Una rubrica per la Società Italiana delle Letterate

Questa rubrica è stata pensata per accompagnare lettrici e lettori del sito della Società Italiana delle letterate per sette mesi, sette come le componenti di questo direttivo uscente che si concluderà con il mese di dicembre 2023. Ogni quindici del mese la parola andrà a una di noi  e saranno in questo caso parole animate dal desiderio di lasciare un segno del lavoro intenso che ha contraddistinto gli anni un po’ anomali ma molto interessanti  della pandemia. Il primo messaggio in bottiglia è da parte mia, buona lettura


Il copyright dell’immagine di copertina è di Anna Toscano

Dalle socie del direttivo messaggi in bottiglia è una rubrica a cura di Viviana Scarinci



Sono al mio secondo direttivo quindi il mio compito in SIL per statuto finisce con dicembre 2023. La mia presenza nel primo direttivo è stata motivata non da una elezione, come è avvenuto per il secondo, ma per cooptazione essendosi creata l’esigenza di integrare la carica di una socia dimissionaria. Tuttavia il mio rapporto con SIL è un rapporto antico, difficile e bello come si può dire solo dei grandi amori. E si lega direi in modo intricato e strettissimo alla mia ricerca su Elena Ferrante iniziata ai tempi in cui questa scrittrice non era stata ancora tradotta e in Italia già la critica femminista sillina se ne occupava. Il mio primo  intervento pubblico  su Elena Ferrante, in termini di opportunità ma anche di condivisione di saperi lo devo a Bia Sarasini all’epoca direttrice di Letterate Magazine che del mio lungo articolo monografico ne fece un numero speciale della rivista digitale ora disponibile sul sito della SIL era dicembre del 2012.

Sono anche altri i debiti di riconoscenza che ho contratto con il lavoro delle socie della prima ora e delle fondatrici e anche con le socie più recenti informatissime dei contenuti complessi e poliedrici che si celano sotto la definizione di femminismi. Tuttavia credo che quella prima fiducia accordata da Bia Sarasini è stato il motivo per cui in questi due difficili direttivi ho deciso di perseverare prestando come alcune altre  mie colleghe molto tempo e molto lavoro invisibile, nel mio caso attraverso la cura del sito della SIL e della gestione dei contenuti ad esso destinati. Ciò al fine di elaborare un sempre maggiore numero di possibilità di emersione per quella scrittura delle donne così facile da etichettare e in fondo poco conosciuta nei suoi aspetti peculiari e fondanti.

È per questo motivo e anche per cercare di immaginare una ulteriore modalità di comunicazione dei contenuti, degli stili e delle storie di certe scrittrici che con Anna Toscano abbiamo immaginato e poi realizzato Nina, il podcast della SIL predisponendone l’uscita su tutte le più importanti piattaforme di condivisione. Quelle che abbiamo proposto e continueremo a proporre sono quasi sempre autrici  la cui fama purtroppo non è proporzionata all’importanza del ruolo che meriterebbero nell’ambito di uno studio critico davvero corredato di tutti gli strumenti necessari alla comprensione del loro fenomeno letterario.

Ho aperto simbolicamente  la mia esperienza nel direttivo della SIL con la presentazione de Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo  (Iacobelli) nell’ambito del convegno nazionale tenuto nel 2020 presso la casa internazionale delle donne di Roma.  Altrettanto  simbolicamente mi appresto a chiudere questa esperienza con la presentazione del libro nell’ambito di un progetto ideato e organizzato da Elvira Federici, presidente SIL, e Biblioteche di Roma presso la Biblioteca Flaminia a cura della direttrice Fiammetta Crivelli e con la moderazione di Lilia Bellucci il 15 giugno alle 17,30. Parleremo di Elena Ferrante ma anche della Società Italiana delle Letterate e del ruolo di ricerca, studio e promozione  che questa istituzione ha saputo svolgere fin dalla sua fondazione, vi aspetto.

Questo testo è stato pubblicato sul sito della Società Italian delle Letterate il 15 maggio 2023

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La mela dei druidi. Libri e racconti del giardino

Ho caro il mio #giardino, scrive #PiaPera in quella che è la #Bibbia di tutte le amanti del #giardinoletterario arrivate al giardino non presto, come lei. Non perché sia il più bello ma perché come la volpe del #piccoloprincipe è stato apprivoise’, addomesticato. L’amo quindi, scrive Pia, non per le sue qualità intrinseche, ma perché ci apparteniamo. Oggi vi mostro un esemplare del giardino ornamentale. Nostro da un anno, piantato in terra due mesi fa. Malus duble rouge appartiene ad un genere botanico di 35 specie, una delle quali è il Malus domestica, i meli ‘da frutto’. Questo è quindi un melo comune rimpicciolito cui è stato esaltato l’aspetto ornamentale anche se le mele piccole come biglie rosso sangue sono commestibili. I Malus da fiore vengono utilizzati come esemplari singoli oppure in gruppi a scopo decorativo e si tratta di una pianta semipregiata è abbastanza costosa. Si allevano a cespuglio o ad alberello e vengono piantati in prati, parchi e viali. Noi ne abbiamo uno solitario, questo. Siccome non mi va più di legare la simbologia della mela al pomo della discordia e alla faccenda di #Eva, quando lo guardo, preferisco ricordarmi che il melo nella cultura celtica è simbolo di fertilità e di immortalità e il suo legno veniva usato per forgiare le bacchette magiche dei Druidi. Addirittura il nome della mitica #Avalon, isola britannica legata alla leggenda di #ReArtù, sembra derivi dal fatto che fosse ricca di alberi di melo, da qui il nome che significa Isola delle #Mele – Insula Pomorum.

da https://www.facebook.com/diaria.o/

Nina ascolta Goliarda

Questa puntata del podcast NINA a cura Anna Toscano è dedicata a #GoliardaSapienza della quale, proprio oggi 10 maggio, ricorre il giorno della nascita. Abbiamo pensato di non mettere parole o discorsi per dire di lei, ma di lasciare tutto lo spazio alle sue parole. Così ascolterai le prime pagine dei libri di Sapienza dalla voce e dall’interpretazione di #VivianaNicodemo e #CristianaRaggi, attrici professioniste, #CeciliaGualazzini e #AnnaToscano, lettrici professioniste.
Ascoltiamola!

NINA è il podcast della #SocietàItalianaLetterate ideato e organizzato da Anna Toscano e #VivianaScarinci. Ogni mese una puntata nuova che poi potrete scaricare e tenere con voi per ascoltarla e riascoltarla quando volete a partire da #Spotify, #Audible di #Amazon #Googlepodcast e altre piattaforme in cui l’ascolto è completamente libero da abbonamenti vincolanti.

Scrivere con il corpo. Su Florinda Fusco

questo testo è uscito su Leggendaria 157

Il compleanno e altre opere di Florinda Fusco dichiara già alcuni aspetti importanti della propria poetica da due fattori preliminari e fondamentali in un libro: il titolo e l’esergo. Il compleanno, è la stessa Fusco a osservarlo, è un avvenimento bifronte nella realtà di ciascuno. Da una parte si lega all’intimità e dall’altra alla società. Esistono due compleanni, quello interiore che con il ricorrere di una data segna il tempo del nostro stare al mondo e il compleanno esteriore quello dell’occasione di fare una festa insieme agli altri, dei regali pensati per la persona che viene festeggiata, degli oggetti dei quali ci si circonda durante un festeggiamento. L’esergo di questo compleanno bifronte annuncia l’indirizzo di indagine che orienta il libro: Io so bene che alla mia collana/ manca quel grano che voi chiamate padre. Collana, grano, padre sono parole che nella loro materialità, naturalità, carnalità premettono quello che è il motivo portante de Il compleanno ossia il continuo e ritmico rimbalzo dello sguardo dalle cose tangibili a una ricerca nel simbolico che muove da una specificità di tipo biologico. Nel padre mancante di ascendenza rosselliana dell’esergo è ben riconoscibile la caratteristica dominante di certa poesia del Novecento scritta da donne in cui l’addio più difficile a tutto ciò che rappresenta il padre mancante, sembra soprattutto necessario a una più fedele definizione del proprio corpo che la figlia possa dare a se stessa. È da questo autoritratto fatto tanto di chimicaparti di ossigeno e elio quanto di separazione geneticagenealogica,spaccatura di atomi che Fusco richiama gli oggetti, gli incontri e le scene che accadono nell’occasione di un festeggiamento bifronte: Vedo/gli invitati/come/da lenti/opache./I nostri corpi/si appiattiscono in una foto/di famiglia./Con/una grossa forbice ritaglio/il tavolo/e le figure attorno./Copro/la foto/con una macchia di inchiostro/blu/e l’attacco sull’album/di famiglia./ – Ci scrivo/sotto: intervallo dell’anima. Ho parlato esplicitamente di ritratto biologico perché la poeta indica attraverso un autoritratto in parole che è premessa di tutto il libro, il posizionamento da cui proferisce non solo le poesie de Il compleanno ma anche quelle delle altre tre raccolte che sono incluse in questa pubblicazione: Linee precedentemente edita da Zona nel 2001,  Il libro delle madonne scure  pubblicato da Mazzoli nel 2003 e La Signora con l’ermellino edita da Oèdipus nel 2009. Alla luce di questa e di altre pubblicazioni di Argo Libri va sottolineato l’importante ruolo di ricerca e riproposta che questa casa editrice no-profit compie nell’ambito della sperimentazione che troverebbe difficilmente modo di essere pubblicata altrimenti. La caratteristica che spicca al solo sfogliare le successive tre raccolte infatti, diversamente dalle poesie de Il Compleanno che si estendono sulla pagina in modo tradizionale, è la disposizione in orizzontale del campo  che si offre alla scrittura su cui i testi si estendono con un senso  della spazialità e una distanza tra i versi che tende a riempire la quasi totalità della superficie della pagina.  Ne viene una sensazione di luogo ricolmo in cui la carnalità di molti sostantivi riconducibili al corpo, precisa il proprio luogo  nello spazio della pagina scritta, come a volere decisamente indicare la propria materialità in un luogo inconsueto, rispondendo con ciò esclusivamente alla propria specificità tanto chimica quanto simbolica. Il Compleanno e altre opere può essere un occasione  di poesia importante da leggere anche per via di un’autrice profondamente informata della scrittura delle donne nei termini di quel posizionamento bifronte di cui parla Sigrid Weigel ne La voce di Medusa: «se le donne entrano nella lingua/scrittura» trovando la postura che consente loro di uscire dal silenzio «se tentano di (de)scrivere l’esclusione dalle modalità di linguaggio e dalle tradizioni dominanti, allora devono assumere il luogo da cui si parla, dove sono sempre state descritte.» A Ginevra Lagasio Pesenti che all’interno della sua tesi di laurea interroga Fusco a riguardo la poeta infatti risponde: “La donna scrive col corpo. La donna fa nascere esseri umani col suo corpo. E anche quando scrive genera col suo corpo oltre che con la mente. Credo che sia una questione biologica. Generazione e corporeità”. L’altra opera di Florinda Fusco cui si può dare una lettura orientata a una ricerca identitaria di questo tipo è Thérèse edita da Polìmata nel 2011. In questo libro la poesia definisce la propria unicità biologica e umana esclusivamente per frammenti disomogenei. Fusco utilizza generi differenti come mezzi per una rappresentazione decolonizzata e straniante di una ricerca identitaria unica e molto ben focalizzata. L’esistenza di una vera Thérèse di pagina in pagina si fa liberatoria e indica che sempre  possibile rappresentare la verità di una creatura, anche in un luogo e in un modo che non prevede la sua esistenza. Anche nel caso in cui l’unico campo ammesso per la rappresentazione letteraria, sociale e relazionale di quella creatura  fosse quello dell’universo falogocentrico. Della protagonista abbiamo solo frammenti fatti di canti, tracce di spartiti, schegge di diari, oggetti in disuso, righe di lettere cancellate, inni, fotografie di accumuli caotici di oggetti legati all’infanzia,  alla religione, blister di medicinali immortalati a metà di una cura o indizio di cure interrotte. Foto, disegni, frammenti che ritraggono Thérèse e le sue cose con il sembiante  di una trascendenza così sottile che fa palpabile l’unicità del corpo della protagonista. Molto più di quanto potrebbe essere rappresentata  in una fotografia scattata da qualcun altro, una donna che vuole essere solo se stessa.

Florinda Fusco, Il compleanno e altre opere, Argo Libri, 2022

Florinda Fusco, Thérèse, Polìmata , 2011

Ascolta anche:

Nina di aprile e su Sybille Bedford!

Ancora una bellissima puntata di Nina. Si parla di Sybille Bedford a cura di Anna Toscano con Antonella Cilento e Valeria Palumbo.

NINA è il podcast della Società Italiana delle Letterate ideato e organizzato da Anna Toscano e Viviana Scarinci. Ogni mese una puntata nuova che poi potrete scaricare e tenere con voi per ascoltarla e riascoltarla quando volete a partire da Spotify, Audible di Amazon Google podcast e altre piattaforme in cui l’ascolto è completamente libero da abbonamenti vincolanti.

NINA su Alice Ceresa letteratura femminismo e contemporaneità

In questa puntata a cura di Viviana Scarinci, Laura Fortini e Alessandra Pigliaru, curatrici di Abbecedario della differenza Omaggio ad Alice Ceresa, Nottetempo 2020, raccontano attraverso Nina la figura di Alice Ceresa inserendo questa straordinaria scrittrice nella contemporaneità delle problematiche e delle politiche femministe dei giorni nostri.

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Su Leggendaria 157 scrivo dell’opera di Florinda Fusco

Sono davvero lieta che il mio articolo sull’opera di Florinda Fusco sia stato pubblicato su Leggendaria di gennaio. Il testo riprende in parte il podcast che diaria/o ha dedicato al dialogo con questa importante poeta e studiosa. Grazie sempre a Anna Maria Crispino e alla sua generosa capacità di tenere insieme cose tanto preziose e importanti da dirsi e da condividere.

Per chi se lo fosse perso qui Diaria podcast in dialogo con Florinda Fusco. Mentre qui potrete ascoltare la puntata di Nina podcast che Anna Toscano e io abbiamo dedicato a Leggendaria, alla sua lunga storia da sempre attentissima al mondo della scuola, alle politiche delle donne, alle scritture e alle filosofie femministe che costituiscono alcuni tra i punti di vista più significativi per tentare una lettura quanto più lucida possibile del nostro presente.

Tra l’altro sulla ricchissima Leggendaria di questo mese: si avvicina la sesta edizione di Feminism, la Fiera dell’editoria delle donne, che si terrà alla Casa Internazionale delle Donne di Roma tra il 3 e il 6 di marzo. Leggendaria è attiva promotrice dell’iniziativa sin dal suo esordio, ma quest’anno il nostro gruppo di “Care prof”, insieme alla Società Italiana delle Letterate e ad altri gruppi e associazioni che si occupano di scuola e formazione, ha organizzato una intera giornata (il 6 marzo) per confrontarsi sui molti nodi della questione: ne parlano Silvia Neonato, Annalisa Comes e Simona Bonsignori nello Speciale dedicato all’appuntamento.

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La parola a Mariangela Guatteri

In questa puntata #Mariangelaguatteri #poeta #editrice #traduttrice

La scommessa di questa stagione di Diaria podcast è stata quella di realizzare un prodotto digitale ma da costruire in modo per così dire artigianale, che potesse comparire su tutti i principali canali di diffusione senza nessuna semplificazione o adeguamento dei contenuti proposti. Un prodotto libero da qualsiasi genere di condizionamento. Unica condizione la densità e l’autenticità dei contenuti proposti, cosa per la quale sono grata alle amiche e agli amici che hanno accettato senza esitazione il mio invito, dimostrando una fiducia e una voglia di mettersi in gioco davvero rara. È stato quindi una sorpresa il numero di ascolti che puntata dopo puntata Diaria podcast ha collezionato, confermandomi ancora una volta nell’idea che sempre bisogna realizzare quello che si ha a cuore, e se possibile solo quello. Infine prima di entrare nel vivo di questa puntata conclusiva vi invito a continuare a ascoltare Nina, l’altro podcast che produco per la Società delle Letterate insieme alla bravissima Anna Toscano. Ascoltatela Nina perché ci sono delle puntate strepitose che vi raccontano cose su scrittrici e artiste che difficilmente sentireste altrove.

Mariangela Guatteri parla con con Diaria/o

Puntata numero 6 Diaria/o podcast stagione 2. Ultima puntata

In questo ultimo episodio della seconda stagione di Diaria podcast esploreremo attraverso le parole di Mariangela Guatteri la sperimentazione e la ricerca in poesia, nell’arte, nella traduzione e nell’editoria anche attraverso gli strumenti del digitale e l’utilizzo delle nuove tecnologie.


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Fantascienza e distopia nella scrittura delle donne

In questa puntata di NINA, a cura di Viviana Scarinci, con le scrittrici Giuliana Misserville e Maristella Lippolis parleremo di fantascienza e distopia nella scrittura delle donne. NINA è il podcast  della Società Italiana delle Letterate ideato e organizzato da Anna Toscano e Viviana Scarinci. Ogni mese una puntata nuova che poi potrete scaricare e tenere con voi per ascoltarla e riascoltarla quando volete a partire da SpotifyAudible di Amazon Google podcast e altre piattaforme in cui l’ascolto è completamente libero da abbonamenti vincolanti.

La parola a Wanda Marasco

In questa puntata #WandaMarasco #scrittrice #poeta #regista #drammaturga

Letteratura e autenticità. Il dialetto che non dimentica la materialità delle cose. Poesia letteratura e teatro in una scrittura sola, Wanda Marasco, regala alla Diaria uno straordinario racconto, insegnamento e augurio per tutte quelle e quelli che scrivono intendendo, senza compromessi, l’opera letteraria come un oggetto d’arte. Grazie infinite a Wanda Marasco per questa importante lezione d’inizio 2023.

Wanda Marasco parla con con Diaria/o

Puntata numero 5 Diaria/o podcast stagione 2. Ogni primo del mese

Wanda Marasco è una delle voci più preziose e significative della letteratura italiana contemporanea. Laureata in Filosofia e diplomata in regia presso l’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma, ha lavorato in teatro come regista e autrice. Sin da giovanissima ha scritto raccolte di poesie. Il suo primo romanzo è del 2003 L’arciere d’infanzia, Premio Bagutta per la sezione Opera Prima, a cui sono seguiti, Il genio dell’abbandono (2015) e La compagnia delle anime finte (2017, finalista al Premio Strega). Nel 2020 ha scritto uno dei racconti della raccolta L’allegra brigata (Neri Pozza).


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Nina racconta Leggendaria

Ancora una bellissima puntata di Nina, stavolta sulla mitica rivista Leggendaria! Anna Toscano intervista Anna Maria Crispino dalla storia della fondazione ai giorni nostri. Mentre io ho chiesto a Silvia Neonato (Letterate Magazine) dell’importanza in Leggendaria del tema della scuola e a Elvira Federici (presidente SIL) in che misura Leggendaria si è resa protagonista in termini politici e filosofici nell’ambito dei femminismi italiani.    

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Il complenno di Florinada Fusco

In questa puntata #FlorindaFusco #poeta #studiosa e #FabioOrecchini # editore di #Argolibri

Florinda Fusco e Fabio Orecchini parlano con Diaria/o

Puntata numero 4 Diaria/o podcast stagione 2. Ogni primo del mese

In questa puntata il focus torna esclusivamente sulla poesia con l’ultimo libro di Florinda Fusco edito da Argo Libri Il compleanno e altre opere. Un intervento imperdibile quello della poeta per la Diaria. Parte da Thérèse, edito da Polimata nel 2011, e ripercorre alcuni temi salienti della poetica di Fusco, illustrando attraverso la stessa voce della poeta, un legame di studiosa con la scrittura e la storia delle mistiche medievali. Fabio Orecchini conclude la puntata raccontando di una realtà editoriale come Argo Libri e di un modo avvincente e coraggioso di fare editoria.


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Nina podcast su Brianna Carafa a cura di Anna Toscano

La sesta puntata di NINA a cura di Anna Toscano è dedicata alla scrittrice Brianna Carafa. Hanno contribuito Ilaria Gaspari, sulla figura della scrittrice e sul romanzo La vita involontaria, Flavia Capone sulla raccolta di racconti Gli angeli personali, Anna Toscano sulle poesie, Federico Cenci sul lavoro di riscoperta e ripubblicazione dell’opera di Brianna Carafa.



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La parola a Maria Teresa Carbone

La protagonista di questa puntata è #MariaTeresaCarbone, #giornalista, #traduttrice, creatrice di #contenuticulturalimultimediali, #poeta.

Maria Teresa Carbone parla con Diaria/o

Puntata numero 3 Diaria/o podcast stagione 2. Ogni primo del mese

Questa terza puntata della seconda stagione della diaria ha un carattere diverso dalle due precedenti. Non si tratta di un’intervista. La protagonista è Maria Teresa Carbone, giornalista, traduttrice, creatrice di contenuti culturali multimediali, poeta. Ho chiesto a Maria Teresa un racconto che a partire dal suo essere poeta, potesse essere dipanato nell’illustrazione delle molte pratiche culturali che negli anni l’hanno vista coinvolta. Calendiario l’ultimo libro di poesia pubblicato da Aragno, le vicende legate alla rivista Alfabeta 2, la traduzione con uno speciale focus su Le dotte puttane di Virginie Despentes recentemente ripubblicato da Fandango fino al podcast Alfabeto italiano  che ha prodotto per il Ministero degli Affari Esteri con Storie Libere.fm senza dimenticare  la curatela del libro Che ci faccio qui? Scrittrici e scrittori nell’era della postfotografia Buon ascolto.


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Elena Ferrante e il romanzo storico

A gennaio 2023 arriva su #Netflix #Lavitabugiardadegliadulti la #serieTv tratta dal romanzo di #ElenaFerrante che più di tutti entra nel contemporaneo della #storia #sociale #italiana esprimendo una combattiva medianità tra migliori e peggiori, favoriti e sfavoriti.

Mediazione multifocale nell’opera di Elena Ferrante 

Nell’approccio all’opera di Elena Ferrante bisogna tenere conto di una premessa che riguarda questa autrice e il fenomeno della diffusione legata ai contenuti storici, politici e simbolici dei suoi romanzi: il pregiudizio che vuole la cultura di massa come principale avversario del mantenimento della tradizione letteraria e filosofica europea presso i contemporanei, costituisce uno degli oggetti di maggiore rilievo entro cui la poetica di Ferrante svolge un vero e proprio ruolo di mediazione multifocale.

La massificazione dell’utilizzo dei media digitali, la pluralità delle loro interazioni non del tutto leggibili con i mass media tradizionali, l’invadenza delle pubblicità e perciò dell’economia di mercato nell’immaginario collettivo, lettori e spettatori chiamati nella stessa misura a farsi fruitori in quanto pubblico: sono tutti fattori che hanno portato al progressivo e diffuso disinteresse del cittadino globale per la funzione del romanzo inteso come opera di un certo valore umanistico. Ossia, secondo una definizione classica, un’opera che pur restando nella sua funzione tradizionale di intrattenimento, sappia anche rivolgersi alle lettrici e ai lettori contemporanei come strumento che abbia per oggetto la conoscenza delle donne e degli uomini, del loro pensiero, delle loro attività materiali e spirituali e del loro comportamento attraverso i tempi.

La mediazione che l’autorialità di Elena Ferrante opera nel metodo e nel merito riguarda questo dato di fatto che di primo acchito sembra illustrare un irrimediabile scontro di mondi. Quello che l’autrice articola a partire dalla saga de L’amica geniale, e poi con il personaggio di Giovanna de La vita bugiarda degli adulti che ancora di più esprime questa combattiva medianità, è un conflitto che ha luogo entro una pluralità di livelli a dir poco perturbante. Con L’amica geniale infatti Ferrante induce coloro che leggono a assumere una prospettiva molto più complessa di quello che sembra. In questo modo lettrici e lettori affrontano un conflitto che ha caratteristiche note, seppure abbia luogo nei meandri di una storia privata. Tuttavia questa storia ha anche l’aria di essere la confessione segreta di un personaggio pubblico femminile inscritta in una porzione molto significativa della storia contemporanea italiana. Ne La vita bugiarda degli adulti, disegnando il personaggio di Giovanna, colto nell’età in cui inizia il processo di individuazione, l’autrice ancora di più sintetizza l’elemento dello scontro-incontro degli antipodi che, nel caso di quest’ultimo romanzo, deflagra nell’ottica di una sola persona, piuttosto che in un rimando speculare tra due amiche. È una prospettiva conflittuale ancora più eloquente quella di Giovanna al centro di un dissidio familiare che, animando la sua infanzia e adolescenza, mette in un contatto ancora più evidente le forme del sociale, il dato storico contemporaneo e la coscienza collettiva con la conflittualità e l’unicità sempiterna che albergano nell’umano.

La vita bugiarda degli adulti è una nuova serie originale di Netflix tratta dal romanzo di Elena Ferrante. Arriva il 4 gennaio 2023. Nell’attesa leggi l’articolo e ascolta il podcast.

In quest’ottica, sdoppiata e riunificata, lo scontro tra l’individuo “migliore” – in quanto di formazione umanista e classica nel suo affrontare le sfide del presente – e l’individuo che non si accetta “peggiore” – perché si percepisce contemporaneo nel rigettare la conoscenza di una stratificazione omologata della propria matrice culturale – diventano un dato. Un dato importante che, espresso dal matrimonio e dalla separazione nelle due famiglie dei Greco e degli Airota, diventa ancora più significativo in quanto capace di andare oltre l’economia narrativa di quella porzione specifica di racconto. Così come i due fratelli Trada ne La vita bugiarda degli adulti si impongono a una classificazione in termine di migliore e peggiore che però viene continuamente sbugiardata. Andrea, il padre di Giovanna, che ha infatti studiato emancipandosi dalla sua origine umile, assurge allo stereotipo di “migliore”: forse colto ma sicuramente in rapporti irrisolti con la propria provenienza sociale tanto che la scelta della moglie e dell’amante esprimeranno anche una “scalata” che grazie all’amore acritico delle due signore nei suoi confronti, dal basso porteranno il suo appartamento cittadino almeno topograficamente sempre più in alto. Mentre la zia Vittoria, sorella di lui, è l’individuo “peggiore”, cancellato perché impresentabile, ma non perché vittima di questa ingiustizia risulta persona meno bugiarda e manipolatrice del fratello.

L’altro elemento conflittuale di estrema rilevanza che emerge da L’amica geniale riguarda quella che il femminile matura in termini di consapevolezza nei confronti di un maschile che ha posto se stesso come elemento fondatore di tutto quello che concerne l’humanitas. Tuttavia un femminile che ha iniziato l’individuazione culturale della propria matrice precipua dal disconoscimento dell’esaustività dell’elemento fondativo patriarcale, ne L’amica geniale sfocerà molto più realisticamente nel rivolgere la propria innata ricerca conflittuale e ambivalente, verso la matrice fisica e biologica di tutti: la madre. Mentre il materno ne La vita bugiarda degli adulti in un certo qual modo sembra celebrare la sua sconfitta, soggiogato dalla figura prevaricatrice, pur senza averne l’aria, di questo padre bifronte che si pone con l’autorevolezza di un arbitro ma che poi è anche sommessamente maldicente e banalmente opportunista. La fanciulla Giovanna stavolta, si accorge di tutto ciò da sola, anche se mefistofelicamente pungolata dalla zia e non grazie a una madre che potrebbe essere all’incirca coetanea di Lila e Lenuccia.

L’applicazione del metodo della composizione e scomposizione di binomi (Lila/Lenuccia, migliore/peggiore, bambina/bambola, maschile/femminile, marginalità/ centralità, sotto/sopra, nord/sud, Airota/Greco, famiglia/società, comunisti/fascisti, rione/nazione, dialetto/ lingua nazionale, Napoli/Italia) che esprimono il loro agonismo e antagonismo in un tempo e un luogo molto ben precisati, l’Italia degli anni compresi tra il 1944 e il 2011, vale anche per La vita bugiarda degli adulti la cui trama è ambientata nella Napoli degli anni Novanta. Un metodo che si fa strumento di una mediazione di cui il binomio visibilità/invisibilità che è un attributo dell’autrice e non del romanzo, diventa un’ulteriore e importantissima funzione narrativa.

A questa dolorosa ricerca sul materno, iniziata narrativamente con una madre morta annegata e conclusa quasi trent’anni dopo con una sola superstite che si riappropria di due bambole provenienti dalla sua infanzia, si aggiunge, con La vita bugiarda degli adulti, una ricerca che accenna alla demolizione diretta del mito paterno.

Ricevo. Insorte di Anna Maria Curci

Qualche tempo fa scrivevo su tre poesie inedite che allora avevo ricevuto da Anna Maria Curci una riflessione sulla parola distopia e sul sentimento della storia. Cos’è il sentimento della storia? In quale misura la sua essenziale soggettività agisce sul presente? Cosa dimostra nei vissuti quotidiani anche di chi non si accorge delle conseguenze della capziosa presenza di quel sentimento, nelle proprie azioni, nei propri pensieri? E nel migliore dei casi, una volta liberato dalla molta enfasi che lo caratterizza, il sentimento della storia come può agire su una lettura politica del presente? Credo che l’impegno civile nell’approccio di Curci alla poesia, alla traduzione e alla critica letteraria, in questo suo ultimo libro, sia arrivato a una necessaria precisazione soggettiva e sensibile del binomio storia individuale/storia collettiva su cui Curci lavora da sempre in ognuna delle sue attività culturali. Scrivevo su quelle sue tre poesie allora inedite: “Ma quale può essere un metodo attraverso il quale l’immaginazione di una narratrice, o in questo caso di una poeta e traduttrice formula una realtà fittizia del passato, secondo la logica di una previsione in merito a figure mitologiche che sappiamo avere già avuto il proprio scenario in un altrove tutt’altro che presente? Una realtà postuma di cui in senso lato siamo comunque le eredi culturali ma di cui la poeta ci fa pervenire notizia attraverso un’indagine che rende il perpetrarsi dell’originario in uno spazio tempo molto ridotto ma presente all’oggi”. Uno spazio tempo ridotto ma focalizzato e vivibile nel presente agisce su un’eredità multiforme e riformulandola fa accedere lettrici e lettori in un tempo poetico e narrativo che, se la magia del linguaggio riesce, è sempre un flusso libero e bifronte, in cui passato e futuro vivono una contemporaneità tutta loro diventando ugualmente aperti al possibile. Oggi quei tre inediti Psyche, Creonte e Elce che leggiamo in apertura del libro Insorte (Il Convivio editore, settembre 2022) danno l’abbrivio a una precisazione necessaria a chi legge Curci come si leggono autrici capaci di avere questa somma libertà, scrivendo, e mostrandola possibile.

