haraway di stimolare una revisione dei fondamentali di una logica della sopravvivenza da lungo tempo nutrita da automatismi culturali, pratiche e sistemi spesso inconsapevoli e inevitabili per chi li subisce, e ormai in tutta evidenza da intendersi dannosi.
Come praticare davvero la possibilità di incontrare qualcosa che non siamo noi stessi nell’approccio con il mondo al di fuori del nostro pensiero? Come praticare un intendimento di solidarietà inter-specie per fare in modo che l’eccezionalismo umano esca fuori dal quadro generale e non si presenti come fenomeno sempiternamente prevalente? Come non consentire più a questa prevalenza di eclissare la totalità dell’orizzonte, da qualsiasi prospettiva lo si stia guardando? Come stare a contatto con il problema costituito da un mondo tanto artificiale quanto ereditato sia in termini biologici che culturali, il quale mai come in questo momento mostra limiti a ogni prospettiva futura di fattibilità?
Nell’intervista tra l’altro Haraway illustra in modo diretto una solidarietà non concettuale del vivere insieme all’altro-che-non-è-umano (inteso come animali/ambiente/natura) che va molto oltre una visione semplicistica dell’ecosostenibilità: “riguardo al virus c’è tutto un approccio orientato al nemico invece di dire: aspettiamo un attimo, questo è un segno e forse non soltanto un segno di ecologie socio naturali completamente sballate, il nostro modo di stare con la multispecie è sballato”.
L’altro punto fondamentale sollevato da Haraway è il tema della giustizia riproduttiva come di assoluta pertinenza al discorso femminista declinato nel motto spiazzante e controverso: “generate parentele e non bambini”. Nell’intervento al Salone il significato di questo motto è spiegato da colei che lo ha elaborato in termini speculativi, con una limpidezza inarrivabile. Di qui si definisce come necessaria la precisazione dell’autrice rispetto al passaggio simbolico dall’apertura del Manifesto Cyborg come testo non solo femminista, all’approdo e poi all’illustrazione attraverso Chtulucene di una pratica eco-femminista del tutto contemporanea e liberata dai fraintendimenti e dalle critiche mosse all’autrice in passato e nel presente.
A questo proposito trascrivo letteralmente un aneddoto significativo tratto dall’intervento di Haraway al Salone in merito alle differenze tra femminismi, e quanto, questa insistente intransigenza rispetto alla differenza costituita dall’altra, possa essere stata nociva e controproducente per tutte in termini relazionali, intellettuali e speculativi. Trovo particolarmente significativa la lettura di questo brano ora che il pensare insieme, il pensiero (intra)specie, (intra)specifico, dentro e fuori il genere e i generi è più o meno riconosciuto, non soltanto grazie a Haraway, come un aspetto necessario per stabilire un contatto con la problematicità del presente a prescindere da ogni altra considerazione specifica.
“Ero in contatto con le femministe marxiste italiane della sinistra italiana che si occupavano del lavoro, ricevevo notizie dalle femministe tedesche. Non conosco abbastanza i nostri reciproci movimenti, forse è questo. Credo anche che ci siano straordinarie differenze. Per esempio molte amiche femministe europee, nutrivano un disprezzo per l’eco-femminismo, come se l’eco-femminismo fosse un movimento retrogrado, naturalista fatto da donne che venerano la dea. Se fossi una persona religiosa adorerei una dea. Come se l’eco-femminismo fosse una cosa semplicistica e non lo è mai stato. È sempre stato un movimento ricco e complesso. Credo che per alcune femministe europee è stato difficile comprenderlo, almeno tra le persone delle mie cerchie. Ricordo di aver tenuto una lecture a Firenze. Un gruppo di femministe romane ha preso il treno per venirmi a sentire. Era un periodo in cui stavo lavorando a The companion species manifesto [ndr :Dogs, People, and Significant Otherness poi edito da University of Chicago Press nel 2003] in cui parlavo di cani. Le femministe romane amavano il Manifesto cyborg, quello era il vero marxismo femminista, teoricamente robusto, un pensiero strutturato che io avevo completamente distrutto buttandomi su un pensiero naturalista tra le nuvole e fissato con i cani: potevo essere considerata ancora femminista? Non c’era niente nei cani a cui le femministe potessero essere interessate. Erano molto accigliate, molto sofisticate, io mi sono sempre sentita in soggezione tra le femministe romane, erano vestite sempre molto meglio di me, avevano un aspetto molto sofisticato erano in grado di parlare della teoria in modi in cui io non sono mai stata capace, ero spaventata a morte da queste femministe romane, che erano venute a posta a sentirmi e erano molto molto turbate da una femminista americana in comunione con la natura che ama le dee e porta a spasso i cani. Esagero ma sto esagerando solo un po’, più che un ritardo direi che c’era una distanza. Vivevamo nello stesso periodo di tempo ma c’erano fortissime differenze di stile, nell’uso delle metafore, nei modi di pensiero, nell’imparare ad ascoltarci a vicenda. La verità è che avevamo paura l’una dell’altra. Io so che ne avevo di loro. Loro erano sulla difensiva rispetto a me. C’è voluto tempo e un po’ di senso dell’umorismo per imparare i reciproci femminismi senza essere giudicanti.”