NINA su Laudomia Bonanni

La quinta puntata di NINA podcast a cura di Viviana Scarinci è dedicata a Laudomia Bonanni con Maristella Lippolis, Maria Vittoria Vittori e Martina Pala.

Laudomia Bonanni (L’Aquila, 8 dicembre 1907 – Roma, 21 febbraio 2002) è stata una scrittrice italiana di origine aquilana. Insegnante elementare e poi consulente del tribunale minorile. In questa puntata di Nina  ideata a seguito della giornata di studio voluta dalla Società Italiana delle Letterate l’11 settembre 2021 presso l’università degli studi dell’Aquila, tre relatrici di eccezione ci regalano alcune riflessioni interessantissime sull’opera di questa importante scrittrice ancora tutta da studiare.

NINA è il podcast  della Società Italiana delle Letterate ideato e organizzato da Anna Toscano e Viviana Scarinci. Ogni mese una puntata nuova che poi potrete scaricare e tenere con voi per ascoltarla e riascoltarla quando volete a partire da Spotify , Audible di Amazon Google podcast e altre piattaforme in cui l’ascolto è completamente libero da abbonamenti vincolanti.


Appunti su L’adultera di Laudomia Bonanni

di Viviana Scarinci

Emerson che visse tra il 1803 e il 1882 espresse con una capacità di sintesi fuori dal comune quello che era un avvertimento contro il materialismo emergente: “Le cose stanno in sella e cavalcano l’umanità”. Questo inciso è la frase che Laudomia Bonanni sceglie da mettere in esergo a L’adultera edito nel 1964. Si tratta di una vicenda focalizzata nell’arco di ventiquattro ore. Le ultime ore della vita di Linda, commessa viaggiatrice, moglie, madre e adultera. Si tratta di un viaggio di lavoro che racchiude come scopo il lavoro medesimo e con l’occasione un convegno amoroso clandestino.

Se non facessimo attenzione all’esergo, se da semplici lettrici e lettori ci volessimo concentrare sulla superficie della vicenda, se volessimo tralasciare il lavoro di ricerca letteraria e tematica che ha portato Bonanni a concepire la prosa di questo libro, L’adultera potrebbe sembrare ciò che è solo in parte. Cioè la storia di una donna per niente empatica che cerca e vive il proprio desiderio ponendolo al centro della sua vita. A ben guardare tema già enorme da esprimere così pienamente in un romanzo italiano uscito nel 1964, quando negli Stati Uniti nel 1973, quasi dieci anni dopo, Erica Jong con Paura di volare divenne una scrittrice femminista di fama mondiale mettendo al centro la vicenda dell’insicura Isadora che ricerca la pienezza del proprio desiderio, cozzando contro l’istituzione matrimoniale, e le sue sicurezze concepite secondo i principi patriarcali.   

Ma torniamo in Italia, a Laudomia, a quasi quindici anni prima della pubblicazione de L’adultera. È venerdì 10 febbraio del 1950, il giorno successivo, sabato sera ci sarà l’assegnazione del XIV premio Bagutta. Circolano i nomi di Pavese, Soldati, Civinini, Piovene, Brancati, scartata la candidatura di Papini, e c’è Laudomia Bonanni una maestra elementare dell’Aquila del tutto nuova all’arengo letterario, come scriverà il cronista del Corriere della Sera di quel giorno. Una scrittrice che peraltro era favoritissima. E infatti quell’anno Bonanni vinse il premio Bagutta opera prima mai assegnato a una donna fino a quel momento con Il fosso.

Qui voglio aprire una parentesi sul posizionamento puramente sociale che il linguaggio della stampa e dei media rendono osservabile. Nel Medioevo, era chiamato arengo il luogo dove le cittadinanze insorte contro i feudatari signori delle campagne, si riunivano per deliberare. Perciò l’arengo è da intendersi come una specie di assemblea cittadina antesignana del moderno parlamento. Un luogo in cui la città, si sarebbe fatta Stato unitario e centrale creando così l’idea culturale dell’unicità del proprio potere e perciò della periferia e della marginalità di tutto l’altro da sé. L’arengo letterario nominato in riferimento alla posizione sociale e culturale di Laudomia Bonanni al momento della sua comparsa nel mondo maschile delle lettere nazionali, qui ci sembra essere una scelta lessicale particolarmente rivelatrice.

La notizia più rilevante su Laudomia Bonanni nella ricerca che ho compiuto all’interno dell’archivio digitale del Corriere della Sera si riferisce a qualcosa di noto per chi si occupa di Bonanni. È il 1960 Laudomia vince il premio Viareggio per la narrativa, che consiste nella cifra di un milione di lire che le viene assegnato per il romanzo L’imputata.

Inserendo nel motore di ricerca dell’archivio storico che contiene tutte le edizioni pubblicate fin dal primo numero del Corriere al 2017 il nome di Laudomia Bonanni ricorre 56 volte. La prima volta che Bonanni appare sul quotidiano nazionale tuttavia risale al 22 dicembre del 1939 in un articolo dal titolo significativo L’arte di regalare libri per ragazzi che si proponeva di illustrare una carrellata di romanzi di avventura. Laudomia Bonanni Caione viene citata per Men. Avventura al nuovo fiore romanzo coloniale per ragazzi.

È invece dell’edizione del 6 e 7 dicembre del 1949 il famoso articolo intitolato Aggredisce mostri la ragazza di Aquila in cui Eugenio Montale illustrando il tipo di neorealismo regionale e perciò per Montale esclusivamente verghiano, indica Bonanni tra quegli scrittori (uso il maschile non a caso). L’autrice è un’eccellenza capace di tagliare corto quando la verità si fa troppo vera. Cioè Montale riconosce a Bonanni le caratteristiche della meglio vocazione neorealista e l’originalità di una scrittura di ricerca davvero forte. Salvo prescrivere: “Se riuscirà a diventare più asettica e cederà meno alla tentazione (oggi così femminile) di una scrittura intensamente artistica, pregnante, densa, troppo insistita nei particolari, questa Laudomia farà certo strada”.

Ma già il 6 settembre 1964 nell’articolo che annunciava l’assegnazione del premio Campiello a Giuseppe Berto, sulle pagine del Corriere Carlo Laurenzi informava laconicamente: “Laudomia Bonanni, scrittrice abruzzese di non larga fama ma di probo impegno, è stata premiata per il romanzo L’adultera” che usciva quell’anno.

Sarebbero davvero molti gli elementi, oltre quelli puramente letterari, di tipo sociale, storico, ideologico e culturale da analizzare nella figura di Laudomia Bonanni e nell’estensione tematica della sua opera, partendo anche da particolari importanti come quella citazione da Emerson posta in esergo del romanzo L’adultera i cui temi come la corsa al consumo, l’impronta edonistica che la società stava prendendo, sono intesi come una questione non solo maschile ma anche femminile. Laudomia Bonanni tratta queste conseguenze epocali a partire da una prospettiva di genere. Sono le conseguenze dei fattori determinanti del suo tempo, quelle subite dalle donne come Linda, partite per la stessa corsa di tutti nell’arricchirsi al fine di finanziare finalmente il proprio piacere dopo tutti i bisogni che i conflitti e la povertà avevano reso endemici. Tra l’altro all’interno del matrimonio allora era considerato un reato soltanto l’adulterio da parte della moglie, punito con la reclusione fino a un anno (dall’art. 559 del Codice Penale del 1930). Solo nel 1968 la Corte Costituzionale con la sentenza n.126 ne dichiarò l’illegittimità cioè quattro anni dopo la pubblicazione de L’adultera.

L’adultera racconta, con un anticipo esorbitante e un linguaggio letterario davvero anomalo per il suo tempo, delle conseguenze psicologiche del trauma subito dalle donne italiane durante i due conflitti mondiali, degli stupri e dei numerosissimi e pericolosi aborti clandestini, del boom economico, della liberazione sessuale e del diritto al piacere femminile, di tutte le ambivalenze legate alla maternità, dell’irruzione della vulgata della psicanalisi di stampo freudiano nella società italiana e nel romanzo. Ma anche la dimenticanza del romanzo di Laudomia Bonanni ci dice dell’invisibilità di genealogie letterarie femminili di riferimento e della mancanza di questa cultura in chi era preposto a leggere e spiegare davvero la letteratura per tutto ciò che dovrebbe rappresentare per un Paese che si vuole unito dalla stessa lingua.

L’adultera ci parla anche indirettamente dell’invisibilità, della ricchezza e della pluralità delle origini culturali regionali italiane. E soprattutto dell’intelligenza e del talento femminile nell’emersione attraverso la scrittura di quella poetica del vivere, e del vivente, che finisce sempre per sapere molte più cose di quanto si creda in merito alla sua contemporaneità. Doti come quelle di Laudomia, valide per se stesse, per cui il giudizio dell’arengo cittadino e letterario è da considerare solo una clausola, per quanto tremenda.

Anterem e il premio Lorenzo Montano dalle origini a oggi

Tre membri della redazione di #Anterem e del #PremioLorenzoMontano #RanieriTeti, #LauraCaccia, #Silvia Comoglio raccontano alla Diaria le origini, le nuove pubblicazioni e la maturazione di un orientamento volto a una sempre maggiore attenzione alla #poesia scritta da donne.

La redazione di Anterem parla con Diaria/o

Puntata numero 2 Diaria/o podcast stagione 2. Ogni primo del mese

Questa seconda puntata della Diaria è dedicata alla rivista Anterem e alla storia del premio Lorenzo Montano che affonda le sue radici nel passato ma che oggi, trasformata senza snaturarsi, costituisce una realtà vitalissima e necessaria nel panorama della poesia italiana contemporanea. Tre membri della redazione attuale Ranieri Teti, Laura Caccia, Silvia Comoglio raccontano alla Diaria le origini, le nuove pubblicazioni e la maturazione di un orientamento volto a una sempre maggiore attenzione alla poesia scritta da donne. Insomma ascoltando questo episodio saprete davvero tutto di questa realtà fondata da Flavio Ermini nel 1976 e così brillantemente evolutasi grazie al suo genio e alla redazione da lui diretta.


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Elena Ferrante. Un fenomeno tutto italiano

Correva l’anno #1992 con un articolo sul #Corrieredellasera datato 28 giugno, #EnzoSiciliano salutava l’uscita de #L’amoremolesto di #ElenaFerrante come «un debutto sul difficile terreno della ricerca interiore»

Elena Ferrante ha pubblicato nel 1992 in Italia il suo primo romanzo, L’amore molesto. Per convenzione diremo che è questo è il suo anno di nascita come autrice, perciò utilizzeremo il 1992 e l’Italia come punto di partenza della nostra narrazione su Elena Ferrante e come collocazione spazio temporale, allo stesso modo in cui utilizzeremmo la data e il luogo di nascita di ciascuna/o di noi, per segnare l’inizio di un’esistenza.

Il 1992 per l’Italia è un anno in cui hanno luogo degli eventi destinati a cambiare radicalmente, nel successivo trentennio, il corso degli avvenimenti di natura civile e politica rispetto a come si erano configurati fino ad allora. Un anno fondamentale per la storia della Repubblica italiana. L’anno si apre con la relazione della Commissione parlamentare stragi su Gladio, definita un’organizzazione clandestina illegittimamente strutturata, coinvolta nella cosiddetta “strategia della tensione”. Pochi giorni dopo la Prima sezione della Corte Suprema di Cassazione pronuncia la sentenza definitiva che chiude il maxiprocesso di Palermo con 360 condannati su 474 imputati. Vengono comminati, tra l’altro, 19 ergastoli ai principali killer e boss mafiosi.

Testo tratto da Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante e le italiane del XX secolo, Iacobelli editore

Il 1992 è anche l’anno del primo atto che condurrà, attraverso l’indagine chiamata “Tangentopoli” o inchiesta “Mani pulite”, alla così detta fine della prima Repubblica, con l’arresto a Milano del socialista Mario Chiesa, cui seguirà qualche mese più tardi l’avviso di garanzia al potente segretario del Partito socialista italiano Bettino Craxi. Ma soprattutto il 1992 è l’anno in cui sono assassinati dalla mafia i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Per quanto riguarda la politica, il professor Gianfranco Miglio, allora settantaquattrenne, docente di scienze politiche e già preside della facoltà dell’Università Cattolica di Milano, è l’ideologo della Lega Nord di Umberto Bossi, partito italiano in rapida ascesa. Miglio e Bossi costruiranno una società finanziaria, la Pontida Fin srl per gestire l’affare comune[1].

L’idea nasceva dalla questione relativa al modo in cui il Settentrione e il Meridione d’Italia dovessero essere esposti, dentro il discorso pubblico, a una faziosità esplicitamente politica. Pertanto la proposta di Miglio è quella di dividere l’Italia in tre “macroregioni” federate: la Padania, l’Etruria e un’entità sfocata, definita Mediterranea in cui, nelle parole di Miglio – che riportiamo per dare un’idea di un punto di vista sul meridione di Italia capace, allora, di aprire una discreta breccia di consenso nel discorso pubblico –: «Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità di comando. Che cos’è la Mafia? Potere personale portato fino al delitto. Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. C’è anche un clientelismo buono che determina la crescita economica. Alcune manifestazioni tipiche del sud hanno bisogno di essere istituzionalizzate»[2]. Come non pensare al sistema che, a partire dallo strozzinaggio, né L’amica geniale i fratelli Solara impongono al microcosmo rionale, non tanto come un fenomeno frutto di un costume “originario” quanto prodotto anche dall’isolamento culturale e dalla miseria endemica di alcuni territori considerati periferici. Come non pensare al contesto socialmente e culturalmente deprivato e marginale rappresentato dagli amici di Lila e Lenuccia. La situazione dei giovani del rione è un paradigma in cui vengono rappresentate da Ferrante le energie delle nuove generazioni che inevitabilmente finiscono invischiate in una ripetizione che rispecchia una visione pretestuosa di quelle aree considerate marginali.

Relativamente alla grande editoria, viene pubblicato in quello stesso 1992 Petrolio di Pier Paolo Pasolini, la cui figura verrà, fugacemente ma anche significativamente ritratta in Storia del nuovo cognome nella circostanza narrativa della presenza dello scrittore a Napoli. Occasione cui Lila costringe Nino a partecipare e che sarà poi l’inizio della fine della loro relazione. Attraverso l’invenzione di quell’episodio legato a Pasolini, Ferrante potrà ritrarre materialmente sia l’antagonismo ideologico tra destra e sinistra di quegli anni, sia, più sottilmente, la sua influenza e l’impatto emotivo nel quadro relazionale composto dalle emozioni e dai pensieri contrastanti dei due giovani amanti. Mentre Lila è entusiasta dello scrittore e vuole parlargli, Nino pensa che Pasolini è ricchione e fa più bordello che altro[3] dato che l’incontro alla fine scatenerà una rissa tra fascisti e comunisti.

Infine, ma è ciò che più importa ai fini del nostro discorso, in quello stesso 1992 con un articolo sul Corriere della sera, datato 28 giugno, Enzo Siciliano salutava l’uscita de L’amore molesto come «un debutto sul difficile terreno della ricerca interiore», manifestando sorpresa per l’altezza stilistica raggiunta là dove un’originalità «non guidata» sceglie lo scavo nei destini individuali piuttosto che confrontarsi con la Storia, come in effetti doveva sembrare particolarmente urgente fare in quei mesi. Siciliano chiude il suo articolo elogiativo suggerendo un’immagine che oggi ci appare particolarmente indicativa di come L’amore molesto arrivò in qualche modo anche per fare i conti con tutto quello che si era creduto in merito al ruolo del romanzo in Italia. Siciliano infatti accostò, in termini di esiti, la «poesia della remissività donnesca […] e l’idea che il riscatto arriva con la sofferenza del pensiero».

L’amore molesto è un romanzo con caratteristiche salienti che lo rendono in qualche modo sorprendente per il suo tempo, anche se la sua costruzione narrativa non ha niente di rivoluzionario. È un racconto, un giallo forse ma che anche si inserisce in modo originale nella vasta genealogia dell’opera letteraria napoletana. Inoltre, costituisce una pietra di paragone molto importante per iniziare uno studio sulla genealogia del romanzo a firma femminile che abbia un carattere decisamente più ampio di quello relativo all’esiguo numero di scrittrici italiane il cui valore letterario era stato e tuttora è faticosamente riconosciuto. Si capisce come nel quadro relativo ai macro eventi politici e sociali di quel momento storico, la non stereotipata coloritura meridionalistica e relazionale che lega una madre e una figlia in una storia piena di mistero, abbia potuto aprire un varco imprevisto, che poi è diventato un vero e proprio solco con la pubblicazione dei romanzi successivi prima, poi de L’amica geniale e infine de La vita bugiarda degli adulti.


[1] E. Deaglio Patria 1978-2008, Milano: Il saggiatore 2009, p. 354.

[2] Ibidem. Il brano che Deaglio cita proviene da un’intervista di Stefano Lorenzetto pubblicata su il Giornale del 20 marzo 1999

[3] . E. Ferrante Storia del nuovo cognome, Roma: edizioni e/o 2012, pp. 357-58.

Ida Travi parla con NINA

La quarta puntata di NINA podcast a cura di Anna Toscano è dedicata a Ida Travi, poeta, saggista, scrittrice per la radio e per il teatro, grande studiosa dell’aspetto orale della poesia. Ida Travi ci regala in questo podcast un tempo generoso, inedito, pieno di poesia e parole da ascoltare.

Nella prossima puntata a cura di Viviana Scarinci parleremo di Laudomia Bonanni e della giornata di ricerca su questa importante romanziera italiana organizzata dalla SIL presso l’Università de L’Aquila nel 2021.

NINA è il podcast  della Società Italiana delle Letterate ideato e organizzato da Anna Toscano e Viviana Scarinci. Ogni 10 del mese una puntata nuova che poi potrete scaricare e tenere con voi per ascoltarla e riascoltarla quando volete a partire da Spotify e Audible di Amazon e altre piattaforme in cui l’ascolto è completamente libero da abbonamenti vincolanti.

Supporti, storia e natura

L’immagine sorge sul limitare della parola, venga essa prima o dopo, poco importa. Gli schizzi abbozzati sui libri derivano da una pulsione reattiva, sono uno scavo effettuato alla fine di ogni storia, il pollone che non vuol saperne e ricomincia da capo.

Simone Pellegrini parla con Diaria/o

Puntata I Diaria/o podcast stagione 2. Ogni primo del mese

Inizia con questa puntata una nuova stagione dei podcast della Diaria. Questo dialogo in tre domande con Simone Pellegrini non pretende di essere esaustivo in merito alla sua produzione artistica ma nella mia idea ho immaginato di procedere come gettando luce su alcuni aspetti del suo lavoro artistico attraverso tre parole chiave che mi appartengono. Le parole che ci hanno guidato sono Supporto, Storia, Natura. Simone Pellegrini è del 72. Vive e lavora a Bologna, dove insegna Pittura all’Accademia di Belle Arti e ha sede il suo studio. La sua carriera d’artista ha inizio nel 96, durante gli anni di formazione all’Accademia di Belle Arti di Urbino presso la quale si diploma nel 2000. Dal 2003 con la personale Rovi da far calce si inaugura una lunga stagione di successive mostre, in Italia e all’estero, e fiere internazionali https://www.simonepellegrini.com/


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Terza puntata di Nina sulla poesia di Alessandra Carnaroli

È online la terza puntata di Nina a cura di Anna Toscano. Questo episodio è dedicato alla poesia di Alessandra Carnaroli. Si tratta dell’audio integrale dell’incontro avvenuto durante il convegno SIL “Ecopoetiche/Ecopolitiche. Poesia come cura del mondo“. Da questa puntata il podcast di Nina è disponibile anche su Amazon Music

NINA il podcast della Società Italiana delle Letterate ideato e organizzato da Viviana Scarinci da Anna Toscano. Ogni 10 del mese vi promettiamo una puntata nuova che poi potrete scaricare e tenere con voi per ascoltarla e riascoltarla quando volete a partire da Spotify e Audible di Amazon e altre piattaforme in cui l’ascolto è completamente libero da abbonamenti vincolanti. Tutto su Nina qui 

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Palazzi che parlano di donne e di libri

Agosto, Roma centro storico. Tra librerie che aprono e chiudono e palazzi parlanti si approda a #AnneCarson e #PilarQuintana grazie alla rinascita de #LaTartaruga a cura di #ClaudiaDurastanti. Nonché si accenna a #AnnaBanti e #MariaBellonci, a come il #romanzostorico scritto da donne abbia colto quella faccia meno frequentata del #barocco su cui #ArtemisiaGentileschi aveva puntato il sentimento cocente e l’occhio ardito prima di quel gran maestro che fu suo padre.

Il nuovo corso de La Tartaruga, la casa editrice fondata nel 1975 da #LauraLepetit a cura di Claudia Durastanti bisognava inaugurarlo con il primo e secondo acquisto. Come privarsi de “La bellezza del marito – Un saggio romanzato in 29 tanghi” di Anne Carson.

Che questa tra poesia e saggistica è una lezione ineludibile per chi scrive. Un’indicazione graziosamente donata da Carson, quella di aggirare il genere nell’unico modo che scardina false credenze e posture soltanto elusive: affrontando amorosamente il possibile che c’è nel discorso infinito secondo differenza e identità.

Sul progetto editoriale della nuova Tartaruga Durastanti ha detto “l’idea è pubblicare quattro o cinque titoli l’anno, dando ampio spazio a più forme: un testo di fiction (romanzi o racconti), uno di non fiction, un ibrido o anomalo, un ripescaggio e sempre una raccolta di poesie” Durastanti si è espressa anche sul dibattito in corso nell’universo femminista, sulle autrici che vorrebbe pubblicare e su quello che rappresenta per lei il marchio che l’è stato affidato: “Se c’è qualcosa che vorrei preservare dell’esperienza di Lepetit è la genialità di essere arrivata nelle case di donne come mia madre, dove ho visto i miei primi libri della Tartaruga da bambina”. E ti pare che dopo aver letto così non mi compravo pure “La cagna” di Pilar Quintana



Come tante i libri de La Tartaruga lo so quello che sono significati per imparare non dico a scrivere ma a dire l’altrimenti, nei tempi in cui l’altrimenti detto e scritto significava neanche l’eresia ma lettera morta come quelle che scriveva Emily a quel mondo che non le avrebbe mai risposto in tempo. Allora in un sabato incandescente mi sono ritrovata tra le mani La tartaruga di Anne Carson passando fugacemente alla libreria Nuovo Spazio Sette, inaugurata da meno di tre mesi mi dicono i gentilissimi dello staff

“Aprire uno spazio significa farci entrare dentro la città che gira intorno. Le voci, gli odori, le luci…”. Nel centro storico di Roma, in zona Largo Argentina, all’interno dello storico palazzo rinascimentale Cavallerini Lazzaroni, è stata inaugurata Spazio Sette Libreria (nell’orbita di #Ubik), che prende il posto di un negozio di design – I particolari

Poco distante la rassicurante #Feltrinelli Torre Argentina – che, Feltrinelli, spero non chiudiate mai visto la sorte tristissima di Feltrinelli di Piazza Colonna con cui ci avete orbati noi lettrici e lettori di Roma nord. Sono passata alla Spazio Sette un po’ di fretta (ma tornerò) perché aspettavo il momento clou della mia giornata, un momento lungamente desiderato, cercato infine e avuto: la visita al palazzo parlante: galleria e piano nobile di #PalazzoSpada. In effetti mi aspettavo che il #ConsigliodiStato avesse ambientazione molto barocca ma quello che ho visto è andato ben oltre l’immaginario della cittadina italiana che sono.

Cercavo due cose andando a palazzo Spada: in galleria, Artemisia Gentileschi e suo padre Orazio Gentileschi, nella vividezza del #giallo che usarono solo a Roma. Anche perchè da lungo tempo sono sulle tracce del romanzo storico scritto da donne alla Anna Banti, alla Maria Bellonci, nonché quello scritto da alcune bravissime contemporanee di cui dirò più in là. L’altra cosa che cercavo attraverso la visita al piano nobile era di cogliere visivamente una location del tutto realistica che mi facesse inquadrare nel mio immaginario la Roma che si stava controriformando attraverso l’avvicendamento nelle architetture, nelle committenze e nelle scelte d’acquisto dei grandi collezionisti cattolici dell’epoca. Palazzo Spada faceva al caso mio, uno dei palazzi più belli, e un po’ defilato della Roma rinascimentale che tra Cinquecento e Seicento ha dato campo al mecenatismo di due cardinali, i quali per una volta nell’avvicendarsi non hanno cancellato le scelte di gusto del predecessore lasciando leggibile un passaggio culturale e artistico determinato soprattutto dalle politiche della Chiesa del tempo. Un passaggio della rappresentazione artistica tra il mito greco latino e la religione cristiana sempre sul filo di essere accusato di eresia come l’autentico scouting di talenti inevitabilmente vuole in tutte le epoche. Coltissimi come non ce n’è più, ricchi in modo indicibile e spregiudicati il cardinale #GirolamoCapodiferro e il cardinale #BernardinoSpada hanno creato un lascito che da solo vale infinite letture artistiche, allegoriche, simboliche, storiche e letterarie di quello che il palazzo parlante è, cioè a Roma tra i testimoni più eloquenti di uno snodo fondativo della storia europea. Insomma una giornata memorabile peccato che mi hanno fatto una multa per come avevo abbandonato l’auto in mezzo al deserto cittadino. Hai ragione #ComunediRoma, nonostante tutta la spazzatura disseminata lungo il cammino, troppa fu la prescia che mi spinse verso tanto splendore.

Poveri uomini, anche loro: travagliati di arroganza e di autorità costretti, da millenni a comandare e a cogliere funghi velenosi, queste donne che fingono di dormire al loro fianco e stringono tra le ciglia seriche al sommo della guancia vellutata, recriminazioni, voglie nascoste, segreti progetti. Un senso di indulgenza diffusa, allegra come un volo, la faceva, nel sonno, sorridere. Nel sonno il sorriso è quasi difficile come il pianto e bisogna liberarsene. “Ma io dipingo” scopre Artemisia, risvegliandosi: ed è salvata pg. 53





Smith Girl Missing. Sylvia Plath

La campana di vetro   è l’unico romanzo di Sylvia Plath, uscito poco meno di un mese prima del suicidio per l’editore inglese Faber and Faber. Il romanzo che ebbe accoglienza tiepida e recensioni distratte, veniva pubblicato dopo qualche anno in cui la poesia di Plath aveva attraversato insieme alla sua vita, l’oceano e dall’America, sospinta dai venti impetuosi dell’ambizione di Sylvia, era sbarcata in Inghilterra, luogo d’origine del marito poeta.

Altre prove narrative le leggiamo in Johnny Panic e la Bibbia dei sogni una raccolta di prose, scritte dal Cinquanta al ‘63 che venne  pubblicata a cura dell’onnipresente  marito Ted Hughes soltanto  nel 1979. Questa preziosa miniera di elaborati non poetici ci consente di avvicinare un aspetto biografico e creativo particolarmente significativo della scrittura di una donna  che ha prodotto uno dei cortocircuiti poetici e culturali tra i più significativi del XX secolo.  Nei work in progress della prosa infatti più che nei diari, si può scrutare in controluce quella spaccatura profonda che sta tra la potenza di un io liberato e la società ad esso contemporanea: sto sempre male al mattino quando mi sveglio e sarà sempre così finché il racconto non avrà qualcosa di più interessante delle mie riflessioni personali, scrive Sylvia sul diario, la cui ambizione era anche quella di diventare, attraverso il riconoscimento del valore dei suoi testi poetici e narrativi, un personaggio pubblico di fama, con tutto ciò che questo avrebbe comportato. 

Hughes nella prefazione alla raccolta di racconti a sua cura scrive che la prosa rendeva Sylvia impaziente ben più della poesia: sedeva a comporre una poesia in uno stato di sovreccitazione, simile a un incallito giocatore d’azzardo, ma poi la esaminava con attenzione, correggendo ciò che non la soddisfaceva – rassegnata, ansiosa ma leale, perfino pratica. La composizione dei racconti d’altro canto avveniva sempre in un atmosfera di combattimento serrato. Sulla prosa del romanzo e dei racconti la sua viva ambizione mondana si scontrava con una forza ugualmente intensa ma contraria che aveva a che fare con il potere che Sylvia era a conoscenza di avere quando scriveva in versi. Questa contraddizione sarà una delle cifre della poetica di Plath ma anche l’agone cui volutamente la poeta sacrificherà tutto.