Il pensiero di Donna Haraway in Chtulucene liberandosi da molti legacci ideologici, è una specie di grèdiente che in poesia illustrerebbe ciò che è necessario sottacere in termini di metodo, là dove il metodo si legasse a una procedura e non al contatto con lo stato delle cose e alla percezione della loro instabilità nella possibilità di essere riferite. Per questo trovo fondamentale al fine di colmare quel gap di conoscenza/convivenza intraspecifica cui Haraway si riferisce, un libro come Femminismi futuri. Il libro consiste in una raccolta di saggi di Silvana Carotenuto, Roberta Colavecchio, Lidia Curti, Alessandra Ferlito, Antonia Anna Ferrante, Anna Greenspan, Suzanne Livingston, Luciana Parisi, Stamatia Portanova, Olga Solombrino, Tiziana Terranova, Marina Vitale, nell’introduzione una delle curatrici, Lidia Curti, scrive: “L’apertura a nuovi orizzonti analitici ed epistemologici arricchisce l’ambito politico e filosofico di un insieme di differenze molteplici e non di istanze singole e separate nella lotta alle disparità sociali. L’intersezionalità, termine coniato dalla giurista africana americana Kimberlé Cranshaw all’inizio degli anni Ottanta e ripresa da Angela Davis in tutta la sua opera e militanza, era stata ancor prima sottolineata da bell hooks e Audre Lorde, che avevano descritto il nodo complesso tra diverse identità e oppressioni. Il recente Manifesto Xenofemminista (Laboria Cuboniks, 2016) ricorda che l’attuazione dell’intersezionalità è una modifica dell’universale che non può essere imposta dall’alto ma costruita dal basso, seguendo itinerari laterali e talvolta disagevoli”. Femminismi futuri è di particolare interesse anche perché il riferimento alla fiction e alla produzione artistica informata di un approccio al reale suggerito da pensatrici come Haraway, ma non solo da Haraway, schiude scenari formidabili per tutti i generi e le scritture contemporanee. Il testo nasce dal lavoro di un gruppo di lettura e di ricerca nell’ambito del Centro di studi postcoloniali e di genere dell’Università Orientale di Napoli, che ha affrontato testi teorici e critici del femminismo recente, dal cyber- e xeno-femminismo alla nuova ecologia di Donna Haraway. L’indagine parte dalle svolte antropologiche e biologiche degli ultimi decenni. L’analisi dei testi riguarda perciò romanzi fantastici e di fantascienza speculativa femminile: Joanna Russ e Angela Carter, Ursula Le Guin, Octavia Butler e Nnedi Okorafor, fino all’arte afrofemminista. Bellissimo tra gli altri saggi bellissimi La scrittura vegetariana di Han Kang di Silvana Carotenuto. Insisto: sono assolutamente da leggere sia il libro di Han Kang La vegetariana sia ciò che mirabilmente ne scrive Silvana Carotenuto.

Peraltro domenica 14 giugno alle 19 avrò il piacere di introdurre Femminismi futuri nell’ambito di un ciclo di incontri “Un aperitivo con libro” organizzato da Anna Maria Curci, Cristina Polli e Patrizia Sardisco sulla piattaforma Zoom (info per partecipare annamaria.curci@tiscali.it ).