Sylvia Plath era arrivata al Barbizon Hotel come una delle praticanti  ospiti della rivista  Mademoiselle nell’estate del 1953. Aveva ventuno anni era nata in un sobborgo di Boston il 27 ottobre sotto il segno dello scorpione.  Orfana di padre a soli otto anni. Del mese trascorso al Barbizon Hotel troviamo poche tracce sul diario, poco anche relativamente a tutto l’anno 1953, salvo far convergere quell’esperienza drammatica, significativa, prorompente ne La campana di vetro.  Mentre il New York’s Rock’n’Roll Chelsea Hotel è stato documentato all’infinito, la storia del Barbizon Hotel  non è mai stata raccontata prima del notevolissimo libro di Paulina Bren Barbizon Hotel: storia di un hotel per sole donne in cui in due lunghi capitoli viene raccontato di Sylvia Plath forse qualcosa che prima della pubblicazione di questo libro,  non era mai emersa con una simile chiarezza.

Il libro di Bren racconta la storia di questo lussuoso hotel per sole donne che ospiterà nomi femminili illustri del mondo della scrittura, dell’arte, della musica, del cinema dalla sua costruzione nel 1927 a Manhattan fino alla sua successiva conversione in condominio di lusso nel 2007. Va da sé che il racconto della storia di una istituzione così longeva  esclusivamente ideata al femminile e dedicata alle donne americane, segna molto capillarmente anche la storia sociale di molti strati, digressioni, contraddizioni e coloriture impensabili dell’ambizione femminile,  immersa nel rapido cambiamento della Grande Mela nel corso del Novecento.

Plath arriva a New York elettrizzata dalla vincita di un concorso letterario che la fa accedere direttamente a un mese di praticantato presso una delle più prestigiose riviste femminili del tempo. Non meno entusiasta, Sylvia, è della radio e del telefono in camera, della vista che si gode affacciandosi alla finestra. E della possibilità di conoscere, uscire e perché no, fare sesso con uomini che fossero newyorkesi doc. Nello stesso tempo Sylvia è irretita, come sempre, dai suoi monologhi interiori in cui un’intelligenza  feroce si scontra con le aspirazioni di un modello di donna in rapido cambiamento nel fare i conti con il passato e con il presente.

La libertà della donna newyorkese del primo decennio del secolo, il periodo della grande depressione, il proibizionismo, il rovinoso crollo della borsa di Wall Street  del 1929 contribuiscono profondamente per Paulina Bren a creare modelli femminili contraddittori. Il modello di donna nuova di inizio secolo aveva lasciato il posto, quando Sylvia arriva a New York, alla pretesa di un ritorno alla tradizione, incoraggiato dal dilagare della povertà anche cittadina. Tuttavia non per questo la questione reale della donna lavoratrice per ambizione o necessità era passata in cavalleria, anzi. Il serpeggiare di questo modello di donna fieramente lavoratrice insieme a un preteso  ritorno delle donne a un ruolo più tradizionale dentro la famiglia avrebbe consegnato anche Sylvia Plath ai doppi oneri che gli standard degli anni Cinquanta imponevano alla donna americana. E poi quanto era ingiusto che gli uomini potessero perseguire i loro desideri sessuali e le donne dovessero sempre mediare in una continua recita sociale? Scrive Sylvia tra le righe del diario e del suo romanzo dedicato all’esperienza di quel mese a New York.

Sopraffatta dal carico di lavoro a Mademoiselle e delusa dalla realtà che in  nessun modo era paragonabile alle sue aspettative spesso irrealistiche, Plath ne La campana di vetro ha documentato “il sogno perduto di New York”, dall’ottica di un io poetico e erotico, che mai come in queste pagine, si dibatte mettendo a nudo l’ambizione e il dolore  che hanno segnato il genio di Plath. La notte prima di lasciare New York e il Barbizon, Sylvia, come la protagonista de La campana di vetro lancerà dal terrazzo dell’hotel gli abiti che aveva scelto con grande  attenzione prima di partire per il suo stage presso Mademoiselle. Gli abiti che tanto erano costati alla modestia dei fondi di Aurelia, madre vedova e lavoratrice. Poco dopo il suo  ritorno a casa Sylvia inscena il primo dei suoi spettacolari tentativi di suicidio, nascondendosi in un intercapedine della casa di famiglia dopo aver ingerito un letale numero di pillole e avendo lasciato scritto un biglietto in cui invece annunciava di essere partita per un breve viaggio. Sarà fortunosamente trovata viva ma malconcia dal fratello due giorni dopo, salvata dal fatto di aver vomitato una parte delle pillole. Così inizia a conclamarsi la malattia di Sylvia, i ricoveri, gli elettroshock senza anestesia ma anche la grandezza della poesia che le viene quasi subito riconosciuta pubblicamente.

Ritroviamo un altro spaccato interessante dell’esperienza  di Sylvia Plath in un libro recentemente pubblicato da Morellini Editore. In Sylvia Plath. Le api sono tutte donne, Antonella Grandicelli si produce in un singolare romanzo in cui si immedesima coraggiosamente in una Plath impegnata nel racconto di sé stessa a partire dall’anno della morte, ripercorrendo a ritroso tutte le tappe della propria vita attraverso i suoi domicili, associati ai grandi temi e eventi di una esistenza davvero breve: tradimento, maternità, sterilità, America, matrimonio, amore, suicidio, giovinezza. La collana Femminile Singolare cui il romanzo di Grandicelli appartiene nasce dichiaratamente per valorizzare quelle grandi donne del Novecento penalizzate da una figura maschile molto ingombrante al loro fianco e dalla critica misogina. Il romanzo  ha un taglio esclusivamente introspettivo in cui l’autrice ha soprattutto messo in luce la costrizione provocata dagli imperativi sociali, la sopraffazione delle aspettative relative al futuro, le incombenze legate alla maternità e al ruolo di moglie, oltre che al perfezionismo preteso da quella società, e dalle donne nei confronti di se stesse, nel concepire i propri doveri verso un concetto idealizzato di famiglia. Si tratta di un libro, quello di Grandicelli, scritto molto bene e dall’editing curatissimo, in cui la scrittura raggiunge picchi lirici interessanti e originali che pur distaccandosi dallo stile inimitabile che troviamo nei diari di Plath, ha il merito di rendere a pieno quella parte per così dire culturale che ha segnato le difficoltà materiali di Sylvia, donna che voleva scrivere poesia per professione

In Vietato scrivere. Come soffocare la scrittura delle donne  di Joanna Russ, un testo del 1983 ma da poco edito in Italia nella bella traduzione di Chiara Reali per i libri dell’Enciclopedia delle donne, l’autrice citando a sua volta  Suzanne Juhasz scrive: Plath aveva bisogno di essere perfetta ma (come ogni essere umano) non poteva. Qualcosa che aveva sperimentato anche Adrienne Rich nei suoi anni universitari:  una scissione che sperimentavamo già allora tra la ragazza che scrive poesia, che si definiva attraverso la scrittura della poesia, e la ragazza che doveva definirsi attraverso i suoi rapporti con gli uomini. Per Russ, si tratta di un dualismo  insito nelle aspettative di Plath come donna, una frattura tanto psichicamente impositiva da costituire una vera e propria scissione dell’identità.

Una sofferenza psichica quella di Sylvia Plath che nessun a posteriori di tipo critico, narrativo, saggistico, sociologico potrà mai cogliere del tutto e mettere in relazione con la grandezza della sua poesia. Resta credo in chi la legge oggi la constatazione di una fede profonda che animava Sylvia, legata all’imperscrutabile mistero della poesia che spinge una donna a perseverare diabolicamente nello scrivere, attraversando le condizioni più  disagiate e sfavorevoli che il destino, la società, la misoginia, la malattia possono riservarle. Articolo pubblicato su Leggendaria 153 aprile/maggio 2022

Nasce Nina il podcast della SIL

NINA nasce per rilanciare parte del materiale audio prodotto dalla ricerca SIL e per presentare contenuti nuovi implementando l’attitudine alla comunicazione che ha sempre contraddistinto il lavoro di ricerca della Società Italiana delle Letterate.

Dopo mesi di progettazione sono molto felice di annunciare la pubblicazione della prima puntata di NINA il podcast della Società Italiana delle Letterate che ho ideato e organizzato insieme a Anna Toscano. Ogni 10 del mese pubblicheremo una puntata nuova su un sempre maggiore numero di piattaforme podcast a partire da Spotify e Audible di Amazon e altre piattaforme in cui l’ascolto è completamente libero da abbonamenti vincolanti. Il mio interesse, anche tecnico per il formato podcast è nato tre anni fa attraverso alcuni audio diffusi su Diaria Blog e non si è mai sopito. Se l’ho poco praticato rispetto a quanto avrei voluto è stato solo per mancanza del tempo necessario che serve a una cura adeguata a tutti gli aspetti tecnici, insieme a quelli contenutistici necessaria a una produzione qualitativamente fruibile e tematicamente interessante degli audio proposti. Quando ci siamo trovate con Anna Toscano insieme nel nuovo direttivo SIL a avere lo stesso tipo di interesse (Anna per la SIL si occupa dell’ufficio stampa e social, io della gestione del sito) per questa forma di comunicazione, abbiamo immaginato un podcast per la Società delle Letterate attraverso un progetto che è stato accolto dalle colleghe del direttivo con grande entusiasmo perciò qualche mese fa ci siamo messe al lavoro. L’idea di NINA nasce con l’obiettivo di rilanciare parte del materiale audio pregresso prodotto dalla ricerca SIL e di presentarne del nuovo implementando l’attitudine alla comunicazione che la Società delle Letterate ha sempre avuto nell’ambito di una prospettiva futura tanto prossima da essere già presente. Questo non solo per aggiornare SIL con i tempi ma soprattutto per individuare una forma di comunicazione più aderente al modo di essere SIL, stando più vicine alle proprie socie e così potenzialmente incontrarne altre. NINA quindi attraverso questo media del tutto nuovo per SIL che è il podcast sarà un contenitore e un luogo di suoni, parole e silenzi in cui ascoltare le nostre voci. Ascoltando Nina troverete interviste, letture, dialoghi, poesie, canzoni, dibattiti tutto attraverso la lente del femminismo.

Il primo podcast che potete ascoltare si intitola Passaggi metamorfici della poesia e riguarda l’intervento di Chiara Zamboni, introdotto da Elvira Federici (presidente SIL) che ha avuto luogo nell’ambito del convegno Ecopoetiche Ecopolitiche. Poesia come cura del mondo che si è tenuto nel mese di marzo 2022 presso la Biblioteca Consorziale di Viterbo (video integrale del convegno qui, qui e qui) . Il podcast del 10 luglio sarà una mia intervista a Chiara Zamboni sulla sua ricerca e sul libro Sentire e scrivere la natura

La musica: pochi secondi di studio di un duetto di Béla Bartók suonato dalle violiniste Daniela Santi e Sara Michieletto. L’immagine è di Anna Toscano.

Chiara Zamboni insegna Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Verona. Nel 1984 ha fondato assieme ad altre (Luisa Muraro, Adriana Cavarero, Wanda Tommasi ecc) la comunità di filosofia femminile “Diotima”, all’università di Verona. L’impianto della ricerca filosofica si basa su una teoria della differenza sessuale, assunta come significante e non come significato, cioè come orientamento ermeneutico dei segni della realtà, come guida ad atti interpretativi del tessuto del mondo. La sua riflessione su linguaggio, basata sulla relazione di fiducia che abbiamo con la terra, fiducia che si sottrae al dispositivo soggetto oggetto, evoca fin nella sua scrittura filosofica, quell’attenzione poetica che ci consente di vivere la realtà “nutrendola creativamente di parole”. Tra le sue pubblicazioni: Parole non consumate. Donne e uomini nel linguaggio (2001); Pensare in presenza. Conversazioni, luoghi, improvvisazioni (2009), Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza tra reale e irreale (2009) La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe (2019) e Sentire e scrivere la natura (2020)

Sylvia Plath per Leggendaria 153 Guerra e Pace

“La libertà della donna newyorkese del primo decennio del secolo, il periodo della grande depressione, il proibizionismo, il rovinoso crollo della borsa di Wall Street  del 1929 contribuiscono per Paulina Bren a creare modelli femminili profondamente contraddittori. Il modello di donna nuova di inizio secolo aveva lasciato il posto, quando Sylvia arriva a New York, alla pretesa di un ritorno alla tradizione, incoraggiato dal dilagare della povertà anche cittadina. Tuttavia non per questo la questione reale della donna lavoratrice per ambizione o necessità era passata in cavalleria, anzi. Il serpeggiare di questo modello di donna fieramente lavoratrice insieme a un preteso  ritorno delle donne a un ruolo più tradizionale dentro la famiglia avrebbe consegnato anche Sylvia Plath ai doppi oneri che gli standard degli anni Cinquanta imponevano alla donna americana”

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Sommario

Libri di cui parlo nell’articolo

Biomimetica e destino

Possono le strategie e il #linguaggio delle piante cambiare il modo di intraprendere, intendere e interpretare la #scrittura in senso ecologico? Gli ambiti sterminati di applicazione della #biomimetica ci fanno sognare questo.

Da persona che scrive e ha un giardino che cura da anni ho una conoscenza empirica delle strategie e del linguaggio delle piante, dei modi in cui mi dimostrano come stanno, ciò che vogliono da me e quali sono le loro intenzioni. Lo so quanto mi vogliono bene o quanto mi vogliono male se sbaglio o ho ragione a trattarle prendendo decisioni anche fuori dalla manualistica. Chiunque abbia una pianta anche d’appartamento lo conosce il modo straziante in cui ti rimprovera con tutto il corpo di non essere stata troppo attenta al nocciolo della questione.

Ultimamente mi ha molto coinvolto la lettura di un libro di Renato Bruni che si intitola Erba volant. Imparare l’innovazione dalle piante (Codice Edizioni, 2022). Sono rimasta folgorata dai principi della biomimetica che Bruni descrive nel libro. In realtà mi ha colpito soprattutto il linguaggio con il quale l’autore  rende possibile all’immaginazione di chi legge di compiere il salto nel vuoto che la biomimetica si propone di fare in ogni campo di applicazione. Leggo sul sito dell’Eni questa definizione di biomimetica:

dal greco bios, vita, e mimesis, imitazione, che potremmo definire come un’applicazione delle nuove tecnologie allo studio della biologia al fine di produrre materiali e strutture ispirati agli organismi e agli ecosistemi. Non una semplice copia, né un’impostazione estetica, di design, ma un vero e proprio modo nuovo di intendere l’architettura, l’industria tessile, l’edilizia e persino l’urbanistica senza prescindere dalla salvaguardia dell’ambiente e del clima da un lato e della sostenibilità energetica dall’altro.

Certo letta sul sito dell’Eni una definizione per così dire etica della  biomimetica sembra  un po’ grottesca. Tuttavia il libro di Bruni mostra anche a lettrici amatoriali, come lo sono io relativamente a questo tema, che al di là degli interessi delle multinazionali del petrolio e del farmaco la biomimetica ha effettivamente campi sterminati di applicazione. La natura inventa un po’ come si inventano la vita e la scrittura quelle e quelli che hanno l’istinto poetico cioè creando senza avere un piano d’uso, un disegno di destinazione. Ma questo non deve far pensare a uno speciale amore per l’inutilità o al perseguimento di un’etica disinteressata. Il loro motore insiste come quello dei vegetali, come scrive Bruni, sul numero, sul caso, sulla prova costante, sulla permanente elaborazione delle soluzioni in cerca di quella più appropriata al contesto, sempre volti al concepimento di qualcosa ancora non pervenuto. Queste vite e questa scrittura, come i movimenti non movimenti più o meno enfatici e plateali delle piante, con buona pace dei patiti della matematica, si avvalgono di una  scientificità che c’entra comunque con un modo alternativo di intendere i modelli.

La natura crea stando ogni organismo vegetale ben piantato e fiducioso relativamente ai meccanismi chimici e biologici alla base del fatto che sei una pianta viva e sei pronta a perpetrare le tue singolarità oltre che a determinarti seguendo le propensioni  del tuo genere e della tua specie. Bruni parla suggestivamente di un testo nascosto, un testo borderline che si trova nelle variazioni evolutive di ciascun vegetale. L’autore illustra alcuni modelli di questo testo attraverso uno storytelling fatto per entrare nel vivo delle dinamiche essenziali. Storie  di scelte strategiche vere e proprie rese trasferibili in contesti tutt’altri anche dalla verve ironica di chi ha perso l’innocenza di guardare alla natura secondo il preconcetto tutto umano di una sua innata bontà di fondo. Storie quelle di Bruni raccontate attraverso la descrizione delle imprese più impensabili che le piante  compiono con un efficacia e una fiducia incrollabile nel potere della quotidianità che per loro si esprime nel ciclo circadiano. In effetti come dovrebbe essere per noi animali, cioè attraverso un tempo fortemente connotato  da ore di buio e di luce in un’alternanza  che lascia poco spazio al contraddittorio.

Si chiama biomimetica, ed è il metodo per studiare e imitare la natura garantendo all’uomo innovazioni efficaci e sostenibili. Così, le felci da appartamento che assorbono sostanze nocive diventano un modello per la depurazione dell’aria, mentre gli adattamenti sviluppati da alcune piante per resistere nei deserti forniscono idee per raccogliere acqua piovana e conservare vaccini senza frigorifero. In altri campi, osservare il regno vegetale può aiutare a progettare reti per lo scambio d’informazioni, a pianificare nuovi approcci al marketing, a sviluppare architetture leggere ecosostenibili, a ottenere la fotosintesi artificiale. Dal sito dell’editore

Alcuni elementi di botanica grossomodo li sapevo per esperienza diretta di una che non si allontana mai troppo a lungo dalla natura e un po’ anche grazie all’aiuto di tutta una formidabile letteratura sulla botanica e la filosofia del giardino che chiunque voglia capire qualcosa di scrittura dovrebbe mettere in lista tra le prime letture da fare. Un po’ come accadeva nella Firenze di Dante se volevi fare il politico, ti dovevi  laureare nell’arte dello speziale, conoscendo il nome di tutte le piante e assicurando di aver svolto un appropriato tirocinio attraverso un preciso numero di visite negli orti botanici.

Quello ritratto nella foto reciso e posto in acqua è il fiore di taràssaco, una delle piante più comuni e diffuse. Ha virtù officinali note fin dall’antichità. È comunemente conosciuto come dente di leone, dente di cane, soffione, nonnino, cicoria selvatica, cicoria asinina, grugno di porco, ingrassaporci, brusaoci, insalata di porci, pisciacane, lappa, missinina, piscialletto, girasole dei prati, erba del porco o anche con lo storpiamento del nome in tarassàco.

Insomma lo sapevo quanto i comportamenti delle piante potessero essere illuminanti su tutti i fronti proprio a partire dal principio che le idee, come dice Bruni, degne di essere chiamate tali, che funzionino o meno, sono sempre figlie di  un ambiente reale che le sottopone a quanto c’è di ineludibile rispetto al porsi il problema  di continuare a esistere. Di esistere in qualche modo ma anche di proliferare sulla base delle effettive risorse disponibili, alle condizioni oggettive in cui ci si trovi e resistendo alle aggressioni subite alla propria identità. Identità che nella tassonomia delle piante è qualcosa di scandito da presupposti misurabili. Ma soprattutto le piante insegnano quanto sia importante avere una percezione diversa rispetto a quella umana relativamente a quei pericoli costituiti dalle intenzioni predatorie e colonizzatrici dei soliti meccanismi di prevaricazione. Prevaricazione che in natura è sempre governata da un equilibrio che prescinde i soggetti coinvolti ed è volto al mantenimento di un’ecosistema mai basato su distruzioni da intendersi  su vasta scala. Semmai, sacrificando qualcosa la prevaricazione delle piante è sempre indicizzata verso un mantenimento della vita nel senso più ovvio e più banale, a fronte del quale gli interessi di una  soggettività di tipo antropocentrico fanno sorridere. Certo come si fa a non partire in quarta con l’immaginazione quando Bruni scrive la parola testo? Come si fa a non pensare in termini che si possano avvalere di alcuni concetti della biomimetica ipotizzando  una riflessione sull’unicità della scrittura di ciascuna donna  che scrive ad esempio. Lo si potrebbe fare in questo caso abbozzando approssimativamente un osservatorio sulle potenzialità conoscitive o deleterie dell’importanza data ai numeri nel caso delle digital humanities:

è un’area di attività accademica all’intersezione tra le tecnologie informatiche o digitali e le discipline umanistiche. Comprende l’uso sistematico delle risorse digitali nelle discipline umanistiche, nonché l’analisi della loro applicazione.

Si potrebbe partire dal presupposto che quella delle donne sia un genere di scrittura o una scrittura di genere che come la poesia per sua natura tende a farsi laboratorio di elaborazione permanente delle soluzioni per adattarsi a un contesto ancora ostile e spesso universalmente inospitale. Si potrebbe pensare anche alla scrittura sulla base di come questa  appartenendo a scrittrici o a scrittori, a poete o a poeti, all’accademia, o al romanzo, o al giornalismo si adatti o meno a un ecosistema che si crede del tutto mappabile, al prezzo di ingenti sacrifici in termini di perdita del senso della realtà.

Quando il campo è il testo per chi lo pensa e poi cerca una lingua per scriverlo,  può prevalere quel mondo così controverso in cui a contare sono i dati se si fa dei numeri l’unico ecosistema, cristallizzando ogni movimento del linguaggio dentro modelli che fanno categoria. Ma se sostituissimo all’efficacia di un algoritmo quegli oggetti del reale che determinano le cose che effettivamente avvengono in natura, che succederebbe? Intorno alle piante e ai loro comportamenti creativi, distruttivi, colonizzatori quando non esplicitamente ruffiani o opportunisti a fare contesto non è il consenso, il successo formale ma come in natura, il ripetersi di prassi che ogni volta devono dimostrare sul campo la loro efficacia di fronte alla maggiore o minore severità dei singoli habitat.

Voglio dire per fortuna anche in letteratura esistono a fare contesto anche le condizioni climatiche e ambientali, storiche e sociali in cui un seme di un determinato genere e di una tale provenienza geografica vive la sua specie nella necessità di esistere anche attraverso una tassonomia integrata da un immaginario sfuggente e impensabile, come fanno i vegetali al fine di garantirsi la sopravvivenza. Un immaginario attivo avvinto alla pura necessità di non essere spazzati via dagli elementi, un immaginario che ha sempre legato gli esseri viventi a una cifra potenzialmente ignota che insiste allo stesso modo nella natura e nella letteratura.

Aspettando La vita bugiarda degli adulti su Netflix

Appena conclusa su Rai1 la terza stagione de L’Amica Geniale abbiamo saputo che La vita bugiarda degli adulti sarà composta da 6 episodi che vedremo su Netflix entro la fine del 2022. Già sapevamo da tempo che la zia Vittoria l’avrebbe interpretata Valeria Golino e il regista della fiction sarebbe stato Edoardo De Angelis.

Non ho amato la regia di Daniele Lucchetti che mi ha reso faticoso guardare con attenzione la terza stagione dell’Amica geniale ma sono mesi che mi cullo nell’idea che il più bistrattato dei libri di Ferrante il meno compreso, nominato e studiato di tutti, fosse stato consegnato alla lettura cinematografica del regista di Indivisibili.

Indivisibili è un film uscito nel 2016. La vita bugiarda degli adulti sarebbe stato pubblicato nel 2019 ma Storia della bambina perduta quarto e ultimo libro de L’Amica geniale aveva già spopolato ovunque creando nuovi paradigmi di riferimento critico relativi alla coppia di amiche, al rapporto madre figlia, al diritto alla centralità delle prerogative  femminili all’interno di contesti publici e privati. Oggetti e categorie marginali, storicamente relegati in generi e recinti, studiati in contesti di nicchia, con Ferrante diventavano un po’ più noti, un po’ meno spaventosi. Non che i tempi non fossero maturi da prima del ciclone Ferrante ma  certo la grande popolarità della saga e poi della prima e della seconda stagione della serie televisiva per la quasi completa regia di Saverio Costanzo avevano reso, improvvisamente la vita delle bambine, l’infanzia e l’adolescenza delle donne, i rapporti tra loro, con gli uomini, con la politica, temi praticabili in senso più ampio fino a raggiungere il discorso pubblico. Oddio, più che il discorso pubblico il chiacchiericcio che, almeno in Italia, questi temi li scopriva come non fossero mai esistiti, salvo tutto il lavoro di ricerca, scrittura, politica e critica di chi  si è sempre  spesa a prescindere da Ferrante.       

Vincitore di 5 Nastri d’Argento e 6 David di Donatello Indivisibili arrivava in quel momento a parlare del legame tra due ragazze quasi maggiorenni e di quanto il valore simbolico di questa sorellanza di sangue potesse sfociare in una mistica mondana e una distorsione del tutto mercificabile. Nel film di De Angelis Viola e Dasy sono due gemelle siamesi che cantano ai matrimoni facendo la fortuna di una famiglia di Castelvolturno  la cui economia ruota tutta intorno ai proventi di queste esibizioni.  

Tuttavia Viola e Dasy sono soprattutto due ragazze con un sogno: la normalità di poter fare ciascuna le cose per conto proprio. Anche se questo è il sogno più di una che dell’altra. All’orizzonte un intervento chirurgico che forse potrebbe esaudire il desiderio ma farebbe cessare i proventi delle loro esibizioni. Sullo sfondo tre uomini: un padre che non molla la proprietà usufruttuaria delle figlie, un prete che ha colto la portata pecuniaria del miracolo costituito dai due corpi femminili belli e difformi da esporre all’atavismo dei fedeli e un produttore discografico con la passione per il  freak, essendo sessualmente interessato alla diversità dei due corpi in uno che Viola e Dasy rappresentano.


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Scrivo su La vita bugiarda degli adulti ne Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo: “Dopo la tetralogia de L’amica geniale, Elena Ferrante inizia il racconto in prima persona della vita di Giovanna Trada, nata a Napoli il 3 giugno 1979, colta sul compiere dei suoi 12 anni fino ad arrivare ai 16. […] In ballo stavolta c’è proprio un’eredità generazionale, storica, politica, ambivalente che è bene saper guardare da tutte le prospettive se si vuole crescere. E Giovanna lo vuole sicuramente, dato che il romanzo si chiude con un proposito di tutto rispetto, quello di diventare adulta come a nessuno è mai successo. Per non parlare della domanda che campeggia già in quarta di copertina: crescere per diventare cosa, per somigliare a chi? Intendiamoci: fare da sé per Giovanna non è una velleità ma una necessità che pagina dopo pagina renderà il linguaggio e le sue insidie più o meno consapevoli, il vero protagonista del libro e la vera posta in gioco in termini di eredità”

De Angelis quindi nella fiction de La vita bugiarda degli adulti si misurerà  con temi che sono anche i suoi. L’eredità generazionale, la metamorfosi materiale e simbolica del corpo femminile adolescente, il suo essere risorsa e reliquia di un immaginario sociale esclusivamente maschile. Ma soprattutto la spaventosa, misteriosa e pericolosa adolescenza delle bambine.

Ferrante come se non bastasse ci ha insegnato ancora dell’altro con La vita bugiarda degli adulti.  Quando si trova la lingua per dire qualcosa che prima era indicibile, ricorrono parole che vengono sottoscritte e poi usate sempre da un maggior numero di persone. Gli adulti che le usano sempre più spesso finiscono per perdere la memoria di quel mistero che nel bene e nel male, le parole, le rende vive. Forse è così che si smette di vedere, pur essendo convinti di continuare a guardare, come Andrea, il padre di Giovanna. Alcuni genitori lo sanno che devono preferire il sapere al non saperne, preferire di essere certi invece che dubitare. Le sfumature sono possibilità che devono scordarsi di praticare, i genitori, perché proprio quelle potrebbero  costituire  la loro pubblica gogna di fronte all’implacabile adolescenza dei loro figli. Fossero genitori rivoluzionari o patiti della conservazione fa lo stesso. Sono le parole che erano state nuovissime la colpa genitoriale che serve ai figli per crescere, sbugiardando tutte le verità, le bugie, nonché le omissioni che quelle parole continuano a racchiudere, impedendo la fiducia nel saper fare meglio e da soli. Soltanto che certi adulti se lo dimenticano che quella porzione di indicibilità rivelata da parole che una volta erano nuove, non si esaurisce mai, anzi resta acquattata ovunque.

Le adolescenti come Giovanna Trada lo sanno per istinto che il linguaggio attraversa sempre le cose, anche se prima erano soffocate dall’ indicibilità e ora sono riconoscibili solo attraverso quell’unica possibilità di essere dette, che certo non appartiene a chi sta al mondo da poco. Se le ragazze ascoltassero le parole che per le loro madri e i loro padri erano state nuove, lo scarto, le altre parole che si possono cercare, per inventare e poi praticare un altro modo di fare e dire avrebbero ancora meno la possibilità di venire alla luce. Le parole si consumano, il nuovo invecchia e diventa rassicurante come un buon classico. Così certi misteri atrofizzano nel non detto e certi altri per fortuna restano misteri che rendono le cose, i gesti, giovani anzi adolescenti, consegnandoli al mistero per antonomasia che rinnova il mondo. Io penso che è per questo che La vita bugiarda degli adulti avrebbe potuto essere una saga, come L’amica geniale, come anche Ferrante nel 2019 dichiarò che sarebbe potuto essere. Certo un ciclo più difficile quello delle vite bugiarde, meno facilmente amabile de L’amica geniale ma quanto necessario.

Conferma al direttivo SIL per il biennio 2022-23

Il Consiglio Direttivo della Società Italiana delle Letterate, in carica per il biennio 2022-2023 che è stato eletto durante l’assemblea del 20 marzo 2022, vede confermata la mia presenza in questo organismo.