Il mio lavoro sui due libri continua saturo di svolte e rimandi pressoché infiniti tanto da chiedermi se riuscirò a concretizzarlo in una scrittura terza. Ma questo importa di meno, ciò che conta, sia detto in termini soggettivi e personali, è aver rinvenuto le coordinate e di stare assistendo all’emersione, di un’intersezione di linguaggi non nuovi né futuri perché la scrittura e il pensiero delle donne li portano da sempre strutturalmente incisi nelle modalità di orientamento che richiede il presente per essere letto e il futuro per essere concepito. Non per niente quella che venne chiamata, fraintendendola, la svolta animalista e ecologista dell’ultima Ortese, salvo felici eccezioni, non venne mai considerata nella prospettiva di un esorbitante anticipo che la scrittura di quella grandissima autrice italiana aveva già iniziato a delineare in termini di lettura storico politica della società del suo paese con Il mare non bagna Napoli. I tempi non erano maturi, fenomeni storici e politici forti del loro eccezionalismo umano e centralità mai avrebbero considerato un’interlocuzione che sollevandosi e prendendo la parola dal margine non mentiva se stessa, riguardo l’origine e il valore della propria marginalità. Del resto una donna che scrive è una bestia che parla, sosteneva molto tempo fa Anna Maria Ortese.
L’intervento integrale di Donna Haraway al Salone del libro extra 2020
Sette ghiande
SECONDA PARTE. La prima parte qui
“La caparbia, inesausta lezione delle fiabe” scriveva Cristina Campo ne Il flauto e il tappeto pubblicato nel 1971 “è dunque la vittoria sulla legge di necessità, il passaggio costante a un nuovo ordine di rapporti e assolutamente niente altro, perché assolutamente niente altro c’è da imparare su questa terra”. E sempre nello stesso contesto Campo si rivolgeva al poeta “È certo una parabola del poeta, questo nemico involontario della legge di necessità. Che può fare il poeta ingiustamente punito se non mutare le notti in giorni, le tenebre in luce?”
Se a questi giorni si potesse dare un piccolo merito o demerito, a seconda dei punti di vista, sarebbe nell’avere evidenziato quello che è necessario e quello che non lo è. Il necessario Campo lo individua in un punto ridottissimo, direi uno snodo, non tra il prima e il dopo, piuttosto entro un passaggio da un ordine di cose all’altro, noi volenti o nolenti. Questo passaggio riguarda tutto, anche il/la poeta che sebbene, secondo Campo, siano entrambi svantaggiati nel maneggiare il servibile, proprio in virtù della loro inimicizia con il principio ineludibile di necessità, nel cambiamento vedono meglio l’avvisaglia, la definizione, e una possibilità raminga, da provare a accordare a quanto sta mutando.
Viviamo la primavera più secca degli ultimi settant’anni e se ne parla poco. A di là di qualche giorno di pioggia blanda, il suolo è già arido come in luglio. Proprio per via di questa aridità che in alcuni punti non fa crescere l’erba, qualche giorno fa, sotto la quercia del mio giardino ho trovato sette piccole piante spuntate da altrettante ghiande neanche del tutto interrate. Mi è tornato alla mente che l’albero da cui venivano quelle ghiande così coriacee e pronte a essere qualcosa altrimenti dal loro essere ghianda, lo aveva piantato mio nonno. Mio nonno è sempre stato un originale. Un giorno è partito da casa a piedi con un badile, convinto che avrebbe trovato in qualche terreno incolto della campagna intorno, una ghianda germinata che avrebbe potuto diventare un albero. Ma se vuoi un albero vai al vivaio e te lo compri, mi ricordo di avergli detto con il cinismo dell’adolescente consumista dei tardi anni Ottanta. Mio Nonno tornò dalla spedizione con una piantina esile infilata nel taschino della camicia e la piantò, recintandola alla meglio, per difenderla dall’essere calpestata o falciata quando si rasava il prato.
Sette ghiande pronte a diventare altrettanti alberi non sono poca cosa di questi tempi, specie se l’albero da cui vengono non l’hai comprato al vivaio. Perciò ho preso una paletta da spiaggia dei miei figli di quando erano piccoli e carpendo la poca terra intorno alle ghiande, le ho piantate in sette vasetti di plastica. Perché, mi sbaglierò, ma se la legge di necessità si impone, Cristina Campo e mio nonno mi hanno insegnato a credere che comunque possiamo stringere accordi tutti nostri con il mutamento.
Il lockdown dovrebbe ancora durare dei giorni, stando alle notizie che vengono diffuse dai principali media. Avevo iniziato nell’articolo precedente a fare un po’ il punto, senza pretese di esaustività, su l’aria che tira riguardo alla poesia in questo momento, nella parzialità in cui l’ho seguita finora e cerco, in questi giorni di continuare a seguirla. Osservo che da questa maggiore attenzione prodotta soprattutto dall’accresciuto aumentare del tempo da dedicare alla cosa, ne risulta una strana effervescenza nel parlare di poesia attraverso canali mediatici alternativi che si pongono al lato di realtà solide e di lungo corso.