DIRETTIVO IN CARICA: 2022-2023

Rossella Caleca 

Annalisa Comes 

Elvira Federici (Presidente)

Gabriella Musetti (Tesoriera)

Donatella Saroli (Vicepresidente)

Viviana Scarinci

Anna Toscano

Ecopoesia un testo imprevisto scritto la notte prima

Qualche mese fa questo spazio del Convegno SIL Ecopoetiche Ecopolitiche, poesia come cura del mondo doveva essere riservato a un dialogo che si sarebbe riferito alla traduzione italiana di Zong! Come narrato all’autrice da Setaey Adamu Boateng di Marlene NourbeSe Philip, cui avrebbero dovuto prendere parte la traduttrice italiana Renata Morresi e l’editrice Mariangela Guatteri. Poi questo spazio di dialogo sarebbe dovuto essere riservato alla poeta e critica letteraria Bianca Battilocchi, infine al mio fianco oggi ci sarebbe dovuta essere la poeta Lidia Riviello ma come vedete non c’è, né lei né le altre persone che ho nominate. Perciò vi parlerò in questi pochi minuti sostituitivi di quello che avrebbe potuto essere, di alcune suggestioni che mi hanno accompagnato in questi mesi.

La prima suggestione che vi vorrei offrire mi è arrivata da un recente intervento di Roberta Mazzanti nell’ambito dell’incontro che ha avuto luogo meno di un mese fa presso il Giardino dei ciliegi di Firenze intitolato Incontrarsi ai crocevia. Eredità plurali di Liana Borghi. Mazzanti parlando di uno degli innumerevoli aspetti della ricerca e delle pratiche di Liana Borghi definisce la poesia un disegnare la mappa dei fallimenti, inserendo questa definizione tuttavia  all’interno di un’investigazione fervidamente attiva e ambivalente (in termini di fiducia nel successo dell’impresa) in merito a quale sia il potere effettivo del linguaggio letterario nel suo descrivere, incidere, e cambiare la realtà. 

Questa focalizazzione così precisa e sintetica mi ha colpito proprio perché evidenziava a mio avviso un legame forte tra i lavori che in parte  questo convegno sulla poesia come cura, si è riproposto di fare e l’essenza per così dire poetica della pratica di Liana Borghi, per quel pochissimo che ho potuto conoscere in prima persona. 

L’altra madrina ideale che nominava Elvira Federici in apertura che ho richiamato dalle pagine di Leggendaria 151 in occasione di un articolo che si riferiva a questa nostra due giorni così attesa, è Lidia Curti che attraverso l’ultimo libro Femminismi futuri (su questo blog ne ho parlato qui ) a sua cura e a cura di Marina Vitale, ha profilato un prospetto vastissimo in cui afrofemminismo, politiche femministe decoloniali, miti e figurazioni future hanno saputo integrarsi perfettamente con quello che Curti indica come un confronto con l’alterita’ da praticare attraverso un’estetica del discontinuo, dell’interruzione, del disordine, dell’asimmetrico, come in poesia del resto.

Quale introduzione può essere  migliore a un incontro in cui si vuole parlare di ecofemminismo attraverso il linguaggio della poesia, in un momento storico cui voler essere comunque contemporanee senza sottrarsi alla nostra responsabilità di poete, di femministe, artiste, studiose senza ognuna di noi rinunciare alla propria agenda, come indicava Anna Maria Crispino ieri. Quale se non quella riflessione che richiama da un lato lo stare con tutto quello che anche i workshop di questo convegno hanno indagato in termini di cura: stare con il fallimento, la cura, la lingua madre e la lingua dell’altra, la ferita, ma anche con tutta la carica trasformativa e vitalistica di cui il linguaggio poetico è portatore.

Secondo una definizione abbastanza diffusa ormai  l’ecofemminismo riafferma il mondo nella sua complessità e nello stesso tempo propone un impegno e una sintonizzazione con un mondo originario, un mondo dinamico e ricco, proprio perché concepito, in una prospettiva anche storica  dentro  un continuum di relazioni tra umani nelle loro diversità e non umani portatori tra loro e a loro volta di diversità per niente scontate. E’ tramite questo modo per così dire ecologico che il linguaggio poetico parte alla volta di una indagine che si insinua all’interno dell’habitat. 

In questa definizione di habitat  si può trovare un orientamento volto a una  coabitazione dell’essere poeta e femminista dentro  un linguaggio/casa in cui l’ambivalenza si fa indagine plausibile  molto più che altrove. Così come nell’udire la definizione di poesia come mappa dei fallimenti, trovo molta più speranza che in ingannevoli  rassicurazioni di successo o di possibile e illusorio raggiungimento di un qualche obiettivo in termini di una definizione provvisoria ma accettabile della realtà che ci circonda.

Un certo modo politico di intendere l’ecopoesia  si misura  con il potere che il linguaggio letterario ha di  muovere da tutt’altra unità di misura stabilita. Quella della parola poetica ecologica  ha come unità di misura un elemento che segna la sua differenza  fondativa: l’ecosistema, come alcune e alcuni teorici dell’ecofemminismo hanno asserito. L’ecosistema è l’unità di misura della sopravvivenza come elemento che mette in relazione la percezione della nostra storia di umani, le pratiche,  parole, traduzioni resistenti  materialmente opponibili a qualsiasi potere e prevaricazione. La poesia dal canto suo segna, può segnare, un’estetica di quella misura che abbiamo chiamato ecosistema. 



Questo frammento di discorso contrae un debito importante con il pensiero di Nasrullah Mambrol e getta idealmente le basi di uno svolgimento più articolato in cui storia, poesia, ambiente, relazioni quotidiane tra individui e degli individui con la natura si articolano e vengono comunicati globalmente attraverso il così detto landscape of fear, il paesaggio della paura, teorizzato da Peter Turchin, termine che a sua volta Turchin prende in prestito dal mondo animale come strumento di analisi sociale (e poetico/narrativa per quello che mi riguarda) attraverso il significato ecologico e di conservazione della paura. Sono stata messa sull’avviso di questa lettura relativa alla paura e al fallimento storico per così dire della lucidità, anche da una delle newsletter di MEDUSA in cui citando Turchin relativamente alle conseguenze delle guerre e carestie del Basso Medioevo, si tentava di dare una lettura ecologica, anche delle conseguenze storiche, sociali e ambientali degli stati d’animo per così dire attanagliati dall’idea della morte e dal “concetto” di lutto.

Elena Ferrante i temi dell’incontro di domenica 6 marzo al Pentatonic

Ecco i temi sui quali insieme a Anna Maria Curci inizieremo a ragionare domenica 6 marzo alle 17 al Pentatonic

L’italianità di Elena Ferrante anche nelle diverse ottiche in cui film e fiction l’hanno inquadrata
La marginalità in Ferrante come viene intesa relativamente alla storia delle italiane del XX secolo e ai vari contesti sociali e politici che tutte le protagoniste ferrantiane, del primo e del secondo ciclo, attraversano
L’Italia del 1992 anno in cui Elena Ferrante nasce come autrice pubblicando il suo primo libro
Ferrante è un’autrice femminista?
Il romanzo scritto da donne e Elena Ferrante
Gli adulti sono bugiardi? Che cos’è la verità nell’opera di Elena Ferrante
Elena Ferrante, la Germania e il contesto internazionale
Il margine e il dettato, Elena Ferrante saggista

L’evento prevede di essere seguito esclusivamente dal vivo. Ingresso con tessera ARCI 2021-2022; è possibile tesserarsi in sede. Prenotazione obbligatoria (+39 3519674290). Nel rispetto delle normative vigenti, potrà accedere al locale chi è in possesso della certificazione verde rafforzata COVID-19. Info sul libro https://www.iacobellieditore.it/catalogo/il-libro-di-tutti-e-di-nessuno/

6 marzo alle 17 Il libro di tutti. Elena Ferrante al Pentatonic

Care amiche e amici, domenica 6 marzo alle 17 avrà luogo un evento molto speciale su Elena Ferrante, la traduzione in lingua tedesca, le fiction tratte dai romanzi di questa autrice e il metodo di indagine che ho dedicato alla scrittura di Ferrante attraverso i miei libri in italiano Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo e tedesco Neapolitanische Puppen. Ein Essay über die Welt von Elena Ferrante. L’incontro che avverrà esclusivamente dal vivo, si terrà a Roma a cura di Anna Maria Curci presso il Club Live Pentatonic.

L’evento prevede di essere seguito esclusivamente dal vivo. Ingresso con tessera ARCI 2021-2022; è possibile tesserarsi in sede. Prenotazione obbligatoria (+39 3519674290). Nel rispetto delle normative vigenti, potrà accedere al locale chi è in possesso della certificazione verde rafforzata COVID-19.

Qui tutte le recensioni e le presentazioni online che hanno avuto luogo fino a ora


Quando un libro è di tutti e di nessuno. Approfondimento e appendice online del mio lavoro su Elena Ferrante

Ecologia letteraria dell’immaginazione senza corpo

Elena Ferrante dall’invisibilità all’essere vista ovvero la performance del corpo femminile mancante 

Elena Ferrante una genealogia plurale femminile per le italiane

Elena Ferrante: l’istruzione, il linguaggio e le evidenze disturbanti

Emily Dickinson, Dante, Goethe e Elena Ferrante

Come seguire l’incontro del 10 dicembre a Pisa su Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo

Con l’opera di Elena Ferrante è il racconto della vita psichica delle donne che entra nella storia del XX secolo, sulla base di come questa vita è emersa al dicibile attraverso la pluralità di analisi, studi e vissuti intrapresi e trasmessi dalle donne per le donne.

L’incontro che la Casa della donna di Pisa organizza su Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo potrà essere seguito in diretta attraverso la pagina facebook https://www.facebook.com/casa.delladonna e in presenza prenotandosi a questa email segreteria@casadelladonnapisa.it

@studiose/studiosi di Elena Ferrante qui trovate una delle bibliografie più complete che si possano avere in rete per lo studio dell’opera della nostra autrice.

Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo a Pisa 10 dicembre alle 17,30 con la Casa della donna alla Stazione Leopolda

Perché i romanzi di Ferrante si possono dire politici? Perché Ferrante è una scrittrice politica nonostante  non abbia mai asserito pubblicamente  di aderire a una qualche militanza? Argomenti come la vergogna per le  proprie origini, il discusso uso del dialetto individuato alla stregua di uno stigma sociale, il focus sulla figura ambivalente delle  madri, sull’istruzione e le strumentalizzazioni  dei titoli di studio. I romanzi di Ferrante in che modo hanno contribuito  all’emersione di un rimosso collettivo e individuale che è insito nelle dinamiche sociali? E ancora Il significato delle parole  frantumaglia e smarginatura: come si differenziano tra loro? Come è stato possibile che si siano rese riconoscibili nell’esperienza delle donne di tutto il mondo? E gli uomini sono immuni da questi sintomi? Ferrante vista e riletta cinematograficamente da registe e registi di film e fiction  è la stessa Ferrante dei romanzi che noi amiamo?

Venerdì 10 dicembre sarò finalmente in presenza a Pisa per parlare del Libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo. Con Irene Bianchi (brillante studiosa di Elena Ferrante attraverso una tesi di laurea dedicata) parleremo dei romanzi da L’amore molesto a La vita bugiarda degli adulti passando per le altre scritture ferrantiane: gli articoli per il Guardian raccolti ne L’invenzione occasionale, le interviste collezionate ne La frantumaglia per arrivare al libro appena uscito I margini e il dettato con il quale Ferrante affronta la scrittura saggistica offrendo alle sue lettrici e lettori un fascinoso report, dubbi e dolori compresi, di una vita dedicata alla letteratura e al romanzo.

Grazie infinite alle amiche della casa della donna di Pisa e al loro impegno instancabile che rende possibili incontri come questo.

Qualcosa sul progetto editoriale Repertorio critico delle poete italiane presentato presso la Biblioteca Elio Pagliarani di Roma

Ieri si è tenuto presso la Biblioteca Elio Pagliarani di Roma un incontro importante per la poesia. In un primo momento l’idea prospettata da Gabriella Musetti confesso mi aveva fatto tremare i polsi. Di primo acchito la creazione per la Società Italiana delle Letterate di un repertorio critico che illustrasse il lavoro di poete italiane e italofone, viventi, nate prima del 1970 può sembrare un’impresa tanto necessaria quanto impossibile.

Il primo motivo dei miei tremori, seguito però da un fremito di gioia, ha riguardato l’ampiezza che Musetti si è riproposta di coprire in termini di ricerca, attraverso un progetto editoriale strutturato con una profonda consapevolezza relativa alla sua esperienza di poeta, editrice e femminista posta al servizio di un repertorio critico intitolato suggestivamente Fuori dal canone. Per una storia della poesia italiana delle donne.

È infatti di questi giorni la presentazione al circolo della stampa di Trieste dell’associazione di promozione sociale Vita Activa Nuova che vede Gabriella Musetti tra le fondatrici. Vita Activa Nuova è dunque anche la casa editrice che si propone in prospettiva la pubblicazione del repertorio SIL delle poete italiane.

Il secondo motivo di tremore e poi di entusiasmo incondizionato, riguarda il fatto che si tratta di un progetto che per come è stato concepito insiste anche metodicamente su una difficoltà costante e comune. Una difficoltà spesso insormontabile cioè quella che affrontano le scrittrici, le poete e le critiche letterarie che si propongono di ricercare e di scrivere fuori dal confine del canone e di conseguenza fuori dalle categorie per così dire accreditate da un sistema di pensiero unico.

Del resto il discorso sulle problematiche del canone era stato precocemente declinato in termini politici e critici dalla SIL già nel 2015, attraverso una pubblicazione fondamentale che ha aperto la strada a molti discorsi pubblici sui limiti intollerabili che il concetto di canone impone che per fortuna si stanno tenendo oggi.

Gabriella Musetti in estrema sintesi a noi redattrici reclutate nel direttivo della Società delle Letterate tra coloro che si occupano a vario titolo di poesia (Elvira Federici, Loredana Magazzeni, Anna Toscano) ha chiesto di agire nella ricerca delle poete e delle curatrici/curatori più appropriate/i sulla base di un principio di accreditamento incentrato su un panorama molto più ampio rispetto a quello ristretto e ufficializzato da un canone letterario come minimo latitante quando funge da osservatorio sul lavoro delle poete.

Ho immaginato perciò che l’azione più utile che potessi intraprendere in prima battuta fosse quella di occuparmi il meno possibile, in veste di critica, delle poete che intendevo proporre all’attenzione della redazione del repertorio.

Per inciso l’unica poeta di cui ho scelto di occuparmi come critica in collaborazione con Luca Benassi è Lucianna Argentino Questo perché a mio avviso un repertorio critico che si configura sulla base di una tale vastità di vedute richiede di avvalersi il più possibile dell’analisi di critiche e critici specialiste/i  delle soggettività poetiche che si considera di includere.

Pertanto ho iniziato il mio lavoro redazionale con la consultazione di quelle organizzazioni del mondo dell’editoria e di quelle realtà letterarie con le quali fossi entrata da tempo in contatto diretto attraverso la mia attività di poeta e critica di poesia.  Si è trattato per me di una vera e propria consultazione messa in atto attraverso una rete relazionale formata da quelle entità che negli anni mi hanno portato a constatare  personalmente quanto agissero con presupposti affini a quelli che il progetto del repertorio si propone in termini di indipendenza.

Una di queste è la redazione delle edizioni Anterem che bandisce da trentasei anni il Premio Lorenzo Montano. La loro attenzione critica di amplissima portata è testimoniata  dal modo composito in cui la redazione si è strutturata negli anni e ha agito nell’analisi dei lavori poetici proposti loro esclusivamente sul vivo dei testi. Questo lungo corso di attenzione e indipendenza è evidente da quest’anno in particolare dalla netta prevalenza della pubblicazione di voci poetiche femminili di estremo interesse su cui la casa editrice veronese ha puntato.

Per quanto riguarda la funzione di osservatorio attraverso il web ho interagito con quelli che sono tra i punti di riferimento più accreditati soprattutto dalla qualità della loro ricerca e promozione nella poesia contemporanea. Uno di questi è il sito Poetarum Silva con Anna Maria Curci caporedattrice insieme a Fabio Michieli. Curci poeta, studiosa e traduttrice è, tra le altre, coinvolta nel repertorio come poeta e e come critica nell’analisi delle poete da includere.

Un altro di questi siti è Slowforward molto noto per la proposta di realtà poetiche tra le più attuali del panorama nazionale e internazionale. Marco Giovenale, poeta e critico, il creatore e promotore del sito è tra i curatori del repertorio attraverso l’analisi critica del profilo poetico di Mariangela Guatteri.

Il repertorio dunque riguarda il lavoro di poete la cui ricerca è ancora in corso di svolgimento. Credo che anche questo sia un segnale politico molto forte che il repertorio voglia dare. Per concludere vorrei sottolineare come questo criterio che ho sommariamente illustrato è stato possibile grazie a una politica di compilazione precisamente scandita affidata alle scelte soggettive delle redattrici, tutte come già detto poete e critiche letterarie.

Questa precisazione si dimostra opportuna perché è stato chiaro fin da subito che un repertorio critico il quale si proponga un’indagine sul presente della poesia italiana delle donne, debba avvalersi dell’esperienza  maturata da soggettività e organizzazioni che si sono prefissate come assunto, un lavoro del tutto indipendente sui fenomeni della contemporaneità poetica, con ciò individuando criteri inediti e pertinenti al vivo di quelle ricerche poetiche che sono in corso di svolgimento.

2 dicembre ore 21: Fuori dal canone. Per una storia della poesia italiana delle donne Biblioteca Pagliarani di Roma

Giovedì 2 dicembre alle ore 21 presso la Biblioteca Pagliarani di Roma si svolgerà un incontro in presenza e in rete sul tema: “Fuori dal canone. Per una storia della poesia italiana delle donne”. Parteciperò all’incontro in qualità di direttivo SIL e redatrice del progetto editoriale con Elvira Federici, Loredana Magazzeni, Gabriella MusettiAnna Toscano. Saremo in dialogo con Cetta Petrollo. Questo incontro intende fare il punto sul progetto di ricerca e compilazione del nuovo Repertorio delle poete contemporanee italiane e italofone avviato da questo Direttivo SIL nel corso dell’anno 2021, un progetto ideato da Gabriella Musetti. Altro argomento riguarderà il prossimo convegno SIL 2022 che si terrà a Viterbo dal 18 al 20 marzo, tema: Ecopoetiche, ecopolitiche. Chi volesse partecipare online può richiedere il link a societaletteratepoesia@gmail.com 

Su I margini e il dettato di Elena Ferrante

Elena Ferrante. La vita vera, il peccato originale e il repertorio di trucchi che fanno il genio

mi sono confessata quando il libro era a buon punto, io che scrivo insieme a Lenu’, io, l’autrice, saprei fare la scrittura di Lila? Quella scrittura straordinaria non la sto inventando proprio per raccontare l’insufficienza della mia? p.111

Esce oggi in libreria da edizioni e/o I margini e il dettato di Elena Ferrante. Il libro contiene tre saggi completamente inediti e La costola di Dante, intervento conclusivo del convegno su Dante e altri classici dell’ADI Associazione degli italianisti (di questo saggio su Dante ne parlo qui) Contemporaneamente a partire da stasera per tre sere alle 20.30, va in scena al Teatro Arena del Sole di Bologna La scrittura smarginata – Le Umberto Eco Lectures di Elena Ferrante, un ciclo di tre lezioni per ascoltare i tre differenti testi: La pena e la penna, Acquamarina, Storie, io, i tre saggi contenuti ne I margini e il dettato e proposti al pubblico sotto forma orale dall’attrice Manuela Mandracchia[1].

Vi dico subito una cosa che sta a pagina 115 di questo ultimo libro di Ferrante, riguarda tre righe in cui Elena Ferrante svela il peccato originale di Lila e Lenuccia, quello che regge il dramma contraddittorio, incoerente e struggente su cui si articola L’amica geniale: Il peccato originale delle due amiche era di aver creduto di potercela fare da sole, la prima da bambina, la seconda da adulta.

È questo che urta, anzi da proprio uno spintone per utilizzare un’espressione che la stessa Ferrante usa ne I margini e il dettato. Ma anche ciò che ripropone due differenti soggettività che in ogni caso tendono a individuarsi esponendosi a essere sospettate di individualismo. Peccato comunque inconfessabile proprio perché si articola più o meno sommessamente anche tra amiche. Un’eventualità comunque dolente, di un dolore che Lenuccia cerca di blandire perpetrando amaramente lo stare in bilico tra la propria individuazione e il proprio individualismo, mentre Lila finisce per sparire forse senza aver sciolto con se stessa l’equivoco o forse proprio perché l’ha sciolto. Contraddizioni e equivoci fatali più che ambivalenze che non cessano mai di creare smagliature nel plot di quello che è l’altro sterminato e incessante romanzo costituito dalla vita vera che il dispositivo Ferrante è stato in grado di raccontare, croce e delizia di un orizzonte mai soltanto frontale, se riguarda la scrittura e l’ambizione, due frangenti in cui quando sono le donne a voler fare da sole risultano, agli occhi degli altri, spesso imperdonabili.

I margini e il dettato racconta proprio l’impossibilità di districarsi tra vita e letteratura nonché il valore fluttuante dell’ambizione di essere una vera scrittrice. Ambizione che se da un lato, come il fuoco scalda e cuoce, dall’altro può divorare anche la consistenza di quel fenomeno occasionale che è il futuro testo al momento del suo insorgere incerto, quando potrebbe diventare qualcosa di inevitabile (Ferrante usa proprio questa parola) o esaurire, dimostrando al mondo quanto chi l’ha scritto sia di fatto trascurabile. Questo a secondo di una casualità non casualità, i cui contorni Ferrante, con questi suoi saggi disegna in modo indelebile.

Intanto questi dell’ultimo libro di Ferrante appunto sono saggi, è scrittura saggistica. Non erano saggi invece i testi raccolti nelle varie edizioni della Frantumaglia (2003 prima pubblicazione), erano perlopiù interviste, né lo erano gli articoli per il Guardian raccolti ne L’invenzione occasionale (2019). Tuttavia questa dell’ultimo libro è una saggistica pensata credo anche per essere detta. Non è un particolare da poco, come non è da poco l’ormai considerevole numero di corpi e voci femminili che hanno incarnato la parola di Elena Ferrante, cancellandone così definitivamente il legame con il presunto corpo la cui esistenza in vita dovrebbe aver generato l’opera. Corpo che invece nell’oralità è un elemento decisivo allorquando è soprattutto un corpo a proferire le proprie parole. Ma quello della funzione dei corpi femminili sostitutivi di Elena Ferrante richiederebbe un lavoro dedicato. Qui ne parlo in parte illustrando la performance del corpo mancante in Elena Ferrante nel recente e avvincente dialogo pubblico con Marina Abramović.

Più o meno negli anni in cui usciva L’amore molesto (1995) veniva pubblicato Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi, il primo saggio deI I margini e il dettato, La pena e la penna mi ha riportata a una parte del libro di Tabucchi che mi colpì molto e che credo di aver letto verso metà degli anni Novanta più o meno nello stesso periodo in cui stavo leggendo L’amore molesto.

Lèggiamo in Tabucchi che i primi médecins-philosophes Théodule Ribot e Pierre Janet erano medici e psicologi, ma anche filosofi che sostenevano la teoria della confederazione delle anime. Chi crede di essere ‘uno’, secondo questa teoria, uno che fa parte di un unico sè, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, si illude, peraltro ingenuamente di avere un’unica anima di tradizione cristiana, fa spiegare Tabucchi a uno dei personaggi del romanzo. La personalità è quindi una confederazione di varie anime, indipendente perciò dal sesso biologico, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone. Quella che viene chiamata la norma, o il nostro essere, o la normalità, è solo un risultato, non una premessa, e dipende dal controllo di un io egemone che si è imposto sulla confederazione delle nostre anime; nel caso che sorga un altro io, più forte e più potente, codesto io spodesta l’io egemone e ne prende il posto, passando a dirigere la coorte delle anime, meglio la confederazione, e la preminenza si mantiene fino a quando non viene spodestato a sua volta da un altro io egemone, per un attacco diretto o per una paziente erosione.

Attacchi diretti, pazienti erosioni, strategie consce a metà o per niente. Capirete bene che la coerenza, la costanza, la volontà sotto quest’ottica rappresentino una minuscola parte del tutto, mentre la contraddizione, la casualità, le ambivalenze, sono lo specchio che descrive per sommi capi il risultato di battaglie tanto invisibili, quanto verissime. Se ad esempio quegli spintoni con cui infieriscono vita, relazioni, casualità estreme Elena Ferrante li descrive come la prima forza che la spinge a scrivere, se quei traumi di cui parla Virginia Woolf sono ciò che hanno fatto di lei una scrittrice, la scrittura vera sembrerebbe essere il risultato di un’instabilità litigiosa e di un armistizio momentaneo inventato da chi scrive, ossia da quelle persone, molte e molti, che ciascuna, ciascuno di noi è scrivendo.

È potentemente letterario e estremamente evocativo il modo nel quale Ferrante suggerisce questa eventualità. Ci sono due ( o forse più?) scritture quella tra i margini del quaderno e quella smarginata, quella che non può o non vuole tenersi in riga. Le scritture di quei due io certo non definiscono anagraficamente, biologicamente, sessualmente (o forse sì?) chi scrive. Nessuno dei due io è da preferirsi, nessuno dei due è depositario del genio. Si invidiano, come Lila e Lenuccia, perché l’uno ha quello che l’altro non ha. L’una può prodursi in romanzi di buona confezione utili alla carriera, l’altra può smarginare nella trascendenza pura e contemporaneamente bruciare nel proprio incendio, rendendo la vita vera che cerca, lontanissima dalla scrittura vera che ha letto nei libri degli altri. Ferrante offre credo delle immagini profondamente oneste di queste eventualità così reali e rivelatrici la cui grana semplice è l’unico inganno, perché mente sulla stratificazione poderosa di un’esperienza di scrittura importante e complessa da testimoniare e trasmettere.

L’altra questione sollevata da I margini e il dettato su cui le studiose femministe di Elena Ferrante dovranno fare molta attenzione riguarda i riferimenti all’opera di Adriana Cavarero che Ferrante indica nel saggio Acquamarina tra quei lavori che hanno influito nella direzione presa dalla trama de L’amica geniale. In questo intervento Ferrante chiarisce anche in modo esplicito l’avvenuto passaggio originato dall’esperienza delle prime tre protagoniste Delia, Olga, Leda descritte come portatrici di un corpo sigillato. Sigillato perché si tratta di un ripiegamento sul proprio stesso dolore che ha significato l’isolamento per generazioni di donne producendo un’esperienza con poca speranza di essere trasmessa. Da qui il passaggio alla coppia di amiche che assume una funzione risaputa e importantissima fulcro di certa filosofia e delle pratiche dei femminismi da decenni. Ma che è stata portata all’attenzione di tutte e tutti grazie a Ferrante, come un elemento fondativo, centrale, che genera realtà plurali e precipue non più dovendo dare sporadica notizia di sé da un margine tanto defilato da non esistere in nessuna mappa.

Storie, io è il saggio che mi ha riportato a Elena Croce (parlo di Elena Ferrante in relazione a Elena Croce qui) proprio attraverso una citazione che Ferrante fa da Dostoevskij che riguarda quella vita vera evocata anche da Elena Greco nei primi tempi in cui esplora la reciprocità dell’amore con Nino. Scrivevo ne Il libro di tutti e di nessuno in merito a quella vicenda Cos’è il perimetro di una vita? In che relazione sta la misura di questo perimetro con l’impressione che si ha di vivere una vita vera? Il Dostoevskij che Ferrante cita parla di un insufficienza del genere umano che già ai suoi tempi si dimostrava secondo lui incapace di sopportare la fatica di una vita vera, preferendo un romanzo che metta tutti d’accordo nel rinunciare al lavoro troppo faticoso di vivere per davvero. Elena Croce scriveva sullo stesso avviso che in certi circoli elettivi si poteva generosamente consolare e esaltare la presenza di qualsiasi disgraziato, trattandolo come un pari, purché quella presenza diventasse docilmente personaggio di un immaginario della quotidianità che già si profilava più romanzesco che realistico. Un immaginario che lo prescindeva, e che lo accettava solo nel ruolo vacante di una storia inventata che certo non era la sua.

C’è molto quindi in questo ultimo libro di Ferrante, moltissimo che anche non ho detto qui, in merito all’attinenza del romanzo come forma letteraria più o meno adatta a dire la vita. Oppure a dire una realtà più viva di quella reale, mediando attraverso tutto un repertorio di trucchi che rende quelle e quelli che scrivono con ambizione o per mestiere a volte streghe, maghi altre niente e nessuno. Ciò dipende, secondo Ferrante, da quello che alla loro mano capita di pescare dal magico sacchetto delle parole, che appunto, come la borsa nera di don Achille in egual misura contiene materia viva e materia morta.

 

 

 


[1] Per chi volesse seguire la in diretta streaming sui profili social di Unibo (Facebook e Youtube); ERT/Teatro Fondazione (Facebook e Youtube); Teatro Arena del Sole (Facebook); Edizioni E/O (Facebook).

Si sta come d’autunno

L’autunno è arrivato decisamente portando con sé alcuni avvenimenti e temi su cui riflettere. È stato pubblicato il numero 120 de Il Segnale con i suoi quaranta anni di pubblicazione, senza interruzioni, della rivista. Sta in quel numero così importante l’articolo cui ho fatto riferimento qui la cui traccia è stata così stimolante per me che tuttora non smetto nel mio piccolo di interrogarmi su  quanto e come una scrittura possa davvero essere in grado di illustrare la realtà materiale e simbolica del vivente. Ammesso che sia questo l’obiettivo che si prefigga chi scrive, essendocene pure altri di rispettabilissimi.

È stata fissata per il 10 dicembre alle 17,30 alla Leopolda di Pisa una presentazione cui tengo moltissimo del Libro di tutti e di nessuno a cura della casa della donna  che quest’anno compie i trentuno anni di attività. Quella della casa della donna di Pisa è la biblioteca di genere più importante della Toscana. Poter condividere osservazioni e dialogare con il gruppo di lettura di quella biblioteca mi onora e mi riempie di responsabilità.

Alla fine di questa stessa settimana poi avranno luogo due eventi che sento importanti per me per molti motivi. Uno a Roma e uno a Napoli. A Roma venerdì avrò il piacere di partecipare fisicamente come direttivo SIL all’importante giornata di studio su Maria Occhipinti organizzata da Serena Todesco e Gisella Modica presso la Casa delle donne di Roma qui il programma. Maria Occhipinti (1921-1996) scrittrice, comunista, poi anarchica, antesignana del femminismo, pacifista, apolide per necessità, lega il suo destino ai fatti del “non si parte” scoppiati in Sicilia nel ’45 La giornata sarà trasmessa in streaming dalla pagina facebook della Casa internazionale delle donne di Roma. Dopo la giornata aquilana organizzata da Maristella Lippolis per SIL su Laudomia Bonanni questa su Maria Occhipinti è un’altra occasione di riemersione di un profilo di donna estremamente significativo ma profondamente frainteso e ingiustamente dimenticato.


Chi era Maria Occhipinti e i fatti del “non si parte” Sicilia ’45 

Era il 20 maggio 2020 e qui scrivevo  durante il lockdown di due letture folgoranti che avevo appena fatto: “Femminismi futuri” a cura di Lidia Curti con Marina Vitale e Antonia Anna Ferrante (Iacobelli 2019) e Donna Haraway da Not Nero Edizioni (2019): “Chtulucene, sopravvivere su un pianeta infetto”. Due volumi imprescindibili. Domani giovedì 4 novembre a Napoli, a partire dalle 10, presso Palazzo Du Mesnil – sede del Rettorato UniOr, Via Chiatamone 61/62, un importante evento ricorderà Lidia Curti, scomparsa recentemente, e il suo profilo di intellettuale profondissima. Qui il programma dell’iniziativa a cura di Silvana Carotenuto. L’evento sarà trasmesso in streaming sul canale YouTube del CSPG – Centro Studi Postcoloniali e di Genere. A questo evento potrò partecipare purtroppo solo a distanza con un contributo scritto e pensato come scrittrice e come direttivo SIL per rappresentare il quale sono stata chiamata a partecipare. Il testo nella sua integrità è il seguente, lo riporto qui perché in queste parole credo ci sia una  parte di quello che è rimasto della  presenza di Lidia Curti, profonda e attentissima, anche un poco nel mio lavoro maldestro e impulsivo.


Quello di cui brevemente vi vorrei parlare è un ricordo che si lega a due saggi per mezzo dei quali ho conosciuto il modo in cui Lidia sapeva occuparsi dell’altra. Non ho avuto il privilegio di conoscerla dal vivo ma appunto solo attraverso due contributi, letti in tempi diversi, che ho reputato entrambi fondamentali per il mio percorso di scrittrice. Una volta, però, durante il primo lockdown grazie a un evento online organizzato insieme a Anna Maria Curci dedicato a Femminismi futuri. Teorie poetiche e fabulazioni (Iacobelli 2019) (credo l’ultimo libro che Lidia ha fortemente voluto insieme a Silvana e Marina, e di cui è stata tra le curatrici) ho potuto ascoltarla parlare, con tutto il trasporto che sapeva la sua passione, di un libro davvero imprescindibile. O che per lo meno lo è stato per me, in quanto acquistato e letto in formato eBook durante il primo lockdown, fortemente voluto recensire (qui e qui) e presentare anche se a distanza, ricomprato e riletto in cartaceo. E conservato infine tra i testi fondativi, per l’ampiezza tentacolare e le policromie analitiche che custodisce, capaci in concreto di suggerire una possibile prospettiva postpandemica. Cosa stupefacente se si pensa che il libro è stato pubblicato pochi mesi prima che l’emergenza COVID deflagrasse.

La prima volta invece che ho ‘letto’ Lidia è stata in un saggio compreso in un altro di quei testi fondamentali e ineludibili per una studiosa dell’opera di Elena Ferrante Dell’ambivalenza. Dinamiche della narrazione in Elena Ferrante, Julia Otsuka e Goliarda Sapienza (Iacobelli, 2016). Lidia in quel libro, con un saggio intitolato Tra presenza e assenza, immediatamente successivo a quello introduttivo di Crispino /Vitale, già individuava i cardini critici su cui molte analisi di poi si sarebbero riferite a Ferrante  e alla favola novecentesca, che fu anche di Sapienza, come una sorta di altra faccia del secolo breve. Un volto cui fosse davvero impossibile attribuire un genere per via della presa di coscienza di un perturbamento di altro segno in cui il femminile si posiziona finalmente non da un concedersi ma da una decisa presa di parola su fatti privati e quindi politici dell’altra storia. Già allora l’ampiezza e il respiro della prosa critica di Lidia informavano di una prospettiva che non indicasse il ‘come’ ma la ‘libertà’ di guardare alla scrittura dell’altra inserendola nella vastità di un sapere che quando riguardava Lidia Curti, suggeriva e suggerisce profondità originalissime e ricche di inviti alla prosecuzione. 


Infine proprio l’altro ieri la notizia di una perdita incolmabile per il mondo degli studi germanici, della traduzione e della poesia con la scomparsa del professor Luigi Reitani, mi ha lasciato una  tristezza che non so ancora superare. La prima volta che ho incontrato Reitani era il 2014 a Verona nell’ambito del Premio Lorenzo Montano XXVIII edizione.  il Premio Speciale della Giuria “Opere Scelte – Regione Veneto”   gli fu conferito nello stesso anno  in cui io vinsi il Montano  per la silloge inedita con Piccole estensioni. Nel 2018 poi alla Fiera di Francoforte nella veste di direttore dell’istituto italiano di cultura di Berlino moderò un indimenticabile incontro dal titolo “Napoli. Promessa o degrado, la sfida alla società civile” che riguardava anche Neapolitanische Puppen: Ein Essay über die Welt von Elena Ferrante, con la  direttrice del Goethe-Institut Neapel Maria Carmen Morese. Di quella mattina nel recarci con la metropolitana dall’hotel alla fiera, non parlammo dell’evento che ci attendeva ma dei vhs che i primi volumi stile libero di Einaudi proponevano, in un prima che già allora sembrava preistoria, portando in libreria, alla portata di tutti, un certo modo di intendere il teatro come quello di Marco Paolini. Poi ricordo che zoppicava perché con la famiglia era da poco tornato dalla Puglia di cui era originario, dove aveva avuto occasione di lasciarsi prendere dalla frenesia della Pizzica. L’evento alla Fiera di Francoforte andò bene, non poteva essere altrimenti, Luigi Reitani era bravissimo anche in quello.

Maria carmen Morese, Luigi Reitani, Viviana Scarinci

Quando un libro è di tutti e di nessuno


Su I margini e il dettato

Aspettando La vita bugiarda degli adulti su Netflix


Emily Dickinson, Dante, Goethe e Elena Ferrante 

Quando i libri sono di tutti e di nessuno. Un quaderno di lavoro condiviso su Elena Ferranteecologia e femminismo

QUINTO e ultimo

Leggi qui il PRIMO , SECONDOTERZO e QUARTO

Al momento le ultime notizie che riguardano Elena Ferrante sono sul fronte dell’opera letteraria, si tratta di un altro importante riconoscimento. Sabato 9 ottobre a Elena Ferrante viene assegnato il Sunday Times Award for Literary Excellence. La consegna del premio ha avuto luogo durante un evento speciale del Cheltenham Literary Festival, uno dei festival letterari più importanti del Regno Unito. Il premio stavolta viene consegnato a Eva Ferri, a capo di Europa Editions UK ed Edizioni E/O. Per l’occasione Ferrante ha scritto anche in questo caso un discorso. Alla consegna è seguita una tavola rotonda che ha coinvolto la scrittrice, giornalista e critica letteraria Alex Clark, l’editrice Eva Ferri e la traduttrice Ann Goldstein. Tema: il privilegio di lavorare a stretto contatto con una delle più grandi scrittrici della nostra generazione.

Negli anni passati il Sunday Times Award for Literary Excellence è stato assegnato a autori e autrici di rilievo come Margaret Atwood, Ted Hughes, Ian McEwan, Kazuo Ishiguro. La vincitrice dell’edizione dello scorso anno è stata la scrittrice irlandese Edna O’Brien. Dal 1987 il premio viene consegnato a una autrice, a un autore la cui intera opera è ritenuta meritevole per il valore letterario e per l’impatto culturale. 

Ad oggi sono oltre 15 milioni le copie de L’amica geniale vendute in 45 lingue, in più di 50 paesi, e inizia a essere considerevole il numero di adattamenti dell’opera ferrantiana tra quelli di prossima uscita e quelli richiesti in TV, cinema e teatro. Su Netflix prossimamente potremo guardare La vita bugiarda degli adulti con la regia di Edoardo De Angelis e La figlia oscura con la regia di Maggie Gyllenhaal e febbraio 2022 sulla Rai la terza parte de L’amica geniale con la regia di Daniele Lucchetti. In questo momento Elena Ferrante è tra le italiane più note al mondo, sicuramente tra le scrittrici italiane viventi, la più nota, e lo è già da un lasso di tempo lungo che non si concluderà a breve. Insomma mi pare indiscutibile che l’Italia dovrebbe essere orgogliosa di Ferrante non dico come la nazionale di calcio campione d’Europa ma giù di lì.

A maggio del 2021 Leggendaria 147 pubblica un dialogo tra Silvana Carotenuto e me che considero tra le opportunità più importanti che mi siano state offerte in relazione al mio lavoro su Elena Ferrante. Il genio della lingua, e ciò che accade è il titolo del testo che Carotenuto ha dedicato a Il libro di tutti e di nessuno (il dialogo è stato pubblicato per esteso successivamente su Letterate Magazine). Come accademica specialista di studi di genere e postcoloniali Carotenuto tra le molte preziose riflessioni suggeriva una domanda che in questa parte finale del quaderno vorrei fare mia 

per il demone che interpreto, è qui in gioco l’ultimo e forse il più importante tratto della “differenza”. Se il presente ha sancito la capacità del “dispositivo Ferrante” di rappresentare l’individuazione comune al femminile che, in realtà, ancora oggi fa fatica ad accedere alla visibilità e alla dicibilità privata e pubblica (attirando a sé, letalmente, sempre più violenza e aggressività), si potrà mai rivendicare una “singolarità” che egualmente appartiene a una generazione di donne che non possono condividere in nessun modo i percorsi dei personaggi femminili di Ferrante?

Silvana Carotenuto

Questa è la domanda che simbolicamente vorrei lasciare aperta in relazione a un discorso a venire perché mi pare la più calzante per trascendere il rischio che il dispositivo Ferrante diventi un paradigma, con tutte le controindicazioni che ho illustrato nel capitolo quarto di questo quaderno. Carotenuto coglie al cuore la questione delle problematiche  che può sollevare l’acquisizione di un’importanza in qualche modo universalizzante dell’opera di Ferrante che è l’altra faccia, quella pericolosa, rispetto alla prima, così importante, relativa alla valorizzazione di quell’ecosistema letterario ( vedi il primo capitolo del quaderno ) che l’opera ferrantiana ha avuto il potere di promuovere. A Carotenuto rispondevo nell’ambito di quel dialogo, in modo sintetico e non esaustivo, a fronte della vastità della sua domanda, richiamando una confidenza di altro segno che è di alcune scrittrici e della poesia

Esiste un assoluto della scrittura femminile capace di immanenza e trascendenza, ed è quello che può e sa Lila, ma non lo leggiamo ne L’ amica geniale, ne abbiamo notizia solo dal rovello di Lenuccia che lo conosce, lo invidia, lo copia e lo comprende inarrivabile. È vero, quella di Ferrante non è una lingua confidente, come quella di Lispector, Bachmann, Ortese, Woolf, Morante. Non è una scrittura fiduciosa che lo scavo linguistico dentro l’indipendenza utopica di una scrittrice sia in grado di esercitare tutti i poteri, compreso quello di mutare le contraddizioni, le ossessioni, la paura e l’esproprio (tipici di una storia governata da un destino legato al genere cui appartengono Lila e Lenuccia) in quella forma di letteratura sublime e necessaria in cui, invece, alcune altre scrittrici hanno a ragione creduto.

L’enormità dell’opera di Ferrante sta anche nel fatto che questo sdoppiamento si vede, è trama, e lo rappresentano due personagge così eloquenti che nei Romanzi napoletani fanno tremare i polsi se le si legge inquadrate in quest’ottica. Si vede, perché Ferrante vuole che si veda: l’elitarismo è un fatto da cui non si salva nessuno, a meno che non sei Lila che si trincera nel proprio minuscolo non esistere e sparisce. Come non si salva nessuno, dalla costituzione di una cerchia magica, un collettivo elitario cui l’assoluto della soggettività è sacrificabile perché conta meno di tutto il resto. E questo avviene anche quando si tratta di consessi in cui si parla di anima come lo indica l’indimenticabile immagine tracciata da Elena Croce che ricordavo nella quarta parte di questo testo, in cui i festini collettivi dell’anima, suggeriscono più o meno lo stesso legame con un potere qualsiasi, che sta al centro di qualsiasi altro festino collettivo. 

Nessuno si salva dall’elitarismo tranne poche e pochi. Emily Dickinson si è salvata non a caso chiudendosi in una stanza per lo più a scrivere. E comunque bisognerebbe iniziare un altro quaderno per studiare cosa significhi, in questo senso, salvarsi o meno. 

Quello che invece qui interessa è lo spunto sul quale mi piacerebbe procedere oltre quanto sommariamente illustrato in questo quaderno riguardo proprio la suggestione lasciata dal Dialogo con Carotenuto. Per parafrasare maldestramente i plausibili timori di Carotenuto, bisognerà chiederselo se l’enormità del dispositivo Ferrante non possa finire per diventare un elemento potentissimo che sua volta rischi di colonizzare letterariamente e pragmaticamente i contesti e i contenuti che se ne occupano, e anche quelli che non lo riguardano, per la verità.   

Il 24 aprile scorso Robinson pubblica uno degli interventi scritti di Ferrante più lunghi di sempre. Si tratta di un saggio intitolato ‘Il nuovo alfabeto di Dante, le parole di Beatrice’ che sarà letto, qualche giorno dopo, il 29 aprile, da Tiziana de Rogatis, in occasione del Convegno Internazionale dell’Associazione degli Italianisti – ADI su ‘Dante e altri classici da Petrarca a Soyinka’. 

Nel testo rivolto in quell’occasione da Ferrante ai dantisti, l’autrice non parla di sé e dei suoi romanzi, come fino a allora le era stato spesso richiesto dalle occasioni, ma parla di Dante, di letteratura e in un certo qual modo della storia delle donne. 

Ferrante parlando di Dante ne illustra un percorso biografico e poetico in cui la figura di Beatrice si trasforma nell’immaginario del poeta. Forse, ciò accade, presume Ferrante nel momento in cui Dante mette in connessione la propria idealizzazione del femminile, con la condizione reale delle donne della sua epoca. Ferrante scrive forse si era accorto che il mondo delle donne non era solo quello immediatamente sotto i suoi occhi. E poi, più oltre, in riferimento alla mistica femminile Ferrante scrive anche di Luisa Muraro relativamente al Dio delle donne (2003). La scrittrice de L’amica geniale ipotizza un Dante che potrebbe aver assorbito nei suoi scritti l’esperienza delle beghine (uno dei saggi tra i molti importanti di Muraro, Le amiche di Dio (2014), è quello che ricostruisce la vicenda di Margherita Porete e la nascita e diffusione del beghinaggio, con la persecuzione delle beghine, come un caso strettamente politico oltre che storico) così da reinventarsi poeticamente la figura di Beatrice guardando alla donna studiosa e commentatrice delle Scritture.

Il saggio su Dante di Ferrante dice molto altro oltre quanto di cui sopra ma mi voglio soffermare per un attimo a questo meccanismo messo in luce dal pensiero di Ferrante in merito a Dante e proporre un’ipotesi di riflessione sul ruolo analogo (in riferimento ai vari  meccanismi creativi per così dire colonizzanti illustrati dalla stessa Ferrante) che un altro grande poeta può aver avuto, non nella trasformazione di una figura narrativa ma nella costruzione di una trama in virtù di un rovesciamento del paradigma di genere.

Mi riferisco al Goethe del Faust che Ferrante indica anche in esergo di tutta la tetralogia. Scrivo ne Il libro di tutti e di nessuno a questo proposito del rovesciamento al femminile da cui Ferrante può essersi fatta tentare colonizzando alcuni dei temi forti di quel virile monumento poetico che è il Faust. Così come, la stessa indica che Dante può aver assorbito dalla mistica femminile ciò che gli ha consentito tuttavia non di diventare Beatrice (che fu pur sempre nella realtà una donna morta giovane cui Dante forse non stava neanche tanto presente) ma di asservirne l’idea attraverso il nome, riproponendola letterariamente grazie ai temi della mistica femminile, dentro il personale disegno poetico che ha reso Dante padre indiscusso della nostra lingua senza madre 

A ben guardare i punti di contatto tra L’amica geniale e il Faust di Goethe vanno molto oltre l’esergo. Il demone Mefistofele viene a volte inteso come l’alter ego di Faust, le due figure femminili in qualche modo opposte e speculari presenti nella tragedia di Goethe, quella di Margherita e quella di Elena, evocano due vicende inter connesse con un destino inscindibilmente legato alla loro appartenenza di genere. Inoltre i temi faustiani dell’anelito, dello scontento sono quelli che animano platealmente l’agire di tutti i personaggi della saga ferrantiana in una sorta di coralità che rende evidente, proprio sotto l’egida bifronte del disordine evocato da questi sentimenti, il proprio motore originario. Infine l’archetipo della hybris, classicamente incarnato nell’uomo che non accetta i propri limiti cercando, con esiti alterni, di superarli, ne L’amica geniale diventa un tracciato ex novo che si focalizza in primo luogo sull’aspetto femminile della non accettazione del limite della propria condizione di genere che, come abbiamo visto, sfocia in un’altra possibilità data al significato di trascendenza.(V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020 p.209)

E’ qui che voglio interrompere questo quaderno con una riflessione preceduta da una premessa: la cultura è anche contaminazione, colonizzazione, a volte furto, serendipità, altre plagio inconscio e lapsus, le poete e i poeti lo sanno. Se non fosse così la cultura non sarebbe mai quello che invece a volte è: natura, riflesso della natura delle cose in sé, quadri falsi di verissime evidenze. Tuttavia, e proprio per questo, il femminile quando prende la parola attraverso una postura soggettiva in un’opera letteraria, perciò anche finzionale, spesso non ha avuto bisogno di rovesciare programmaticamente paradigmi. Pensiamo solo a come Elsa Morante ne La storia (1974) ha trattato la Storia, alla fluidità di quella visione altra, pur riferita all’universale di vicende terribili che hanno riguardato tutte e tutti.

Quando la leggiamo, non stride il sottofondo di un andamento programmatico nell’assenza del corpo con cui Emily Dickinson ha deciso di rispondere al mondo. La figlia del guantaio, l’enigmatica Elmina del Cardillo, non somiglia a qualcuna che si possa vedere in giro, eppure lei davvero è tutte nel momento in cui diciamo noi.  

Questo non toglie nulla a Elena Ferrante e all’enorme maestria che è individuabile nel meccanismo che ha animato questo dispositivo. Però, credo sia importante per le donne che oggi scrivono ricordarsi che quella scrittura confidente nel proprio ha saputo dirsi dal nulla, da una genealogia letteraria inesistente cui tante volte anche Ferrante si è riferita in merito all’urgenza di una ricostruzione e riconoscimento. E pur essendo proferita da pulpiti inesistenti, ha saputo arrivare fino a noi dicendo l’inaudito. Quella letteratura femminile è sorprendentemente accaduta attraverso enormi difficoltà materiali, attraverso le proprie multiformi soggettività e senza capovolgere strategie finzionali ma trovandosi a palesare a posteriori certe evidenze indicibili. È da quell’a posteriori, scrutando nella natura propria la natura delle cose, che alcune hanno finito per scrutare preoccupate il futuro di tutte e tutti decine e decine di anni prima che il mondo si accorgesse di loro.   

FINE

*l’immagine di copertina di questo articolo è di Michael Zajkov


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Elena Ferrante: l’istruzione, il linguaggio e le evidenze disturbanti

 

Quando i libri sono di tutti e di nessuno. Un quaderno di lavoro condiviso su Elena Ferranteecologia e femminismo

QUARTO

Leggi qui il PRIMO , SECONDO e TERZO

Come scrivo nella prima parte di questo quaderno citando Chiara Zamboni, un certo modo di scrivere ricalca uno stile che segue nel suo idearsi ciò che è evidente. Uno stile che risulta dalla non adesione a categorie, seppure nuove, ma mostra il composito, sottraendosi così a un discorso interpretativo che cerchi di ridurre a un ordine noto accadimenti disturbanti.  Il risultato è che quegli accadimenti, per così dire fuori dalle righe, diventano i veri protagonisti delle scene ritratte come accade in tutti i romanzi di Elena Ferrante.

Come premessa di questa quarta parte del quaderno vorrei tornare ancora a quanto ho affermato nella prima parte del mio discorso, parlando di un vero e proprio ecosistema la cui emersione non scontata, è stata promossa a mio avviso proprio da questo approccio al disturbante cui Ferrante si riferisce in molte occasioni. Ossia ciò che orienta le immagini create da chi scrive verso una relazione di tipo ecologico con la realtà intesa come evidenza. Questa evidenza disturbante che a volte non trova categorie nella grammatica e nel linguaggio standard, è ciò che può rendere letteratura e natura, forse non proprio gemelle (come ho scritto in un momento di cedimento al desiderio che fosse davvero così) ma almeno sorelle elettive, i cui rapporti comunque ambivalenti, come quelli tra Lila e Lenuccia, come quelli tra Giovanna e la zia Vittoria, sono la porta d’accesso che può rendere lo sguardo qualcosa che davvero vede.

Esprimendo la natura, noi partecipiamo del suo processo e lo accompagniamo nel suo fluire di forme (C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, Milano, Mimesis, 2020 p. 37) scrive Zamboni riferendosi non a caso a una scrittrice come Anna Maria Ortese che utilizzò per prima in Italia questa forma di espressività. Una scrittura dell’espressività quella di Ortese che solo in parte si lega allo stile, dove in altra misura questo processo di accompagnamento di lettrici e lettori dentro altri aspetti del visibile, è da intendersi come una prospettiva, una posizione del soggetto diversamente collocato e diversamente consapevole della propria postura. Parafrasando Zamboni siamo con questo a un percorso diverso da tutto ciò che è illustrabile da un paradigma interpretativo che non tenga conto che questo soggetto che scrive, è parte del contesto di cui parla e non solo ne partecipa, ma anche ne è influenzato e lo influenza a sua volta.

In Corpo celeste (1997) Ortese dava questa definizione della parola inquietudine sotto forma di istruzioni per l’uso in riferimento alla propria ricerca letteraria: ricercare senza tregua il nome che avevi, e il nome del Luogo in sé. Ciò che è inquietudine, disturbo, discrepanza quando si parla di paradigmi che siano linguistici, interpretativi, ideologici, performativi già denuncia l’insufficienza illustrativa del concetto di paradigma. Per inciso qui voglio riportare solo uno dei parziali significati della parola paradigma nel caso in cui si tratti di quello grammaticale: “si usa per indicare i modelli di declinazione o di coniugazione dati dai manuali di studio” dove in tutta evidenza chi scrive e ha scritto i manuali è da intendersi come unico depositario del Verbo.

Come facciamo a non chiederci se non sia proprio il concetto di paradigma, un contesto in cui quel processo naturale che la scrittura agisce di concerto ai tempi e ai quadri che l’evidenza illustra, ciò che non può prevedere tutti soggetti che ne fanno parte e lo influenzano con le loro differenze esorbitanti e stranianti. E che tutto quanto non sia previsto, visto, o sia ignorato da un paradigma che si vuole esaustivo in termini di definizioni, possa rendersi visibile dentro un ecosistema che non nasca necessariamente da uno scarto, che non sia fondato da questa o da quella ideologia ma al contrario è qualcosa che c’era da prima, che stava nella natura, e aveva nomi propri inusitati viventi in un Luogo in sé che sta a un paradigma come il mare sta alla plastica

Ma se appena sto calma, ecco, anche questi sentieri sono l’essere stesso, materno e paterno; sono la pace. Mi sento figlia di chi non vedo. Ma non sempre sono calma. L’inquietudine è questo: ricercare senza tregua, il nome che avevi, e il nome del Luogo in sé. Un paese senza nome: l’uomo – e tutto il vasto universo – è questo. È anche terra di occupazione, perché manca di identità. In questo vuoto (di identità) precipita tutto ciò che strazia la Terra: violenza, corruzione, menzogna, arbitrio. Ritrovare l’identità, dunque – o cercarla: subito l’occupazione si fa impossibile. (A.M. Ortese, Corpo Celeste, Milano, Adelphi, 1997, p 115)

La città, la cittadinanza come e cosa può avere a che fare con l’illustrazione di quel Luogo in sé che non è solo nostro, pubblico o privato, amoroso, mediatico, agonistico, politico, relazionale, lavorativo, familiare, affettivo? È vero che non costituisce più un problema soprattutto per la reale condizione delle donne la distanza che metteva lo scrivere di una mano dentro un luogo privato e il corpo femminile corrispondente in una socialità separata? Quanta vera scrittura si smarrisce ancora dentro il baratro schiuso dalla difficoltà di colmare questa distanza? Io personalmente credo che le pagine più importanti scritte da Ferrante al momento che ha scenarizzato l’evidenza di quanto sia disturbante il quadro che questa domanda pone, siano quelle più profondamente letterarie e in un certo senso umanistiche che il dispositivo Ferrante ha prodotto in quasi trent’anni.

Torniamo alla terza parte del quaderno, quella che indicavo come uno tra i principali interessi miei nell’opera di Ferrante, ossia l’illustrazione immaginaria e possibile di come le italiane fossero entrate a far parte di un concetto più o meno agibile di cittadinanza, al momento di un confronto del tutto pragmatico con il lascito della storia, della politica e della lingua in cui questa storia e questa politica si sono configurate e cristallizzate in un percorso istituzionale. Ferrante fa un’osservazione perfettamente calzante a quello che illustra nelle vicende inventate dai Romanzi napoletani in merito all’istruzione o meglio, alla storia delle nostre istituzioni scolastiche:

Lo studio è stato soprattutto sentito come essenziale nella mobilità sociale. Nell’Italia del secondo dopoguerra l’istruzione ha cementato vecchie gerarchie ma anche avviato una discreta cooptazione dei meritevoli […] Insomma c’è stata un’ideologia dell’istruzione che oggi non funziona più. Il suo cedimento è stato evidente: i laureati allo sbando testimoniano drammaticamente che la crisi ormai lunga della legittimazione delle gerarchie sociali sulla base dei titoli di studio è giunta a compimento […] Mentre Lena insomma è il tormentato punto di arrivo di un vecchio sistema, Lila ne mette in scena con tutta la sua persona la crisi e in un certo senso un possibile futuro (E. Ferrante, La frantumaglia, Roma, edizioni e/o, 2016, pp. 360-361)

Le due amiche dei Romanzi napoletani sognano fin da piccole di diventare scrittrici. La scrittura di Elena entra in quel Luogo in sé fatto di mondo, le vicende di come questo avviene, emergono dall’immane flusso di coscienza dell’antica bambina che diventa autrice. La scrittura di Lila rimane separata dal suo corpo (La fata blu, i diari, le lettere sono un fatto privato) finché diventa un documento sindacale ma ciò accade nel momento in cui, quasi contemporaneamente, il suo corpo si ammala. L’ideologia dell’istruzione pure nell’opera di Ferrante agisce in modo ambivalente, se da una parte cementa vecchie gerarchie dall’altra copta i meritevoli e con ciò agisce in modo incalcolabile su una nascente identità civile delle italiane

Un’identità civile e femminile di cui, anche in questo caso, Ferrante illustra narrativamente una visione duplice: quella di Lila, cui non sarà possibile accedere a un’istruzione superiore ma che è portatrice di un’identità declinata al femminile che “smargina” secondo un pragmatismo scomposto ma irriducibile verso la propria autodeterminazione. E quella di Elena che compie il suo percorso educativo e perciò tenta di definire se stessa entro i parametri rigidi di una sfera pubblica, risentendo, anche in altri ambiti, di una sanguinosa lotta intestina tra la propria lingua madre, intesa come dialetto, e l’acquisizione di un italiano standardizzato; con tutto ciò che comporta a livello psicologico un uso della lingua sempre più esclusivista e connotata retoricamente. (V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020 p. 58)

Io che ho scritto e pubblicato queste parole e che resto una ferrantiana convinta nonostante tutto, alla luce di quanto di cui sopra, come faccio a non sentirmi inquieta di fronte al cortese e circostanziato richiamo della Crusca all’utilizzo di un italiano standard e ortodosso, fatto di strutture grammaticali, illustrate dai manuali, le quali rientrano in paradigmi richiamanti all’universalità del maschile? Per di più rispettando scrupolosamente i quali, opere come ad esempio il Porto di Toledo (1975) non sarebbero mai esistite. E molte gigantesche opere poetiche non sarebbero mai esistite. E niente sarebbe mai esistito di certa letteratura che si basa sull’evidenza di una realtà che si avvale di un’inventiva sfrenata soprattutto legata alla nomina di luoghi e di creature. Esseri cui la letteratura da sempre ha dato vita intendendo con ciò che non fossero metafore o similitudini riferite a qualcosa di noto, ma ritratti, canti, ricami, lallazioni che pur con stili complessi, vogliono riferirsi all’evidenza per quella che è.