UNO, WEB TV. Nasce ad esempio KatÀstrofi – Stati di eccezione televisibili che è una trasmissione di WebTV dedicata alla poesia, alla letteratura e alle arti in genere presentata dal progetto Argo TV e da Autoanalfabeta University of Utopia e ideata da Lello Voce e Valerio Cuccaroni. Ho avuto modo di seguire la prima puntata il 15 aprile che può essere vista qui. Il motivo per cui l’ho seguita è stata l’annunciata presenza tra gli altri di Gabriele Frasca ma al termine della lunghissima trasmissione ho trovato più convincente l’intervento di Franca Mancinelli, la quale ha inteso più degli altri la necessità di non essere riepilogativa di uno stato di cose evidenti, optando per lo svantaggio di restituire dal proprio punto di vista, lo stato di sospensione che stiamo condividendo poeti e no, il quale non è ancora affrontabile con gli strumenti della poesia.
Ecco mi ha colto di sorpresa, e mi è piaciuto dato il contesto, e mi ha detto molto, questa bella laconicità dell’intervento di Mancinelli arricchito da immagini semplici, piuttosto che visioni e ricette politiche, che mi interessano ma che forse ora come ora alla poesia servono ancora meno di quanto anche prima, tutto ciò servisse poco e niente. Ieri mercoledì 22 è andata in onda la puntata intitolata ‘Il virus è un linguaggio‘, a dialogare nell’agorà multimediale di KatÀstrofi sei poeti (alcuni dei quali anche traduttori) che fanno ben sperare: Maria Grazia Calandrone, Marco Giovenale, Rosaria Rosi Lo Russo, Adriano Padua e Fabrizio Venerandi. Appena potrò, questa puntata la guarderò con piacere.
DUE, WEB RADIO. FangoRadio trasmette dal lunedì al venerdì, qualche volta anche il sabato o la domenica. Per ascoltarla ci si può direttamente collegare a questo link. Nell’ambito del palinsesto di Fango la scrittrice e poeta Francesca Matteoni ogni martedì alle 21,30 conduce Sàivu – Survival Kit una trasmissione in cui a parlare è la poesia. Il programma si basa su una breve e puntuale introduzione della conduttrice e una lettura dei propri versi eseguita dall’autore ospitato, intercalata da una playlist proposta dallo stesso. Grazie alla sensibilità della conduttrice, poesia e radio qui vengono proposti come un connubio che si rivela ancora molto interessante.
TRE, UNIVERSITA’. In questi giorni si sarebbe dovuto tenere il convegno internazionale VentiVenti organizzato dalla rivista Polisemie che nasce dall’iniziativa di giovani ricercatori e studenti dell’Università di Roma Sapienza, dell’Università degli Studi di Siena, dell’Alma Mater Studiorum di Bologna e dell’Università di Warwick, per approfondire lo studio della poesia contemporanea in Italia e fuori. Il convegno nello specifico si proponeva di favorire un’interpretazione della poesia d’inizio secolo. Qui avrei dovuto partecipare intendendolo come un momento riepilogativo collaterale alla mia scrittura, in relazione alle attività di Contemporanea Fondo Librario. Inoltre la mia presenza in quel contesto ho reputato che avrebbe costituito una buona possibilità di illustrazione dei laboratori scolastici di poesia che quest’anno hanno fatto giusto in tempo ad avere luogo prima del lockdown.
Il Convegno avrebbe accolto alla Sapienza per tre giornate intere studiosi provenienti da tutto il mondo. Il primo numero di Polisemie sarebbe uscito in seguito invece che ora, come in effetti è uscito e disponibile online qui. Questo fascicolo propone approfondimenti su Robert Viscusi, Valerio Magrelli, Franca Mancinelli, Luigi Di Ruscio, Domenico Brancale, Maxime Cella e Giulia Martini, insieme ad un’intervista ad Antonella Anedda. Tutti gli articoli sono consultabili sul sito della University of Warwick Press.