Chi abbia un po’ di familiarità con l’opera di Anna Maria Ortese e con alcuni particolari biografici che si legano alle diverse vicende editoriali relative alla pubblicazione dei libri di questa grande scrittrice italiana, forse ricorderà l’annosa polemica che suscitò Il mare non bagna Napoli (1953), libro cui Ferrante si riferisce a più riprese ricordando come alcuni di quei racconti abbiano avuto un legame importante con la genesi dei Romanzi Napoletani. La polemica nacque dalla decisione che venne presa dalla casa editrice di Ortese in accordo con l’autrice, relativamente al racconto Il silenzio della ragione di mantenere i nomi veri dei personaggi maschili, amici dell’autrice. Persone per descrivere le quali nel racconto Ortese usava spesso un noi sodale ma anche nello stesso momento rilevando dolorose distanze contenute appena dai confini di quel noi. Il silenzio della ragione è un racconto che illustra una parabola esistenziale e politica decadente molto connotata ideologicamente. La illustra in termini non edificanti, immaginosi e iperrealisti che recano a quel racconto un’atmosfera molto particolare che sembra scavalcare gli anni, i generi e le ideologie

Si determinò una situazione assurda, in cui il vecchio rivoluzionario, seduto al centro della reazione, e chiamati a raccolta funzionari e ribelli, si mise a insultare tutti, e quelli abbassavano la testa e piangevano. Comunisti o liberali, eravamo pur sempre comunisti e liberali di Napoli, e lo amavamo troppo per non vedere nei suoi insulti la furia e la malinconia del mare. Inoltre tarati, deboli eravamo tutti. Egli ci diceva i nostri vizi, uno per uno, le nostre piaghe. Quello si era suicidato, questo stava per farlo, quello rubava, questo era derubato. Egli era veramente come la nostra terra, la nostra madre comune, la città che avevamo voluto vincere, e ci ricordava le nostre debolezze e vergogne, affinché mai più osassimo levarci contro di lei. Egli era questo, ed era anche il figlio di lei, di questa terra, che così facendo rinunciava per sempre a se stesso. (A.M. Ortese, Il mare non bagna Napoli, Milano, 1998, p.120)

Questo quadro letterario è un esempio di come la scrittura possa testimoniare, comprendendoli, gli antipodi di una conoscenza originaria di quel Luogo di per sé che è il mondo. Un mondo che Ortese condivideva con persone vere che costituivano anche in parte i suoi affetti. Un mondo in cui la scrittura della giovane Anna Maria negandosi a un’ottica condivisa, non di meno ambiva a prendere parte. Tuttavia superato un primo momento fatto di riconoscimenti, Il mare non bagna Napoli è costato alla nostra grandissima italiana una sorta di subdola damnatio memoriae.  E un’inversione di marcia in merito alla scelta dei temi relativi ai romanzi successivi nei quali Ortese avrebbe impegnata, tenendosi lontana dai nomi propri di luoghi e persone, la stessa immaginazione amara e lucida.

Anna Maria Ortese e la redazione di SUD

Non che Ortese sia stata propriamente dimenticata, ma a lato del Barone rampante (1957) chi è che davvero studia altri romanzi che sembrano favole ma non lo sono, come Il cardillo addolorato (1993) o Alonso e i visionari (1996)? La lettura di questi proprio oggi a scuola dimostrerebbe quanto Ortese si fosse mossa con un anticipo davvero inconcepibile rispetto ai suoi contemporanei, soprattutto nel sentimento della natura. L’opera di Ortese insegna che la natura delle cose può essere vista anche procedendo per quadri, per testimonianze che sono diversamente vere perché dicono quanto l’evidenza di quello che consideriamo contemporaneo al tempo percepito, sia invece troppo mobile e ambivalente perché l’assertività ci rassicuri almeno un poco in merito ai nostri valori di sempre.

Nel 2020 viene pubblicato da Garzanti un libro di Annamaria Guadagni che si intitola La leggenda di Elena Ferrante. Il testo si avvale della lunga esperienza di giornalista culturale dell’autrice che intona alcuni aspetti che riguardano le città ferrantiane, su tutte Napoli ma anche Pisa,  a un più vasto contro canto che individua analogie e spunti di riflessioni interessanti, come quello che Guadagni fa emergere dagli indizi secondo i quali la scelta del nome Elena Ferrante da parte di qualcuno che abbia deciso di non adottare il proprio scrivendo, possa esprimere una qualche connessione in termini di analogie culturali con le vicende biografiche e letterarie legate Elena Croce.

Per apprendere i motivi che hanno portato Guadagni a dedicare molte pagine a questo interessante e fondato punto di vista, consiglio la lettura del suo bel libro. Dal canto mio sono venuta a conoscenza di qualcosa che poteva concernere le due Elena da uno strano video amatoriale che circolava anni fa su YouTube e sembrava ripreso dal salotto di una persona che attraverso un cellulare filmasse la televisione. La televisione in questione trasmetteva uno spezzone connesso al premio Strega dell’anno in cui Elena Ferrante fu candidata da Roberto Saviano, in cui Carlo Lucarelli con la sua enfasi da detective, rivelava che Elena Croce, figlia di Benedetto, in alcune circostanze si fosse firmata Elena Ferrante. Guadagni, se la leggete, vi spiegherà in modo opportuno e suggestivo tutte le possibili connessioni storiche, bibliografiche e culturali per cui la cosa sembra essere vera.

Personalmente non ho fatto ricerche in questo senso però ho letto l’irresistibile Snobismo liberale di Elena Croce, subito dopo quella singolare affabulazione televisiva per di più piratata. Ciò non di meno quel libro mi è servito molto per capire la prospettiva che Ferrante ha usato costruendo una delle sue immagini più sagaci, quella in cui la famiglia Airota e la famiglia Greco vanno a nozze. Ferrante mandando a nozze due genealogie riconoscibilissime è come se indicasse che in quelle nozze si ripetano rituali sempiterni, mossi da una costante ineludibile  

Con la comparsa della famiglia Airota infatti Elena capisce che la disparità in ambito sociale non nasce dal valore oggettivo di ciò che si è in grado di produrre ma dal contesto da cui si proviene e dalla capacità di assorbire, facendoli scrupolosamente propri, sia gli ordinamenti gerarchici sia i codici e i linguaggi emergenti che in quella fase miravano a infrangere quegli stessi codici, come se l’infrazione riaffermasse il valore della regola: «Eravamo insomma dalla parte dell’infrazione, ma solo perché si riaffermasse il valore della regola» (V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020 p.34)

Una costante ineludibile come se appena ieri a nozze fossero andati i così detti populisti e i così detti radical chic. E ai tempi della scomunica di Ortese, che erano gli stessi in cui Lila e Lenuccia iniziavano a capire, le nozze che sarebbero naufragate, fossero state appunto quelle tra comunisti e liberali

In quest’ottica, sdoppiata e riunificata, lo scontro tra l’individuo “migliore” – in quanto di formazione umanista e classica nel suo affrontare le sfide del presente – e l’individuo che non si accetta “peggiore” – perché si percepisce contemporaneo nel rigettare la conoscenza di una stratificazione omologata della propria matrice culturale – diventano un dato. Un dato importante che, espresso dal matrimonio e dalla separazione nelle due famiglie dei Greco e degli Airota, diventa ancora più significativo in quanto capace di andare oltre l’economia narrativa di quella porzione specifica di racconto. (V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020 p. 43)

Elena Croce focalizza il momento in cui l’immaginario collettivo si cristallizzava intorno al concetto di élite. La cosa sorprendente è che esponendo questa focalizzazione da un punto di vista femminile, Croce racconta di come l’elaborazione di questo concetto abbia avuto luogo non tanto in ambiti politici, non solo per questioni legate al quantitativo di denaro che all’inizio del secolo scorso le famiglie italiane di ogni ceto sociale avevano nella loro disponibilità. Croce afferma che il concetto di élite è una elaborazione culturale femminile e lo circostanzia ancora una volta in un modo in cui sono annullati in un colpo solo il tempo, lo spazio, e le parole di chi scrive diventano, quelle sì, davvero universali ma di un’universalità di cui possiamo fidarci

E sin dalle origini queste grandi personalità femminili, che pure erano vere ispiratrici di uomini geniali, avevano dato l’esempio di un nuovo stile, aristocratico-rivoluzionario, che nel romanticismo più tardi si sarebbe poi cristallizzato nella formula delle élite: l’intimità mondana, i festini collettivi dell’anima, le meravigliose artificiali società di esseri sublimi dove il genio è parificato alla bellezza, e si crea un superiore rango, con l’inevitabile conseguenza di una volontà di potere tanto più feroce perché si tratta di “anima”, e con gli inevitabili compromessi e degradazioni snobistiche. (E. Croce, Lo snobismo liberale, Milano, Adelphi, 1990 p. 11)

Elena Croce

Quanto del concetto di élite e di potere formulato da Elena Croce si può dire superato? Per dirlo superato bisognerebbe essere così onesti da frugare nei cassetti in cui custodiamo la nostra idea culturale di bellezza, di piacere, di desiderio come se fossero gioielli di famiglia. Qualora quel sentimento così pervasivo che genera desideri falsi e veri per noi non avesse origine da ciò che Elena Croce disegna in modo così acuto nel momento della sua genesi, comunque dobbiamo convenire sul fatto che quel sentire culturale ci ha alimentato alla radice. Ammesso che ce ne volessimo affrancare, pure il miraggio di quel sentimento elitario così pervicace nomina un Ortesiano Luogo in sé. Un luogo fatto tanto delle costruzioni culturali abbaglianti attraverso le quali regna la famiglia Airota, tanto degli atavismi che rendono la famiglia Greco capace di generare una Elena così incastrata tra due mondi, ritratta nel momento in cui capisce che ci sarebbe la possibilità di partecipare a entrambi. Diversamente dall’inquieta Lila che ricerca senza tregua il nome che aveva all’inizio di tutto, lasciando prima di sparire, il mondo alla sua topografia contorta, e il cassetto dei desideri falsi e veri ben chiuso.   

Continua

*l’immagine di copertina di questo articolo è di Ivy Haldeman


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Elena Ferrante una genealogia plurale femminile per le italiane

Quando i libri sono di tutti e di nessuno. Un quaderno di lavoro condiviso su Elena Ferranteecologia e femminismo

TERZO

Leggi qui il PRIMO e il SECONDO

Il 24 settembre scorso il sito dell’Accademia della Crusca pubblica un articolo intitolato Un asterisco sul genere che avrà una notevole risonanza mediatica al punto che verrà ripreso da molti quotidiani. La maggior parte dei quali, come La Repubblica, sintetizzeranno il lungo articolo come un consiglio da parte della Crusca in questi termini: schwa e asterisco? Meglio il maschile plurale (vedi qui una buona spiegazione su tutto ciò che riguarda la genesi e l’utilizzo del simbolo della schwa).

Paolo D’Achille che scrive per il sito della prestigiosa Accademia, indica quanto sia confortante che i molti quesiti che hanno motivato la presa di posizione della Crusca fossero stati formulati secondo gli scopi più nobili, sdoganando la questione e inserendola in un’universalità per così dire finalmente comprensiva e umanamente disponibile. A patto però che certe  ideologie non pretendano di forzare gli usi istituzionali e standardizzati che si insegnano e si apprendono a scuola:

come sono stati formulati i quesiti, documenta una larga diffusione di atteggiamenti di civiltà, di comprensione, di disponibilità. È senz’altro giusto, e anzi lodevole, quando parliamo o scriviamo, prestare attenzione alle scelte linguistiche relative al genere, evitando ogni forma di sessismo linguistico. Ma non dobbiamo cercare o pretendere di forzare la lingua – almeno nei suoi usi istituzionali, quelli propri dello standard che si insegna e si apprende a scuola – al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire.

Colpisce che praticamente nello stesso periodo in cui la Crusca promulga il suo consiglio, cioè meno di un mese fa, imperversava e imperversa nell’ambito del  panorama internazionale la scrittura sessuata (ma senza corpo) dell’italiana Elena Ferrante, attraverso discorsi per il ritiro di premi, dialoghi via email con importanti artiste di fama mondiale, film e serie tv di respiro internazionale. Al centro di ognuna di queste recentissime relazioni che Ferrante stabilisce tra la sua invisibilità e il mondo, come abbiamo visto, la mancanza del corpo femminile che si registra come autrice/marchio di produzione, è un fattore simbolico e mediatico determinante per il funzionamento in termini di comunicazione di ogni operazione creativa e commerciale collegata al dispositivo Ferrante.

L’addensarsi dell’attenzione intorno all’utilizzo non sessista della lingua italiana colpisce anche per come la Crusca articola le sue motivazioni, rendendole con ciò di largo consumo mediatico. L’Accademia privilegia cioè, come è di sua competenza, l’ortodossia grammaticale dell’italiano standard, ponendosi però in relazione a quesiti che testimoniano istanze contemporanee tra le più cocenti e lo fa riferendosi esplicitamente a un posizionamento consigliato a istituzioni come la scuola.

In un contesto in ogni caso così densamente orientato a porsi il problema dell’utilizzo non sessista della lingua italiana, praticamente negli stessi giorni, viene pubblicato da Iacobelli in versione  eBook Il primo Quaderno del Centro di documentazione internazionale Alma Sabatini (autrici: Edda Billi, fondatrice e prima presidente del Centro, Maria Rosa Cutrufelli, attuale presidente del Centro, Alessandra Pigliaru, Bianca Pomeranzi, Giulia Caminito, Laura Fortini e Sara De Simone) che ha come filo conduttore la domanda Dove batte la lingua oggi? L’ebook racconta una storia anche per così dire istituzionale più specifica e puntuale relativa all’Italia e all’italiano in cui la figura di Alma Sabatini viene analizzata a partire, come scrive Alessandra Pigliaru, dalla  “sua impresa più nota ovvero Il sessismo della lingua italiana. Edito per iniziativa della presidenza del Consiglio dei ministri e della Commissione nazionale della parità tra uomo e donna, è il 1987 quando fa la sua comparsa sulla scena pubblica”. Si veda tra l’altro l’articolo di Laura Fortini in cui viene riportato il saggio incluso nel primo Quaderno del Centro di documentazione internazionale Alma Sabatini di cui è autrice la stessa, che spiega come siano molte le accademie che in questi ultimi anni hanno varato o stanno discutendo su regolamenti e indicazioni di comportamento linguistico.

A indicare anche la risonanza mediatica oltre che politica di istanze linguistiche legate alla discriminazione di genere e al sessismo insito nella lingua scritta e parlata c’è anche la felice notizia del mese di maggio di quest’anno che riguarda la modifica da parte dell’Enciclopedia Treccani della voce relativa alla definizione della parola donna. La modifica è stata resa effettiva in risposta a una lettera aperta pubblicata il marzo precedente da La Repubblica che vedeva tra le firmatarie anche Elvira Federici per il direttivo della Società Italiana delle Letterate, in cui si chiedeva di eliminare i riferimenti sessisti che compaiono nel sinonimo della parola “donna” della versione online del vocabolario Treccani.

Un libro che per me è stato particolarmente significativo quando decisi di organizzare i materiali che desideravo includere nell’edizione italiana de Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo fu sicuramente  Il mondo è sessuato di Geneviève Fraisse (Nottetempo, 2019  edito in Francia nel 2016 con il titolo La sexuation du monde: Réflexions sur l’émancipation) che mi ritrovai in mano in modo del tutto fortuito una mattina che curiosavo tra i molto politicamente eterogenei volumi che la storica libreria Minerva di Piazza Fiume a Roma mette in vetrina.

Mi è stato subito chiaro perché Geneviève Fraisse poteva interessarmi per articolare un punto di vista prettamente civile e italiano su Elena Ferrante e sul linguaggio da lei usato. La lettura di Fraisse infatti mi ha offerto parallelamente un punto di vista molto ben articolato, rispetto al possibile legame che sussiste tra la fondazione di una democrazia e il percorso di inclusione delle donne nella vita pubblica  del loro Paese.

Già nell’ambito del convegno che ha avuto luogo presso l’Università di Lipsia nel mese di novembre del 2019, intitolato Elena Ferrante: genealogia e archeologia del XX secolo mi ero trovata a lavorare, nella relazione che mi competeva, su una domanda credo tra le più importanti rispetto a quelle che si debba porre una studiosa di Elena Ferrante: in che modo l’opera di Ferrante è connaturata all’archeologia e alla genealogia del XX secolo? E più precisamente secondo il mio sentire: avvalendosi di quale linguaggio, di quali temi, di quali storie quella scrittura osata da Ferrante è di fatto riuscita a rendersi interprete di una genealogia e di una archeologia mancante quando si tratta di raccontare la storia delle italiane non illustri? Quale linguaggio, quali i tempi, quali sono i riferimenti di Elena Ferrante che hanno potuto rendere il particolare della marginalità femminile e sociale Italiana, così profondamente dialogante con tutto l’altro da sé, cioè tutto quel pubblico universale che si è raccolto con la sua attenzione intorno all’opera di Ferrante?

È continuando a ragionare su questo che mi è parso di rintracciare un legame tra ciò che Fraisse coglie in alcuni aspetti della storia del suo Paese, la Francia, (in cui la rivoluzione ha giocato un ruolo tanto importante quanto controverso) tra l’istituzione della repubblica e l’inclusione delle donne nel concetto di cittadinanza, e quello che diversamente potesse essere stato lo stesso processo che con esiti diseguali, e in tempi diversi, avevano intrapreso le italiane. Quanto l’opera di Ferrante ha attinto dalle politiche dei movimenti femministi italiani? Quanto costituisce una denuncia volta all’irresponsabilità che per lungo tempo il canone letterario vigente ha agito verso la possibile emersione, e perciò verso la compilazione di studi adeguati, rivolti al riconoscimento del lavoro di scrittura delle italiane?

Come riporta sinteticamente Annarosa Buttarelli nella prefazione del libro di Fraisse (p. 7- 12) il risultato dell’analisi che l’autrice compie mette in luce un aspetto su cui a monte bisognerebbe riflettere di più parlando dell’importanza storica e sociale del movimento #MeToo come movimento globale: attraverso la protesta di un corpo femminile individuale si è attuata per la prima volta da quando si parla di globalizzazione, la rivolta di un corpo femminile collettivo. E questo non è avvenuto in un contesto di nicchia, non riguarda una qualche questione che può essere liquidata come ideologica ma risulta come un fenomeno illustrato dalla realtà dei fatti. A proposito del corpo femminile collettivo come vittima materiale e simbolica in un capitolo intitolato La scrittura di Ferrante e #MeToo Tiziana de Rogatis scrive

In questo scenario, la scrittura di Ferrante ha proposto all’immaginario internazionale un’etica femminile della sopravvivenza, che è anche una risposta indiretta al tentativo di ridurre #MeToo a un movimento vittimista. Nella quadrilogia, sopravvivere significa includere l’eredità subalterna delle antenate nel presente emancipato delle figlie, far convergere la corrente violenta del matricidio nel riconoscimento della madre e della sua genealogia, rielaborare il retaggio del dominio sulle donne attraverso un modello controverso ma solido di amicizia, fondare una nuova capacità assertiva e creativa proprio sulle inevitabili fragilità e contraddizioni della vittima (T. de Rogatis, Elena Ferrante. Parole chiave, Roma, edizioni e/o, 2018 p.17-18) 

È una rivolta, quella del corpo femminile globale, che ha determinato una fuoriuscita dal margine di quei saperi raccolti dall’esperienza del corpo femminile e con ciò ha reso possibile il profilarsi di un’azione di protesta diffusa e socialmente accettata che però è partita da una rottura. Ovvero da una presa di posizione che ha potuto avere luogo solo da una scelta consapevole in merito alla necessità politica di una mancanza di ortodossia rispetto alla conformità nell’ambito di pratiche accettate, per quella che è una percezione del corpo della donna avallata anche in contesti geografici e socio economici insospettabili e molto diversi tra loro.

Personalmente quello che del pensiero di Fraisse mi è soprattutto interessato è la descrizione di una origine storica del baratro che separa il corpo femminile individuale con la sua singolarità e la sua condizione precipua e irripetibile e il corpo femminile collettivo che risiede nell’immaginario di donne e uomini, nelle politiche di alcune ideologie, ma anche e soprattutto nella lingua parlata e nella lingua scritta, di cui organi illustri come l’Accademia della Crusca e l’Istituto Treccani sono riconosciuti tra i principali custodi in Italia.

Fraisse illustra già a partire dalle prime pagine del suo libro il percorso culturale di un corpo femminile in un contesto che inizia a considerarlo nella parzialità di ruoli attribuiti alle singole individualità, come quello di donna artista, scrittrice, giornalista, donna alto borghese, riconosciuti nel corso della storia francese. Questo riconoscimento appannaggio solo di alcune condizioni femminili crea un’ulteriore disparità, che in Francia ad esempio ha preso un corpo evidente con la rivoluzione. Ma non ha un motivo solo storico, un motivo che riguardi l’economia, la politica e la cultura dei singoli Paesi, è qualcosa che nasce da una condizione femminile globale subalterna molto prima che la globalità potesse essere concepita e essere definita da linguaggi totalmente all’oscuro di quella condizione, proprio perché è una condizione materiale estranea al modo in cui si sono composte e studiate le categorie del pensiero e del linguaggio universale.

In altre parole questa rassicurazione è ciò che il linguaggio vigente, cioè plurale e maschile, ci ha da sempre rifilato in merito all’esperienza di quelle singole, come riconoscimento del fatto generale che la loro scrittura, la loro arte, la loro industria, le loro politiche, le loro bellezze, la loro indipendenza potessero soddisfare l’idea dell’emancipazione di un intero genere. Questa credenza è potuta entrare nel senso comune perché non è accaduto quasi mai che diverse definizioni e analisi avessero impegnato il genio linguistico e tutelare di chi poteva essere interessato nei secoli da questa responsabilità.

Sono stati certamente tanti ma non ce ne sono stati tramandati molti, i lavori di donne impegnate nell’atto di guardare realmente alla condizione senza linguaggio in cui i corpi femminili, e tutti i corpi mancanti all’appello della realtà di un linguaggio condiviso, risultano come vittime di una subalternità invincibile. 

Oggi alcuni di questi lavori sono stati tratti in salvo dall’indifferenza, dalla furia censoria, dalla derisione, dall’albagia di alcune analisi totalmente estranee alla materia cui si riferiscono, e stanno a indicare come siano soprattutto i corpi mancanti all’appello del catalogatore volto all’ortodossia, e perciò al controllo, quelle e quelli che hanno visto il loro destino determinarsi nel bene e nel male per via, a causa e in conseguenza del loro essere solo corpi senza lingua, spesso in odore di vittimismo per via delle loro lacrime, dei loro silenzi, dei loro balbettii.       

immagine di Christine Wang

Dal punto di vista storico l’idea che il percorso di una sola persona fuori dal comune, scrive Fraisse, testimoniasse il riconoscimento del progresso per tutte, ha prevalso. Del resto sta nel concetto stesso di democrazia una possibile trappola che fa incorrere in questo fraintendimento: “In democrazia, l’eccezione può diventare la regola; in democrazia si sottolinea la similitudine di tutti piuttosto che le differenze categoriali; in democrazia la totalità degli esseri è teoricamente implicita (…) Ma “ognuna” è anche la persona che è solo l’”uno” singolare, senza l’obbligo di riconoscersi nella molteplicità del collettivo, mentre attinge allo stesso tempo, all’interno di questo collettivo, la possibilità di essere quell”uno” singolare” (p. 15-22).

L’assunto del libro di Fraisse è che la storia è sessuata perché la sessuazione di tutto è un fatto: “Non il fatto di una definizione della differenza sessuale, non il fatto di una categoria antropologica come la differenza dei sessi ma il fatto di una realtà politica semplice: i sessi fanno la storia.”

A chiusura del libro di Fraisse, non a caso c’è una postfazione di Luisa Muraro in cui la studiosa italiana sottolinea in modo diretto e esplicito che nei moltissimi contesti storici in cui le donne compaiono eccezionalmente o marginalmente, ciò si deve alla selezione e alla lettura dei documenti storici: “selezione e lettura che sono fatte in vista di quello che risulta memorabile e degno di essere trasmesso alle nuove generazioni”.

È con questa considerazione in riferimento a Fraisse e Muraro che o scelto di aprire Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo con il capitolo Perché il romanzo di Ferrante è politico? Infatti ho voluto ricalcare il tracciato disegnato da queste due studiose per indicare quanto sia prezioso il desiderio che l’opera di Elena Ferrante ha universalmente suscitato. Cioè quello di ricostruire tutti quegli aspetti non sufficientemente considerati, rintracciabili tra le pieghe della storia universale e della filosofia classica europea e di quella contemporanea femminista. Solo così si può comprendere meglio la difficoltà di passaggi decisivi in cui la storia delle donne ha spesso subito narrazioni molto distanti da quello che sarebbe oggi una ricostruzione accettabile, al di fuori delle importanti ricerche specifiche attuali.

Nella selezione di questi documenti che sarebbe stato così necessario conservare, quanti sono rimasti muti, sono scomparsi o sarebbero potuti essere e non sono stati? In questa cernita così decisiva quanto è stato determinante un consiglio linguistico più o meno accettato dal senso comune, come l’unica competenza accreditata a legiferare in materia di linguaggio?

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Elena Ferrante dall’invisibilità all’essere vista ovvero la performance del corpo femminile mancante

Quando i libri sono di tutti e di nessuno. Un quaderno di lavoro condiviso su Elena Ferranteecologia e femminismo

SECONDO

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Dall’invisibilità  all’essere visti  (p. 132 – 136) è il titolo di uno dei quarantadue brevi capitoli che ne Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo  si riferisce genericamente a un soggetto plurale maschile, e non come avviene nel titolo di questa seconda parte del quaderno di lavoro.

Questo quaderno, come detto, ha la caratteristica di essere un testo che viene pubblicato più o meno nell’immediato in cui viene prodotto perché si vuole confrontare con avvenimenti  pressoché contemporanei. Scrivo infatti a una settimana dall’uscita del dialogo via email pubblicato dal Financial Times tra Elena Ferrante  e Marina  Abramović  e dalla pubblicazione su Tutto Libri de La Stampa del discorso dell’autrice inviato al posto della sua persona nell’ambito del conferimento di uno dei più prestigiosi riconoscimenti letterari dei Paesi Bassi, il Premio Belle van Zuylen dell’International Literature Festival.

Dall’invisibilità all’essere vista ovvero la performance del corpo femminile mancante  è il titolo invece che ho scelto per il testo che state leggendo e si riferisce a una soggettività singolare e femminile. Questa discrepanza grammaticale, tra il titolo del capitolo del mio libro e questo testo che sto scrivendo ora, non è casuale.

Così come non è casuale che il resto del titolo di questa seconda parte del quaderno esprima quella che sembra a un primo sguardo una contraddizione in termini. Un concetto di performance riferito a un corpo che manca, riducendo la questione ai minimi termini,  significa compiere, eseguire, dare forma e visibilità a qualcosa, senza che compaia l’artefice di ciò, che però esiste, è enunciato, si tratta di un corpo femminile mancante. Scrivevo a questo proposito già nell’edizione tedesca del mio libro nel 2018 e poi in quella Italiana

Attraverso la propria immagine mancante (Ferrante) ha infatti acceso i riflettori su un vuoto che urlava da tempo il bisogno di essere colmato. L’assenza dell’autrice come corpo e come identità femminile non è da considerarsi un elemento esterno al romanzo di Elena Ferrante ma è posto nell’ambito del dispositivo rappresentato da tutto ciò che concerne questa autrice, a segnalare una mancanza che investe in larga misura sia la società che lo statuto del romanzo.(V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020 p. 27)

Per sostenere quanto la performance narrativa  di Elena Ferrante si trovasse in questa mancanza data  dall’incertezza  di un  passaggio dal invisibile al visibile, dal non esistente all’esistere determinato dall’esercizio di un qualche potere esterno, mi sono riferita a Ferrante  parafrasando il pensiero di Judith Butler 

il riconoscimento reciproco, e quindi l’essere visti, non si riduce all’identità di ciascuno. Che peraltro è un concetto statico e passibile di falsificazioni all’atto di una certificazione che sia definitivamente inclusa in un sistema di riferimento i cui elementi sono così variabili dal punto di vista storico, sociale e biologico, appunto. Ma è un luogo di continua trasformazione, quello del riconoscimento, cui si accede proprio attraverso lo smarrimento di quei parametri attraverso i quali viene governato un riconoscimento sfavorevole quando la dialettica si articola tra oppressore e oppresso. Cioè tra coloro che vivono la situazione favorevole di detenere un potere e coloro che vivono quella sfavorevole di subirlo in un sistema governato da logiche che non riconoscono altro che il proprio mandato.(V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020 p. 135)

Per confortare l’ipotesi di quel capitolo declinavo l’invisibilità/visibilità in termini universali, cioè plurali e maschili e prendevo a questo proposito in esame tutte le protagoniste ferrantiane da Delia a Giovanna cercando di delineare quell’aspetto performativo insito nella loro natura di personagge ( R. Mazzanti S. Neonato, B. Sarasini ( a cura di), L’invenzione delle personagge, Guidonia, Iacobelli Editore, 2016 ) che come soggettività non riconosciute sono costrette, o si costringono, a intraprendere  le loro vite attraverso un atto performativo, finalmente agendo nella relazione con l’altra/o, con la società, con la loro origine. La parabola di questo agire ordito dai romanzi di Ferrante ci da la misura del punto infinitesimo, che tende  all’inesistenza, in cui ogni contesto di fatto situa le protagoniste. Nonostante questo tutte tentano, quando riuscendo quando no, la performance più ardua, quella di esistere, cioè essere viste, legittimandosi, in primo luogo da sole. Lila è la personaggia per antonomasia che performa l’atto di autolegittimarsi e tutte sappiamo come va a finire: sparisce.

 

L’atto performativo che la scrittura di Ferrante compie però non è solo quello di far agire le sue protagoniste nella subalternità cui è costretto il genere femminile. In fondo alla strada di questo tentativo, quando una svolta può voler dire essere viste o non essere viste, l’incontro cruciale è quello con il potere che non è uno solo e non è sempre lo stesso. 

Il potere può trovare modo di esprimersi in forme contraddittorie inimmaginabili. Un potere può avere la capacità di incidere sulla realtà. Un potere è ciò che può legittimare qualcosa o qualcuno secondo logiche di opportunità confacenti al proprio mantenimento. Questa performance tipica del potere, che abbia luogo in ambiti marginali o in termini globali, privati o pubblici, nell’immaginario collettivo o in un contesto comunitario qualsiasi, vive anche  di altri aspetti, per così dire universali, oltre a quelli  di genere, aspetti che contribuiscono a formare subalternità sempre nuove (si veda a questo proposito anche il capitolo de Il libro di tutti e di nessuno che intitolo Vergogna sociale p.33-38).   

Tra i molti temi di estremo interesse che emergono dal dialogo tra Abramović e Ferrante è davvero un passo  breve quello che ci conduce a constatare la  capacità performativa del simbolico in cui è riuscita la scrittura di Ferrante attingendo a piene mani dai temi portanti del femminismo e del pensiero della differenza sessuale (si vedano oltre al capitolo già citato in riferimento a Butler, i capitoli de Il  libro di tutti e di nessunoLa matrice delle nostre parole (p. 101-104) e Un romanzo come trasmissione diffusa della cultura di genere p. 105-108).  È questo ciò che rende le due artiste Abramović e Ferrante  simili in un modo tutto sommato niente a fatto sorprendente. Ossia la performer di The Artist Is Present in cui l’opera coincide con il corpo e, l’altra, quella di una scrittrice tra le più famose del mondo la cui performance coincide con una scrittura, senza il corpo che la agisce, il cui tema è dedicato al femminile mancante.

Nel caso di Abramović il corpo è qualcosa che accade qui e ora, in presenza dell’artista  nel caso di Ferrante la visibilità  è separata radicalmente dai tempi in cui il corpo si lascia andare alla scrittura. Dove il corpo femminile per entrambe le artiste però è il soggetto e l’oggetto posto al centro di qualsiasi ottica performativa legata al potere in genere  e al potere indiscutibile di cui la loro arte straordinaria le ha rese latrici. Perché da sempre è così: tutto ciò che declinato su un sé a sua volta rappresentato da un corpo femminile, presente o mancante, collude e collide con il potere.

“Secondo lei” scrive Ferrante riferendosi a una sua interlocutrice epistolare americana nell’ambito del già nominato discorso tenuto in occasione del conferimento del premio Belle van Zuylen “i libri hanno bisogno di una persona monumentalizzabile. Essi non sono semplicemente la concrezione di una intelligenza, il raggrumarsi di un talento. Hanno invece la necessità di un corpo che, esponendosi nell’interezza della sua esistenza, li valorizzi valorizzandosi; un essere umano che in prospettiva si meriti l’ingresso in qualche pantheon, abbia la sua apoteosi già da vivo, faccia da corpo-bambola sulle pagine dei magazine, in televisione, sui social”.

La questione dell’analogia tra le artiste Abramović e Ferrante alla luce di questa affermazione  appare ancora più legata alla loro comune origine europea. La storia non universale del corpo, ma quella del corpo femminile, ancora così poco raccontata, è costellata di atti performativi che hanno assunto giocoforza un enorme valore d’uso. La chiesa di Roma ad esempio dopo l’ondata riformista scatenata da Lutero, impose una svolta a quello che sembrava un declino irreversibile anche attraverso il rigido controllo e l’uso di questa performatività simbolica legata al corpo delle donne. Furono per questa ragione, prevalentemente i corpi femminili, i protagonisti materiali e simbolici della Controriforma. Quelli delle sante vive, delle streghe ma soprattutto  quelli privi di vita, delle martiri protocristiane attraverso l’importanza che assunsero le reliquie per i fedeli e di conseguenza il giro d’affari costituito dal loro mercato. 

Particolare del reliquiario contenente il cranio di Maria Maddalena. St. Maximin-la Sainte-Baume. Cripta

Ogni performance si espone, anche quella esclusivamente scritta, anche questa mia di adesso nel suo piccolo, si candida all’essere guardata, perciò vista e con ciò puo generare un potere se legittimata da uno sguardo che la legge e può non esistere quando questo non accade. Come dimostrano su tutto  le vicende legate da quasi trent’anni a una scrittura come quella di Ferrante. Un potere che sta nelle cose, illustrato  dalla  realtà delle cose umane che diventa con il tempo un’evidenza difficile da smentire. Anche quando questa realtà non fosse strategicamente congegnata da un’immaginazione performativa strepitosa, comunque attingendo simbolicamente  al corpo della donna o alla sua dolorosa mancanza, trae una potenza indiretta quasi infallibile. E spaventosa. Ce lo insegna addirittura  la storia che  comunque prevalentemente è orientata a concentrarsi altrove.  Perfino la clavicola di una fanciulla  nata poco meno di duemila anni fa, se posta in una teca di cristallo, sotto una volta di affreschi e stucchi, può rendere l’ignara un vero e proprio  brand.  La chiesa cattolica sono secoli che per promuoversi e mantenersi in auge fa di queste istallazioni impareggiabili veri e propri oggetti di culto, corroborando  una mistica potentissima e intramontabile che riguarda il corpo di antiche fanciulle più  o meno ignare. 

Il 20 settembre scorso  il sito Le Ortique pubblica un articolo  di  Marilyne Bertoncini che ricorda come il corpo femminile sia stato il fulcro di un più moderno dibattito filosofico e politico che oggi si può collocare facilmente  nell’ambito della storia dei movimenti e del pensiero dei femminismi, ossia molto prima che la potentissima performance di Elena Ferrante lo ponesse sotto gli occhi dell’interesse universale

Hélène Cixous, in Le Rire de la Méduse, nel 1975, la promosse dichiarando che le donne che erano state espropriate della letteratura così come dei loro corpi dovevano reclamarli attraverso la scrittura. Questa affermazione fu sostenuta all’epoca dal lavoro della linguista Luce Irigaray, che denunciava il fallocratismo del linguaggio, come lo fu dalla critica femminista Elaine Showalter – fondatrice di Women’s studies – che definì questo movimento come «l’iscrizione del corpo femminile e della differenza femminile nella lingua e testi» (Elaine Showalter, “Critica femminista nel deserto” in The New Feminist Criticism: saggi su donne, letteratura e teoria, Londra, Virago, 1986, p. 249.) Fu il tempo di una rivendicazione politica pienamente giustificata sotto questa forma, che sceglie di porre il corpo della donna al centro della sua scrittura per richiedere di fargli posto anche in una società prevalentemente maschile, e bianca (le lotte femministe sono sempre state unite a lotte per l’integrazione delle minoranze).

Bertoncini segue il filo di un discorso evocato dal fatidico interrogativo se esista o meno una differenza di genere dentro una materia artistica e performativa spesso imperscrutabile come quella della scrittura domandandosi: “Dovremmo però attenerci a queste posizioni – arte femminile vs arte maschile – nel 2021, ora che i dibattiti sui generi e le scoperte scientifiche (oltre alla ricerca etnologica) ci portano a pensare alla binarietà come superata, residuo di un pensiero occidentale segnato anche da secoli di religione?” Secoli di religione  però in cui il corpo femminile è stato l’oggetto di una centralità occulta e ben amministrata costituiscono un antagonista niente affatto sorpassato che il pensiero dei femminismi europei si è trovato a combattere con pratiche condivise, azioni politiche su un campo di battaglia universale che è molto più vasto di qualsiasi meraviglioso intervento chirurgico che alcuni femminismi possono portare a buon esito enunciando l’auspicabile evidenza che la binarietà è superata

Un sentimento di indipendenza che deve ancora essere costruito, in quanto tutto ciò che è stato approntato nei secoli, essendo congegnato e coniugato quasi esclusivamente al maschile, è troppo differente per essere autenticamente riconosciuto da chi uomo non è. Questa corrente filosofica prende l’avvio da quelle prime critiche che Irigaray, attraverso la pubblicazione di Speculum, mosse rispetto all’interpretazione che il pensiero di Freud dava della sessualità femminile. Ponendo la donna al centro di una ricerca che riguarda soprattutto il suo corpo, Irigaray sottolinea la necessità che l’identità femminile si possa conoscere e quindi costruire in modo autonomo. Ma la decostruzione di un mondo già dato, oltre che favorire l’ipotesi di un rinnovamento, comporta almeno in prima battuta una disorganizzazione delle energie: i romanzi di Ferrante sembrano tutti nascere soprattutto dalla proliferazione ragionata di questo disordine.(V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020 p.182-183)

Il grado di espressività del dispositivo Ferrante in termini di performance da quest’ottica è ancora più impressionante perché in un segmento di tempo che va dal 1992 (L’amore molesto) al 2019 (La vita bugiarda degli adulti) è stata declinata tutta la disorganizzazione energetica inevitabile quando si tratta di passaggi cruciali, come il nascere di una creatura che dal non esistere, esiste.  Un  passaggio sempre molto incerto quello alla visibilità. Come diversamente incerto è tutto ciò che riguarda una scrittura più che altro femminile, per secoli dipendente dalla condizione vissuta da chi l’ha comunque praticatacioè un dettato  che è stato trascritto lontano dal corpo  che agisce nella socialità, tanto da correre tuttora il serio rischio di non esistere in mancanza di un posto al mondo attraverso il quale anche quella scrittura possa essere rappresentata come universale.

Continua


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Ecologia letteraria dell’immaginazione senza corpo

Quando i libri sono di tutti e di nessuno. Un quaderno di lavoro condiviso su Elena Ferrante, ecologia e femminismo

PRIMO

Poco prima dell’estate la redazione di una rivista di critica e ricerca letteraria mi ha chiesto un contributo su un argomento che mi interessa molto, specie in questo momento che sto riflettendo in modo un po’ più accorto sulle mie scritture, quelle pubblicate, quelle ancora inedite e quella cui mi sto dedicando adesso, di altro genere rispetto ai miei lavori di poesia e saggistica. Frattanto la Casa delle donne di Pisa mi ha fatto sapere che sta organizzando un gruppo di riflessione legato alle opere di Elena Ferrante che si vorrebbe occupare di moderare la presentazione de Il libro di tutti e di nessuno (V. Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, Guidonia, Iacobelli Editore, 2020) a novembre finalmente in presenza a Pisa. La cosa mi ha fatto molto piacere, naturalmente. Ma anche mi ha fatto rendere conto come da quel mio saggio emergano questioni cruciali e elementi della mia ricerca personale su cui devo tornare. In effetti già quel quesito tardo primaverile, mi aveva colto sul vivo e mia ha accompagnato per un po’, risuonando in modo esponenziale proprio in questi giorni in cui tutto sembra si stia rimettendo in moto. Qualcosa ricominciando davvero daccapo, e qualcos’altro invece che riesce a trovare in modo stupefacente una continuità con pratiche annose e così pervicaci che neanche una pandemia in tutta evidenza è riuscita a disarcionare.

Perciò ho immaginato di portare, qui sul mio sito, il quaderno di lavoro che sto compilando in questi giorni e che vorrei idealmente condividere con chi ha voglia di leggere di Elena Ferrante ma certo non solo. Sarà un lavoro che pubblicherò qui in corso d’opera (con tutti i limiti del caso) per motivi precisi che spero saranno chiari a quelle e quelli che avranno la pazienza di leggere fino in fondo questa prima parte che funge anche da introduzione a questo quaderno di lavoro intitolato Quando un libro è di tutti e di nessuno.

Nello specifico vorrei sviluppare alcuni elementi che Il libro di tutti e di nessuno propone, perché mi paiono ora più che mai connessi a una riflessione sul presente che desidero condividere. Grazie quindi alla Casa delle donne di Pisa che mi sta dando un buon motivo per tornare a mettere a punto temi importanti per me. Ma anche grazie a quella rivista che chiedendomi un pezzo che rispondesse a una domanda che mi riguardava così da vicino, ha acceso una riflessione che tuttora mi anima e mi ispira.   

Quella domanda, per come l’ho letta io, si può riassumere in questi termini: la realtà cui la scrittura si riferisce è sempre la stessa, anche se l’intento che la suscita, riguarda formati di scrittura differenti come narrativa, poesia, saggistica, giornalismo, storiografia? La realtà è la stessa, anche se il genere sessuale di chi scrive si esprime in termini centrali nell’economia di una scrittura che si riferisce alla realtà che è sotto gli occhi di tutti? Come accade ad esempio in Ferrante, nell’opera della quale la narrazione è apertamente condotta secondo una prospettiva di genere, e si alimenta dei temi di questa prospettiva. E noi lettrici e lettori contemporanei cosa dobbiamo pretendere da tutte queste forme di scrittura, affinché la realtà che ci illustrino non sia un diversivo, un inganno, un mero esercizio narcisista in cui chi scrive vuole esercitare soprattutto un potere che ha l’obiettivo di ottenere consenso?

Ricordo molto bene il giorno di parecchi anni fa in cui con la mia casa editrice tedesca abbiamo immaginato un titolo per il libro su Elena Ferrante che stavo pubblicando con loro e che poi sarebbe uscito in Germania nel 2018. Ricordo di aver chiesto, come chiesi poi alla mia casa editrice italiana, che il nome di Elena Ferrante non figurasse nel titolo ma rimanesse impigliato nel sottotitolo. Nel mio sentire ciò doveva significare che gli argomenti, la ricerca, le citazioni, un certo modo studiato di orientare l’illustrazione e la collocazione di quello che ho chiamato dispositivo Ferrante, significasse fin dalla prima occhiata alla copertina, un lavoro indipendente, indipendente anche da madrinaggi e equivoci sulla necessità di possibili accrediti.

Il mio obiettivo con la scrittura di quel libro non era usare il nome di Elena Ferrante ma era collocare quel dispositivo in una realtà italiana, per come la mia soggettività la percepiva, perciò dal mio punto di vista, una realtà di genere e poi globale, che fosse il meno possibile il frutto di una presa di posizione di un gruppo, di una condizione o professione, di una qualche mia appartenenza. In entrambi i libri, quello tedesco e quello italiano, esiste un capitolo dedicato al senso e ai motivi di questo titolo.

Nel rispetto di questa mia esplicita richiesta il libro tedesco si intitolò Bambole napoletane (V. Scarinci, Neapolitanische Puppen. Ein Essay über die Welt von Elena Ferrante (trad.Ingrid Ickler) Colonia, Launenweber, 2018) quello italiano Il libro di tutti e di nessuno cioè esattamente come avevo chiesto. Volli quel titolo perché riformulava un concetto importantissimo espresso da Elena Ferrante, uno di quelli che mi convinse su tutto quando anni prima che l’autrice raggiungesse la fama mondiale, ne avevo colto un’analogia profonda con il mio modo di intendere la scrittura

Tra il libro che va in stampa e il libro che i lettori acquistano c’è sempre un terzo libro, un libro dove accanto alle frasi scritte ci sono quelle che abbiamo immaginato di scrivere, accanto alle frasi che i lettori leggono ci sono le frasi che hanno immaginato di leggere. (E. Ferrante ‘Il libro di nessuno’ in La frantumaglia. Nuova edizione ampliata, Roma, Edizioni e/o 2016, p. 185)

Quel concetto è lo stesso che ha permesso a molte e molti che hanno lavorato sulla materia ferrantiana  (ma anche a molte  scritture che con Ferrante niente apparentemente hanno a che fare) di usare in modo più o meno dichiarato questo ormai ineludibile dispositivo che  Elena Ferrante rappresenta. Ovunque, dopo Ferrante, si legge di amicizie femminili ambivalenti, di subalternità sociali, psicologiche e di genere, di madri e figlie che si odiano e si amano, di famiglie rese disfunzionali dalla troppa povertà, ricchezza o avidità.

Quello che veramente fa la cultura però, la cambia e la rende dialogante con il reale è quel terzo libro che Ferrante ha teorizzato in modo esplicito e diretto chiamandolo il libro di nessuno: quello che non è ciò che l’autrice ha scritto o quello che lettrici e lettori hanno letto, ma ciò che l’autrice  in un regime di parità assoluta, ha immaginato che fosse reale, e reale si  è dimostrato tanto per chi ha scritto quanto per chi ha letto, nei termini in cui l’immaginazione è stata capace di modificare la realtà.

È sotto gli occhi di tutti che questa operazione dell’immaginario è diventata più vera della realtà. È l’immaginazione che crea per così dire una relazione di tipo ecologico che attiene a ciò che rende  vera la cultura, perché rende gemelle letteratura e natura, le iscrive in un divenire incessante che ha per motore il tempo per come è conchiuso nella capacità immaginativa dell’umano.

Non posso non pensare a questo proposito a uno dei libri più belli che ho letto quest’anno grazie a un suggerimento di Elvira Federici, Sentire e scrivere la natura di Chiara Zamboni ( C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, Milano, Mimesis, 2020). Tra le molte illuminazioni di cui sono debitrice a quel libro ce n’è stata una che mi ha rassicurata sul mio modo di procedere quando affronto la pagina. Un procedimento che ho sempre seguito istintivamente e che mi sono legittimata per analogia con un processo del tutto simile a quello che ha riguardato l’esistenza e il potere di quel terzo libro così lucidamente e precocemente inquadrato da Ferrante al punto di farne uno dei motori della sua poetica di poi. Zamboni scrive riferendosi a Ingeborg Bachmann (il tipo di legame di questa autrice con Ferrante è espresso in forma germinale ma esplicita ne Il libro di tutti e di nessuno quando parlo di trascendenza)

Si tratta del passaggio dalla realtà all’emergere del reale, carico di onirico. Dove, per realtà possiamo intendere ciò che rientra nel mondo dei fatti, mentre il reale intrattiene un rapporto con il visibile non visto (…) Occorre essere radicalmente scostati dalla finta armonizzazione della realtà, per cogliere la verità nella percezione stessa. (…) è necessaria una specie di attenzione fluttuante, di sentire tra conscio e inconscio, una sensibilità aperta a percepire la dimensione onirica della realtà. (…) La storia è dimensione verticale del percepire, che è però intrecciata con l’esperienza sognante di lande desertiche, di luoghi altri e lontani. La percezione ha una trama inconscia, onirica che ci fa cogliere, intensificando, l’essenza delle cose presenti. (p.19-20)

Del resto ogni scrittura degna di chiamarsi tale risponde a ciò cui si riferisce Bachmann: Di che cosa parlare? Al meglio di qualcosa di evidente (possiamo leggere questo preambolo in Christine Koschel e Inge von Wendenbaum, in I. Bachmann, Luogo eventuale, p. 71-72). Cioè parlare di quale reale se non quello evidentemente situato in una prospettiva riconoscibile, come ad esempio è il caso di Ferrante, e di altre e altri che per la propria scrittura hanno preferito un inquadramento di genere.

In ciò Zamboni, dal canto suo, riecheggia magistralmente proprio parlando di uno degli aspetti della differenza di genere sessuale nella scrittura: “Lo stile di scrittura segue dunque ciò che è evidente, attraverso il mostrare, l’indicare un fatto dopo l’altro. Si sottrae così a un discorso interpretativo, che cerchi un’interpretazione di accadimenti disturbanti” (p. 21). Lo fa Ferrante da sempre, ho tentato di farlo io seguendo l’insegnamento relativo al valore di quel terzo libro che non interpreta proprio nulla, che per dirsi non stabilisce gerarchie di riferimento, che non aderisce a linee di pensiero. Ma che si pianifica in termini di opera ricalcando l’andamento delle evidenze, la loro tempistica, le illustra ma non le spiega, perché occupandosi tanto del reale attraverso la propria scrittura, quanto del lavoro dell’altra/altro, un conto è intonarsi un conto è interpretare

Operando in questo modo su una scrittura di cui non si è autrici, si tradisce l’opera? La si ruba un po’ a chi l’ha scritta? Penso di sì, ma questa scienza così alternativa è anche quella su cui si sono fondate e rese riconoscibili genealogie espressive oppresse e recluse. Per riuscire a cogliere i contorni di una soggettività che possa dire finalmente io, quando quell’io non è visibile al mondo, non e nominabile, è irriconoscibile anche a se stesso, l’unica possibilità è dirsi/indagarsi per differenza e analogia, rispecchiandosi con quanto è evidente e con chi è riuscito a esistere solo dicendosi. Questo Elena Ferrante, teorizzando la poetica del terzo libro, lo aveva intuito, lo ha detto e ne ha fatto romanzi.

Quando il linguaggio si intona, dice Zamboni, al movimento dell’infinito è inevitabile che vada da essere a essere.  Ed è, penso, inevitabile che crei relazioni non preclusive che proliferano da quella letteratura che può intendersi una delle prime forme di ecologia che introduce a quella che ci serve di introiettare ora più che mai, cioè una materia che ha per oggetto le funzioni di relazione tra  persone, organismi vegetali e animali e l’ambiente in cui tutto è immerso. Dove l’ago della bilancia è sicuramente la qualità della relazione.

Nel caso di Ferrante posso testimoniare che tutto ciò funziona, ha funzionato in termini globali perché ha creato una pletora (plètora significa in patologia vegetale, abbondanza anormale di succhi in una pianta) di lavori che ponendosi liberamente in dialogo con un’opera letteraria hanno davvero creato un altro ecosistema e hanno scardinato molte preclusioni relazionali, di genere, sociali e gerarchiche. E anche gli alti livelli raggiunti dal lavoro di alcune donne che se ne sono occupate, sono stati legittimati via via che il mondo legittimava l’opera di Ferrante. Livelli alti perché se da una parte quelle donne che li hanno raggiunti erano allenate a studiare e introiettare un modus operandi creativo e relazionale maschile molto preclusivo (dico maschile perché lo hanno inventato gli uomini ma lo praticano e lo subiscono la maggioranza delle persone) nel dispositivo Ferrante hanno potuto liberare quella loro scienza altra, una scienza legata al loro altro leggere. La scienza dell’intonarsi ai movimenti del reale e a tutto il reale che si è in grado di percepire, più che quella di attenersi alle indicazioni inevitabilmente autoritarie di un sapere prescrittivo che tende a una fissità pretestuosa e falsamente ieratica. La scienza di questo scrivere ricalca quello che Zamboni chiama un dire in fedeltà a ciò che sentiamo via via (p.31) restando in una relazione per così dire ecologica con un reale che è multiforme.

Esiste davvero quella differenza di genere, letterario e sessuale, che rende la scrittura diversamente esplorativa, pur trattando di una realtà necessariamente condivisa? Io penso di sì, ed è il motivo per cui sono femminista. Tutto quello che ho visto e letto fin qui, me lo conferma. Però ho anche altre domande senza risposta: pur vivendo una realtà che tende all’infinito, tanto quante sono imponderabili le sfumature della soggettività di ciascuno, di che cosa parliamo quando crediamo di dire la verità? Quando crediamo a qualcuno che dice di raccontarci la verità? L’indice di variabilità in cui è iscritto il senso di questa realtà cui tutte le scritture dovrebbero riferirsi quando si vogliono vere, quanto è dipendente dalla qualità del rapporto che emittente, cioè chi scrive, e ricevente, cioè chi legge, istaurano nel patto relazionale che ogni tipo di scrittura propone?  A questo proposito si guardi il capitolo del Libro di tutti e di nessuno che intitolo Frantumata (p.109-112).

La poesia ad esempio vive, più di altre scritture, di una componente inconscia, che in qualche modo ne è la centralità e perciò si costituisce come una variabile decisiva in termini di comunicazione, una variabile imponderabile e questo bisogna accettarlo. Una scrittura saggistica alle parole dovrebbe imprimere forse una maggiore convinzione razionale se non altro perché il suo obiettivo è quello di cercare una forma di coerenza che sviluppi il discorso oltre un punto di partenza noto. Per non parlare della narrativa, luogo dell’incontro per eccellenza: se l’emittente e il ricevente si vogliono incontrare davvero dentro una storia inventata, se vogliono diventare davvero l’una/o lo specchio dell’altra/o, come in amore, ci vuole abbandono e spirito di carità, ci vuole reciprocità, e forse ci vuole anche di perdonare qualche bugia, altrimenti non funziona. Sul rapporto tra verità e bugie nell’opera di Elena Ferrante si guardi ne Il libro di tutti e di nessuno il capitolo che intitolo Gli adulti sono bugiardi? (p.16-21)

Sul funzionamento di una scrittura, ossia su quanto possa davvero essere in grado di illustrare la realtà materiale e simbolica del vivere, a me pare che pesino in senso negativo il travisamento di due fattori che mi sembrano onnipresenti oggi e mi schiacciano. Quello legato a un così detto uso del linguaggio politicamente corretto, e legato a un modus operandi politicamente molto connotato che genera codici linguistici rigidi, che a loro volta generano gruppi di appartenenza per nulla permeabili alla pluralità di linguaggi di cui chi lavora con la scrittura dovrebbe sempre considerare il grado di risonanza in termini reali e non solo ideali. E quello che accosta ogni genere di scrittura alle regole di uno storytelling volto al profitto, inteso come vendita, consenso, successo della propria scrittura pubblica, promozione e iconizzazione della propria immagine mediatica. Le derive dell’una si iscrivono nelle derive dell’altra: quando l’attivismo si fa opera artistico letteraria, può diventare un marchio che usa gli stessi metodi che combatte per vendersi al consenso e al mercato, cessando l’opera in questo modo di spendersi in quell’economia di relazione ecologica che contiene, quello che oggi chiamiamo presente, ma che esiste al mondo tale e quale da sempre.

Da persona che ora sta scrivendo un romanzo che si vorrebbe storico, sono obbligata a chiedermi quanta realtà può custodire e comunicare una scrittura che si mette alacremente in regola con l’istituzione dello storytelling, o un’altra che si fregia attraverso un’operazione creativa di sviluppare gli assunti impositivi e preclusivi che segnano confini oggettivamente invalicabili in merito al vero, minacciando con ciò ogni immaginazione che la possa accostare.  Può un regolamento narrativo che vale per la pubblicità che ti deve far comprare, per la politica che deve procurare accoliti e produrre schieramenti, condivisioni, like, valere anche per una scrittura tesa esclusivamente sul filo di se stessa? E può valere anche per una scrittura che si riferisce al passato e che con ciò dovrebbe leggere in controluce tutti i documenti? Nessuno escluso, anche quelli seppelliti dal disinteresse per una questione in cui non vi si trovino politiche tramandabili ai posteri. Magari in favore di un’altra politica che è giunto il momento di trattare con tutti i riguardi per risarcirla e farla diventare anche lei storia con la S maiuscola. E questo a prescindere dalle verità possibili o certe, dalla realtà mutabile o immutabile che concerne una storia sepolta dal tempo o una presente oberata dalle infinite pretese di verità che spesso con l’autenticità letteraria c’entrano poco. Si veda a questo proposito il capitolo che ne Il libro di tutti e di nessuno intitolo Perché il romanzo di Elena Ferrante è politico (p.11-15) e per tutto il discorso di cui sopra il capitolo dell’edizione italiana che si intitola come il libro medesimo (p.22-28).

Continua


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Laudomia Bonanni 11 settembre appuntamento a L’Aquila con SIL

I luoghi della terra sono incomunicabili, diceva. Anche la gente. Le espressioni non collimano, non corrispondono alle nostre. Facce chiuse. Basta cambiare latitudine e un uomo non si riconosce con un altro uomo. Una specie di sentenza. Non disse che non si riconoscevano tra loro due. L’ADULTERA, p.25-26 Elliot, 2016

Ci siamo, l’11 settembre finalmente il primo importante appuntamento culturale dopo il tempo pandemico che è parso interminabile e incerto. Non che le incertezze siano finite o che la pandemia lo sia ma forse ci troviamo a una ripartenza un po’ più consapevole rispetto alle pratiche fin troppo abituali e inavvertite del tempo prepandemico.

Si tratta della giornata che la SIL dedica a Laudomia Bonanni a L’Aquila, la città in cui la scrittrice visse per metà della sua vita. L’incontro con il patrocinio del DSU si terrà presso l’Università degli studi dell’Aquila. Nel rispetto delle normative anticovid, lo spazio disponibile in sala è esaurito.

Sarà possibile seguire il seminario in diretta a partire dalle ore 9,30 collegandosi attraverso la pagina facebook della Società Italiana delle Letterate https://www.facebook.com/socletterate/.

Il video integrale del seminario sarà poi pubblicato sul canale YouTube della SIL . Qui la locandina e il programma dell’incontro. Per  il pomeriggio dello stesso giorno è prevista una passeggiata letteraria nei luoghi menzionati e raccontati da Bonanni nelle sue opere.

L’occasione di questo incontro mi è particolarmente gradita. L’organizzazione tematica e logistica a cura di Maristella Lippolis (direttivo SIL) con Serena Guarracino (Università dell’Aquila e socia SIL) e Lucia Faienza (Università dell’Aquila) è di straordinaria accuratezza e interesse, perciò capace di dedicare alla memoria di Laudomia Bonanni una giornata indimenticabile e alla scrittura di questa autrice tutto il senso vitalistico e contemporaneo che la sua opera ancora racchiude.

Per quanto mi riguarda questo è il primo incontro in presenza a cui partecipo come direttivo SIL, e la possibilità di illustrare nell’ambito un mio breve contributo su Laudomia Bonanni mi riempie di entusiasmo. Su Laudomia Bonanni certamente tornerò. Con Paola Masino, Anna Banti, Alba de Céspedes, Goliarda Sapienza, Alice Ceresa (e altre italiane il cui nome è ancora sepolto o poco pronunciato) Bonanni è una delle scrittrici attraverso le quali può e deve essere ricostruita l’altra storia del nostro Paese, quella non solo letteraria, di cui secondo me in questo momento abbiamo bisogno un po’ tutte e tutti, almeno quelle e quelli di noi che cercano di guardare al futuro con un minimo di buona volontà.  