QUATTRO, DIGITALE. Anche l’editoriale di Polisemie promette bene: si vorrebbe capire “il presente, nelle sue forme che a priori non possono che apparire irriducibilmente caotiche” si punta all’obiettivo “di tracciare i contorni del fenomeno della scrittura poetica in un sistema ordinato –anche se provvisorio e parziale” si vuole “leggere con la stessa attenzione gli autori di quello che si delinea come un canone degli anni Duemila e quelli il cui nome è ancora sconosciuto, allo scopo di farne materia di studio accademico”. Si parla della riaffermazione della dignità letteraria della scrittura in versi e si profila per la ricerca letteraria la capacità “di avere un contatto e un impatto sulla società e sulla realtà attuale”. Quest’ultima cosa mi pare grandemente auspicabile, per come la vedo io, ammesso che si riesca a non far passare la ricerca letteraria in ambito poetico come socialmente efficace quando utilizza lo stesso linguaggio di narrazioni politiche e intelletualistiche che imitano quei linguaggi senza dire granché.
CINQUE, CARTA. Il Segnale è una rivista di ricerca letteraria che amo particolarmente. Nasce nel 1981 a Milano con la fondazione di una cooperativa di poeti, I Dispari. A conclusione di un lungo lavoro teorico (nella rubrica Poesia & Scuola) e sul campo, nel 1983 la rivista promuove, in collaborazione con il Comune di Milano, l’importante Convegno Scuola e Poesia, introdotto da una relazione di Mario Spinella. Qui tutte le tappe compiute dalla rivista fino ad oggi.
L’ultimo numero in ordine di tempo il 115 viene pubblicato prima dell’irruzione del covid-19 e ospita un mio intervento L’equivoco che diventa linguaggio, nella sezione Soggettività e scrittura che viene descritta in questo modo dalla redazione: “questa rubrica può essere equiparata ad una vera e propria dichiarazione di intenti programmatici della rivista. Una procedura sistematica per proporre l’accostamento di pensieri che, nell’atto stesso dello scrivere, ricercano il piacere dello scandaglio in territori di riflessione inesplorati, singolari e comparabili a generi letterari diversi.”
Di particolare interesse in questo numero i due articoli dell’attuale direttore, Gianluca Bocchinfuso “Se il futuro ha radici negli alberi” la lettura del quale mi ha aiutato nell’immaginare una formulazione iniziale per questa seconda parte del mio excursus. E un altro articolo a mio avviso molto importante “Dalla letteratura che resiste alla letteratura che si rinnova” che informa relativamente alla letteratura contemporanea scritta da autori translingue sottolineando tra l’altro la scarsa conoscenza del fenomeno da parte dei lettori italiani. Come fondo librario su l’argomenti bilinguismo, dialetti e lingua madre ho avuto il piacere di ospitare e di interloquire fattivamente nell’ambito dei laboratori scolastici degli anni scorsi, con gli interventi che Paola Del Zoppo ( 1 e 2) e Anna Maria Curci (qui e qui) hanno pensato di condividere entro la nostra progettazione.
SEI, CARTA E/O DIGITALE. Quando si parla di poesia è importante ricordare la voce di Maria Clelia Cardona che nelle pagine di Leggendaria (il cui abbonamento è disponibile sia in formato cartaceo che in formato digitale) attraverso la sua rubrica dedicata alla poesia, si è occupata diffusamente e con acume, negli ultimi due numeri pubblicati, il 139 e il 140, rispettivamente della poesia di Mariangela Gualtieri e di Annelisa Alleva.
L’ultima ghianda, la SETTIMA, riguarda l’EDITORIA di POESIA nella veste dell’editore Arcipelago Itaca che nell’ultimo periodo ha pubblicato tre libri a mio avviso tra i più importanti di quelli arrivati al fondo librario: Anna Maria Curci, Nei giorni per versi, Andrea Raos Le avventure dell’Allegro Leprotto e altre storie inospitali, Patrizia Sardisco, Autism Spectrum.
Mi fermo qui con le segnalazioni perché la poesia non è un excursus anche se a volte le liste servono a cercare di non dimenticare. Questo articolo come il precedente nasce dal desiderio di dare a Contemporanea Fondo Librario uno spunto iniziale volto a una visione quanto più aperta possibile entro un discorso sull’attualità della poesia che accomuna un discreto numero di persone. Spero che i link riportati nonostante la soggettività dei miei gusti e l’inevitabile parzialità della mia visione, possano essere di una qualche utilità a chi desideri soprattutto farsi un’idea propria ma informata, sul lavoro approfondito e stratificato di molte e molti quando si scrive e si parla di poesia italiana contemporanea.