Guarda anche: Il sito ufficiale Ladomia Bonanni, Materiali SIL su Laudomia Bonanni a cura di Maristella Lippolis

ELENA FERRANTE Carotenuto/Scarinci su Letterate Magazine

ELENA FERRANTE. Oggi su Letterate Magazine direttamente dalle pagine di Leggendaria 147 Relazione, assenza e condivisione sul “dispositivo Ferrante” di Silvana Carotenuto e L’altra economia relazionale una risposta dalla terra e dalla lingua che ci ha alimentate di Viviana Scarinci.


SILVANA CAROTENUTO è Professore Associato di ‘Letterature in lingua inglese’ all’Università di Napoli L’Orientale, dove dirige il Centro di Studi Postcoloniali e di Genere (CSPG). La sua produzione scientifica si colloca nell’ambito degli studi culturali e postcoloniali, della decostruzione e della écriture feminine, e degli studi visuali. Le sue recenti pubblicazioni includono: “Il (Libro in) cammino di Jamaica Kincaid nel ‘Paradiso’ reclamato”, «Scritture migranti. Rivista di scambi interculturali» vol. 14 – Turismo e migrazione, a cura di P. Musarò, E. Piga Bruni (2021, in corso di stampa); “Events of Thought in Chinese Contemporary Female Art”, in Falsework Smalltalk. Political Education, Aesthetics Archives, Recitations of a Future in Common (Some Beloved, Inc., Richmond, Massachusetts, and Folio Books, Lahore, Pakistan, 2021); “La scrittura ‘vegetariana’ di Han Kang,” in L. Curti (a cura di), Femminismi futuri (Roma, Iacobelli, 2019); “La Dea della Differenza sessuale”, Leggendaria, Passo a due, n.129, 2018; Le “figure stringa” nella fantascienza di Nnedi Okorafor, Leggendaria, n.124, Pensare il futuro, 2017; “Il ritorno della ‘Grande Straniera’: interrogazione, scrittura e condivisione della Letteratura” in Ritorni Critici (Roma, Meltemi, 2017). E’ responsabile del gruppo di ricerca M.A.M, e dell’archivio digitale “Matriarchivio del Mediterraneo” (www.matriarchiviomediterraneo.org). Il suo La pupilla di Demetra. La decostruzione e le arti esce nel 2021 per i caratteri di Archive Books (Berlino-Milano).

Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiene del XX secolo, Iacobelli


FOCUS IL LIBRO DI TUTTI, Elena Ferrante: lavori in corso con Silvana Carotenuto su Leggendaria 147 giugno 2021

Il genio della lingua e ciò che accade, Silvana Carotenuto

Un dialogo nell’economia relazionale femminile, Viviana Scarinci

Leggi il testo integrale su Letterate Magazine


Video delle presentazioni

Il Giardino dei Ciliegi 18 giugno 2021

Radio Mood Italia ascolta il podcast 13 giugno 2021

Feminism 4 Fiera dell’editoria delle donne 28 aprile 2021

Libreria io ci sto 5 novembre 2020

Estratti disponibili

° L’autrice legge un estratto per il #letturaday

° La vergogna sociale. Leggi un etratto pubblicato pubblicato da Il lavoro Culturale

° Perchè il romanzo di Elena Ferrante è politico. Leggi l’estratto pubblicato da Leggendaria 141-142


Casa Internazionale delle donne di Roma FEMINISM 3 ottobre 2020
Università di Lipsia Biblioteca Albertina 5 novembre 2019
Francoforte di fiera con Istituto Italiano di Cultura 10 ottobre 2018

Notizia su libro

Il libro di tutti e di nessuno viene presentato in presenza alla Casa Internazionale delle Donne di Roma 3 ottobre 2020 nell’ambito Femminism3 organizzato da Società Italiana delle Letterate, Leggendaria e Letterate Magazine. Successivamente a distanza (i materiali audio e video sono disponibili su questa pagina) il 5 novembre 2020 presso la Libreria IOCISTO, il 28 aprile 2021 da Feminism 4 Fiera dell’Editoria delle Donne, il 13 giugno 2021 da Mood Italia Radio, il 18 giugno dal Giardino dei Ciliegi di Firenze.

Una copertina molto speciale

Altri libri su Elena Ferrante

Nel 2018 la casa editrice tedesca LaunenWeber pubblica Neapolitanische Puppen (traduzione di Ingrid Ickler) che viene presentato alla fiera di Francoforte dagli Istituti Italiani di Cultura di Colonia e Berlino il 10 ottobre 2018, l’anno successivo Viviana Scarinci è tra le relatrici del convegno “Elena Ferrante –Genealogie e Archeologie del 20° secolo”  organizzato dall’Università di Lipsia il 4 e 5 novembre 2019

Colonia, 2018

Nel 2014 Doppiozero pubblica la monografia Elena Ferrante che viene presentata nell’ambito di Frigoriferi Milanesi il 7 febbraio 2015.

Milano, 2015


Articoli in rete

Dialoghi ELENA FERRANTE Carotenuto/Scarinci (giugno 2021)

Invisibilità e autorialità di Elena Ferrante  (ottobre 2020)

La vita bugiarda degli adulti (novembre 2019)

L’amica genaile in TV (novembre 2018)

Ciò che la realtà non sa essere per noi (dicembre 2017)

Chi sono i contemporanei di Elena Ferrante? (maggio 2017)

Storia della bambina perduta (novembre 2014)

L’amore o è molesto o non è (dicembre 2012)

Recensioni

Titti Marrone su il Mattino del 15 ottobre 2020

La Ferrante ha dato voce alle donne e a Napoli. Un saggio della Scarinci descrive il ribaltamento letterario realizzato dalla misteriosa scrittrice fin dai tempi di “L’amore molesto” “I suoi sono romanzi politici che mettono al centro della narrazione l’universo femminile e guardano l’Italia attraverso la città.

Una rivoluzione letteraria con un cambiamento di prospettiva dai riflessi internazionali: ecco di che cosa è stata capace la persona celata dietro il nom de plume “Elena Ferrante”. Lo sostiene Viviana Scarinci in “Il libro di tutti e di nessuno – Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo” (Iacobelli, pagg. 213, euro 16). Vi si percorre l’universo ferrantiano dal 1992, anno d’uscita de “L’amore molesto”, fino al successo avviato nel 2011 dall’apparizione italiana del primo volume della tetralogia de “L’amica geniale”, consacrata a notorietà mondiale dal critico James Wood sul New Yorker nel 2013. Il fil rouge della rivoluzione letteraria viene qui seguito nell’intera opera, comprese le raccolte come “La frantumaglia”. E in questo saggio non si trascurano nemmeno le ipotesi sull’identità di Elena Ferrante, seguendone le tracce vere o fuorvianti disseminate nelle varie interviste.

Il perno del cambiamento ferrantiano consiste nell’aver portato al centro della ribalta letteraria il femminile, capovolgendo il paradigma dominante strutturato sul maschile. Per questo, secondo Viviana Scarinci, “il romanzo di Elena Ferrante è politico”. Il rovesciamento rivoluzionario sta nell’assunto denunciato da una filosofa come Luisa Muraro per cui “tutto ciò che è donna da sempre non è risultato memorabile e quindi degno di esser tramandato alle nuove generazioni”. Altro punto di contatto tra lo sguardo di Elena Ferrante e quello della capofila del pensiero della differenza è la centralità del materno: lo vediamo nel rapporto tra Delia e sua madre ne “L’amore molesto”, ne “La figlia oscura” ma più di tutto nel riconoscimento-rinnegamento della figura materna operato da Lenuccia de “L’amica geniale”.

Ma poi Ferrante ha un altro merito: aver portato al centro della scena narrativa una città scoperta come paradigma non solo dell’Italia: fin ne “La vita bugiarda degli adulti”, c’è un rovesciamento della prospettiva letteraria che induce a “ricominciare a guardare l’Italia attraverso Napoli”. Le storie con cui è sempre stata rappresentata letterariamente la vita italiana- di madri, figlie, famiglie, mariti, fidanzati, rancori, dispiaceri, gioie – si rispecchiano e confluiscono nell’opera di Elena Ferrante, ma in un’ottica nuova. Così, la diade di “Menzogna e sortilegio” indicata da Elsa Morante torna nelle falsità scoperte da Giovanna ne “La vita bugiarda degli adulti”, con la fascinazione esercitata su di lei dalla zia Vittoria, un po’ strega un po’ fata che smaschera le ipocrisie paterne e materne.

Anche i sentimenti sempre percorsi in forma di romanzo sono da Ferrante illuminati di luce nuova, e in una chiave napoletana universalizzante. Per esempio la vergogna sociale raccontato da Annie Ernaux torna come forte elemento narrativo nell’incontro di Lenuccia con la famiglia Airota, o nel sentimento provato da Nino durante la convivenza con Lila e tutte le volte che, descrivendo la Napoli “alta” del Vomero e quella “bassa” del Pascone, “La vita bugiarda” inscena le differenze sociali.

Il gioco del rispecchiamento letterario messo in campo da Viviana Scarinci è vario e complesso, ed ha le sue pagine più convincenti dove si riflette sui punti di contatto con l’ottica di Anna Maria Ortese. Per entrambe, in ballo c’è sempre il conflitto tra natura e ragione. “Infatti, i figli della città, e la città loro madre, vivono di una connivenza che vota il luogo a quell’apparente immobilità di Napoli sotto la quale cova un sempiterno bradisismo. Questo perché Napoli, le sue figlie e i suoi figli sono l’incarnazione di un nefasto genio bifronte”. Così definito dalla somma Ortese: “Un genio materno, d’illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui dormono quelle popolazioni”. Ed Elena Ferrante sottoscrive.


Laura Fortini su il Manifesto del 2 ottobre 2020

PERCORSI. Due recenti volumi sull’opera dell’autrice de «L’amore molesto». Isabella Pinto firma per Mimesis un articolato saggio filosofico sulle «Poetiche e politiche della soggettività». Viviana Scarinci, per Iacobelli editore, pubblica «Il libro di tutti e di nessuno», un ritratto storico-politico. La ricezione che accoglie in modo più o meno ideologico un’opera letteraria diviene anch’essa parte della storia che la accompagna, come accadde a Elsa Morante. Le sue personagge, come per esempio Lila e Lenù, sono nomadi in cerca di «heimat», perciò protagoniste di furti l’una all’altra. E continuano ad affascinarci. Domani se ne discuterà alla Casa internazionale delle Donne di Roma con la Società Italiana delle Letterate

Al fenomeno Elena Ferrante, divenuto ormai un Global Novel sia nella veste autoriale che nell’insieme delle sue opere, si accompagna un altrettanto fenomenico proliferare di studi critici variamente appassionati ad essa, alla sua identità, alla sua opera in tutti i suoi vari aspetti, con buona pace di detrattori e detrattrici che comunque costituiscono anch’essi parte del dispositivo Ferrante.
Si può infatti notare, come nel caso del dibattito che nel 1974 ebbe inizio proprio sulle pagine del manifesto su La Storia di Elsa Morante, che la ricezione che accoglie in modo più o meno ideologico un’opera letteraria diviene anch’essa parte della storia che la accompagna, non sempre nel migliore dei modi come Morante e La Storia mostrano. A riprova però della vitalità delle opere delle scrittrici in lingua italiana, il cui straordinario successo mostra una capacità di narrazione che non sembra avere uguali e lo dirò chiaramente: lo scrivo con una certa soddisfazione, perché si tratta di fenomeno che va sotto il nome Ferrante ma al quale hanno contribuito molte, moltissime scrittrici, per altro sovente evocate a volte in forma esplicita a volte in modo implicito dalla stessa Ferrante nei suoi scritti di poetica raccolti nella Frantumaglia (e/o 2003, 2016 nuova edizione ampliata).

I LIBRI di Isabella Pinto e Viviana Scarinci, il primo dedicato a Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività (Mimesis, pp. 254, euro 22), il secondo intitolato Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo (Iacobelli editore, pp. 216, euro 16), si collocano nel dibattito intorno al contributo che l’opera della scrittrice nel suo insieme dà al costituirsi di soggettività differenti nel vario scandirsi delle ondate femministe che la stessa Ferrante – qualunque sia la soggettività che abita questo nome – attraversa a più riprese nel corso del tempo, da L’amore molesto a I giorni dell’abbandono per arrivare alla tetralogia de L’amica geniale e all’ultimo romanzo in ordine cronologico La vita bugiarda degli adulti, del 2019, anch’esso oggetto d’analisi.
Entrambi i libri indagano in modi diversi eppur complementari l’opera complessa che va sotto il nome di Ferrante e costituiscono tappa di un fenomeno che bene si colloca sotto il nome di Ferrante Fever, titolo del documentario del 2017: le autrici si soffermano sul tremendo delle donne così ben raffigurato nelle sue opere, le collocano in un contesto filosofico l’uno (Pinto) e storico-politico l’altro (Scarinci), a dimostrazione di quanto e come la letteratura – soprattutto quella a firma di donne – abbia una capacità di narrazione collettiva che diviene narrazione politica quasi nonostante se stessa e che molto ci interroga sulle modalità di narrazione del nostro presente.

QUELLE DI PINTO E SCARINCI sono monografie che ambiscono a riattraversare l’opera tutta ferrantiana, riletta e chiosata attraverso parole chiave a volte simili a volte dissimili, e una bibliografia critica ormai amplissima difficile da contenere e rappresentare, a partire dalle stesse recensioni stratificate nel tempo. Tra tema della cancellazione e capacità stregonesca, tra soggetto emancipato, subalterno e diasporico arrivando al postumano, le personagge di Ferrante sono nomadi in cerca di heimat e perciò protagoniste di furti l’una all’altra, che continuano ad affascinarci nelle loro antecedenti – sia nelle opere di Ferrante che di molte altre – che nelle loro contemporanee. Così come diversamente epica è la vicenda di Lila e Lenù, entrambe strenuamente impegnate nel vivere una vita diversa da quella che la storia e il sistema patriarcale assegnerebbe loro, pure con tutte le ambivalenze che ciò comporta.

Utile a questo proposito la categoria critica focalizzata dalla Società Italiana delle Letterate in un volume del 2014 a cura di Paola Bono e Bia Sarasini (Epiche. Altre imprese, altre narrazioni, Iacobelli editore) che riprende la motivazione del premio Nobel per la letteratura a Doris Lessing nel 2007, «epica cantatrice dell’esperienza femminile, che con scetticismo, ardore e potenza visionaria ha sottoposto a esame una civiltà divisa». Bene si colloca accanto a epiche cantatrici di strambe epopee come Elsa Morante, epiche invettive come quelle di Paola Masino e all’epica della gioia di Goliarda Sapienza l’epica della differenza cantata da Elena Ferrante.
In entrambi i volumi, quello di Pinto e quello di Scarinci, molte pagine sono dedicate alla questione dell’autorialità di Elena Ferrante, indubbiamente uno degli elementi che ha contato nel fenomeno global novel così ben descritto da Tiziana de Rogatis nel 2018 in Elena Ferrante. Parole chiave (e/o, recensito sul manifesto il 4.10.2018).

SI TRATTA DI QUESTIONE su cui Ferrante è tornata più e più volte nel corso delle numerose interviste rilasciate nel corso di questi anni, sottolineando – e come non condividere? – che quello che conta è la letteratura, non l’autorialità. Eppure il mondo intero e anche la critica recente continua a interrogarsi su possibili attribuzioni e molto tempo e molta acribia sono stati e continuano a essere dedicati a cercare elementi di coincidenza o meno di altre autorialità con la scrittura di Elena Ferrante.

ANDREBBE INDAGATO a fondo il meccanismo a volte morboso nei confronti dell’autorialità esplicita, là dove essa sembrava tramontata nel periodo della critica strutturalista in favore dell’opera iuxta propria principia. Fin dai tempi dell’Amore molesto – e quindi dal 1992 – era chiara infatti la sottrazione a quello che nel confronto con Nicola Lagioia a conclusione della nuova edizione della Frantumaglia viene definito «il pettegolezzo letterario che di letterario non ha niente»: nelle note diffuse sull’autrice dell’allora prima romanzo si dichiarava che essa viveva appartata in un’isola del mar Egeo, in solitudine.

DISTANTE almeno quanto il mar Egeo è ancora la sua identità ma quanto di meno identitario è il nome pubblico Ferrante, all’insegna di una solitudine assai ricca di però parole scritte, le uniche alle quali giustamente consegnare il proprio profilo pubblico, lasciando a sé la vita privata. Si potrebbe così collocare Elena Ferrante in un ideale prosieguo del ciclo dedicato al genio femminile da Julia Kristeva: geniali le amiche Lila e Lenù, geniale Ferrante stessa nel rappresentarsi in modo non identitario in un tempo affamato di pulsioni identitarie e sovraniste e questo sì, ha molto della politica nel senso proprio della parola.

da cartaceo e su web https://ilmanifesto.it/elena-ferrante-tra-le-pieghe-epiche-di-una-storia-geniale/


Silvana Carotenuto su Leggendaria 147 e in Letterate Magazine

In Genesi, genealogie, generi, e il genio. I secreti dell’archivio, Jacques Derrida celebra il dono di Hélène Cixous della sua sterminata opera critica e letteraria (l’archivio composto dalla scrittura, dalle lettere, i documenti, i taccuini, i diari dei sogni, l’inconscio, la presenza della madre Eve, la prima donna, l’evento, il risveglio, la veglia, il revenant o il fantasma) alla Biblioteca Nazionale di Francia, la BNF.1 Derrida, in verità, saluta la “Tout-puissance-autre” – La “onnipotenza-altra”, il segreto, non la cripta da rivelare ma l’alterità incondizionata al potere, oltre ogni sovranità o autorità che governi la lettura, l’altro/a che arriva, il genio – della e per la Letteratura, per la sopravvivenza e l’afterlife della letteratura creata dalla scrittrice amica e, insieme, della Letteratura in generale.

Derrida entra in dettaglio nella famiglia di parole rette dalla “g” (il nome del padre e del figlio, Georges, onnipresente nella realtà biografica e nella finzione di Cixous, ed insieme, il personaggio Gregor de La metamorfosi di Kafka), che mette in moto e sostiene la sua lettura decostruttiva: le genesi dell’opera, le genealogie che la articolano e ne aprono l’eredità, i generi che la ibridizzano, la sostanziano e la moltiplicano, e infine, il genio (parola che, in francese come in italiano, è declinata sempre e solo al maschile, e al singolare, aprendo così la riflessione derridaiana alla questione dei generi sessuali presenti nella opera della madre dell’ecriture feminine, e anche il nome proprio come patronimico di più-di-un-genio-in-“una”,alfemminile) che la firma e la controfirma, la carezza del «genio della lingua» (31) che apre nuovi orizzonti perché sempre in eccesso su se stesso.

L’eccesso è la generosità dell’opera letteraria; è qui il dono di Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante. Un ritratto delle italiane del XX secolo di Viviana Scarinci, che ricorda il saluto di Derrida al genio di Cixous costituendosi come un testo che, allo stesso modo, pur nella propria differenza, celebra le genesi, le genealogie, i generi e il genio “femminile” dell’opera (di “tutti e di nessuno”, se esso costituisce il “terzo libro” creato dall’immaginario collettivo delle lettrici e dei lettori) di Elena Ferrante – con la generosità che contraddistingue l’autrice e la sua interprete.

Le genesi

Sono effettivamente plurali le genesi dell’opera di Ferrante. Il debutto avviene nel 1992, un anno determinante per le vicende storiche, sociali e culturali dell’Italia datando la vicenda Gladio, l’emergere di Tangentopoli, l’uccisione di Falcone e Borsellino, la nascita della Lega, la pubblicazione di Petrolio di Pasolini. Nei confronti di questo contesto nazionale specifico, Ferrante compie un’altrettanta specifica scelta di campo, ponendo al centro del suo universo narrativo l’invenzione del “dispositivo finzionale” ospitale di una donna, in realtà, molte donne poste sullo sfondo di una Napoli-matrice, dove è possibile andare alla ricerca della madre, ricordare la molestia di un amore e, forse, anche costituirsi quale “soggetto” diverso.

Per Scarinci, L’amore molesto segna l’inizio politico del romanzo del “trauma”, la discesa individuale in una affettività negata, lo scontro con la brutalità di uno status quo determinato, gestito e manipolato dal maschile, dal patriarcato e dal potere. L’inizio segna l’indagine conoscitiva spinta dalla pulsione della “individuazione femminile”, che è la lotta strenua ad originare una “dicibilità” e una “visibilità” in un mondo – privato e pubblico – che rimanda il momento storico del riconoscimento della differenza femminile, creando intorno a essa il “vuoto” – che è, probabilmente, e forse polemicamente, incarnato dall’assenza voluta e ricercata di Ferrante dallo spazio pubblico se non tramite la sua scrittura.

Il romanzo del “trauma” continua ne I giorni dell’abbandono del 2002 e La figlia oscura del 2006, per arrivare, passando attraverso la fiaba La spiaggia di notte del 2007 e il ritorno de La frantumaglia (2003/2016), alla tetralogia de L’amica geniale, che nasce nel 2011 e si conclude nel 2015 (per estendersi, ancora, in L’invenzione occasionale, e infine, in La vita bugiarda degli adulti, entrambi apparsi nel 2019). Con la tetralogia, scrive Scarinci, il “dispositivo” è pronto per imporsi a un pubblico vasto; i meccanismi dell’identificazione sono stati esposti, mirati e costruiti per rendersi globali; il “terzo libro” della collettività condivisa – creato dalla penna autoriale e, insieme, dall’immaginazione di chi legge – è scritto e viene pubblicato con immenso successo di critica e di readership. Per dare conto di quanto interesse quest’opera abbia suscitato nel mondo, in particolare negli Stati Uniti ma, considerate le traduzioni e l’eco editoriale, consacrati sull’intero pianeta, Scarinci studia e pensa insieme all’immenso archivio di articoli, recensioni, interventi, dibattiti nazionali (il riferimento, a livello italiano, va a Luisa Muraro, a Elsa Morante e a Umberto Eco, in termini generali) e internazionali che si sono sviluppati intorno alla pubblicazione della tetralogia: il testo di Scarinci diviene così esso stesso l’“archivio” della produzione dell’ “archivio Ferrante”.

Il cambiamento

Ciò che importa è che l’opera segna il cambiamento nella poetica della scrittrice che, dopo l’intimismo dei primi tre romanzi, è qui alle prese con la relazione tra le donne, le due amiche nel quartiere Luzzati che funge da microcosmo degli incontri, delle aspirazioni, dei percorsi condivisi, speculari doppi e diversi, che narrano una parabola universale. Tramite la relazione, e sullo sfondo del luogo simbolico e metonimico di una generazione storicamente ben definita, si dipanano le dinamiche della crescita, le manipolazioni, gli amori (prevalentemente sotto l’egida delle convenzioni sociali), i matrimoni (fallimentari, il che non sorprende, se si pensa alla conquista popolare del divorzio degli anni Settanta), i destini e i futuri – del e al “femminile”.

La lingua di Ferrante comunica le vicende vissute – autobiograficamente, ma solo perché innervate di materiali conosciuti direttamente dalla scrittrice, e, per ciò, esponibili ed esposti alla condivisione e alla comunicabilità. L’infanzia, la maturazione, i risultati esistenziali e, insieme, le vicende dell’istruzione, del potere, le norme e i ricordi: Ferrante passa dal piano individuale a quello collettivo-mondiale. Il contraltare dell’euforia del secondo dopoguerra si costruisce sulle avventure – i percorsi, i cammini, le “frantumaglie”, le “smarginature”, le “vigenze”, le “incoerenze” (Scarinci dedica grande attenzione al ruolo di questi istanti di “non-senso” in Ferrante, che tentano di dire veramente la questione dell’eredità materna, l’identità fratturata, e la realtà negata al e del femminile) – e sulle metonimie del dispositivo creativo, riempiendo, infine, lo spazio “vuoto” col desiderio delle donne.

Donne che sono nell’ “ambivalenza” – come risposta “non-ideologica” alle forme “ideologiche” che può aver assunto il femminismo italiano (qui il riferimento va all’interessante volume curato da A.M. Crispino e M. Vitale, Dell’ambivalenza. Dinamiche della narrazione in Elena Ferrante, Julie Otsuke e Goliarda Sapienza).

Insieme all’ambivalenza, Scarinci cita la “vergogna sociale” (in relazione a La vergogna di Annie Ernaux), sottolineando come esse nascono al reale, si generano autonomamente nella Letteratura, costruiscono genealogie alternative (per Ferrante, il cuore della sua poetica pulsa insieme a Anna Maria Ortese), piegano i generi (la favola, il territorio flegreo, il mitico Vesuvio, il mitologico Averno, la saga, il Bildungsroman, il romanzo stesso, i Neapolitan Novels) al dinamismo della condivisione, concentrandosi, infine, sul genio o sulla “brillantezza” (al femminile) dell’amicizia.

L’angelo-demone, il dono o genio della relazione: il “libro di tutti e di nessuno” è finito (in realtà, La vita bugiarda degli adulti è una opera tanto palpitante e vicina che, pur arrivando per ultima, apre o ri-apre l’interpretazione-in-progress di Scarinci a un ulteriore giro di vite che illumina nuovamente, à nouveau, gli esiti della scrittura di Ferrante, che ora si concentrerebbe sul meccanismo della “verità” storica, che è insieme individuale e collettiva).

In conclusione, mi chiedo se, in realtà, questa fine non possa aprire il dibattito a una condivisione del genio non solo tra i personaggi dell’opera di Ferrante, ma anche nella relazione tra colei che interpreta e colei che legge qui la sua generosa interpretazione. Ad un certo punto della sua analisi, Scarinci dice che il genio è ciò che stimola, che mette in atto la trasformazione, «che ispira grandi opere e guasta passo passo ogni certezza». Vorrei interpretare per un istante io stessa questo demone, la genialità dell’altra, chiedendo, dall’interno della nostra recente ma intensa relazione di amicizia, a Viviana alcune cose:

  1. La lingua: Virginia Woolf, Ingeborg Bachmann, Clarice Lispector e prima, e insieme a loro, Anna Maria Ortese (per non parlare, in campo filosofico, di Luce Irigaray), hanno avvertito ed esperito la “pulsione dall’individuazione” solo e sempre all’interno della scrittura, tramite la sperimentazione di una lingua che mai ha potuto o voluto semplificarsi al fine di condividersi. Per queste scrittrici, preziose generatrici di pensiero femminile, mi sembra che l’individuazione sia sempre e solo passata attraverso l’invenzione di un’altra lingua, una lingua che non si piega ai dettami della comunicabilità in termini di convenzioni, norme, strutture, o conformità d’espressione. Sarà il ritorno di una logica arcaica, ma giusta: non esistono contenuti nuovi se non veicolati da una nuova forma.

La popolarità, il superamento della dialettica cultura alta/cultura popolare, il margine vissuto come chance e rivendicato come potenza di condivisione, tra le donne, con l’umano, l’altro dall’umano, oltre l’umano, impegnano, secondo l’eredità e la filiazione della sperimentazione femminile, all’immanenza di pratiche innovative col corpo stesso della scrittura. Era ciò che, personalmente, trovavo e amavo nei romanzi di Ferrante che Viviana definisce del “trauma”, chiedendomi perché questa indagine, che era, anche e soprattutto, l’analisi militante del trauma della lingua stessa, sia rimasto al riparo delle ingerenze dell’editoria mondiale, che invece hanno “scoperto” e “venduto” con tanto guadagno, la Saga di Ferrante…

  1. L’assenza: mi ritorna qui in mente Emily Dickinson, la donna minuta, vestita di bianco, solitariamente dimorante nel perimento della sua stanza con finestra, comunicando con il mondo tramite la poesia, e con le lettere passate nel segreto, indecidibile e indicibile, “geniale”, del riserbo, oltre ogni spettacolarizzazione. ll ricordo e la forza del suo enigma lirico mi aiutano a difendermi dal noise assillante e invasivo del “caso” Ferrante…
  2. La condivisione: per il demone che interpreto, è qui in gioco l’ultimo e forse il più importante tratto della “differenza”. Se il presente ha sancito la capacità del “dispositivo Ferrante” di rappresentare l’individuazione comune al femminile che, in realtà, ancora oggi fa ancora fatica ad accedere alla visibilità e alla dicibilità privata e pubblica (attirando a sé, letalmente, sempre più violenza e aggressività), si potrà mai rivendicare una “singolarità” che egualmente appartiene a una generazione di donne che non possono condividere in nessun modo i percorsi dei personaggi femminili di Ferrante?

Sono nata nel 1959, nei pressi di Napoli, da una madre di famiglia contadina, povera e solidale, affettuosa e premurosa. Mia madre era una donna libera, intelligente e forte; mi ha insegnato il senso della giustizia e del rispetto. Anche lei migrata nella cultura nazionale urbana, anche lei sposa per amore e libera per disamore, non ha mai sentito e vissuto il rancore, il risentimento o il pregiudizio storico e culturale (se lo ha fatto, ha lottato una vita per superarlo) ma, da essere libero e solo, ha sostenuto indefessamente la mia curiosità intellettiva, la mia “istruzione”. Non ho conosciuto violenza da mio padre – certamente euforico per il boom culturale degli anni Sessanta, e così aderente al mito del “vitellone” da perdere progressivamente ogni fascino e affezione… Potrei continuare la mia saga – che è sicuramente meno geniale di quella di Ferrante ma che appare, alla consapevolezza della mia vita, sempre irrequieta e insofferente a conformarsi alla “tipizzazione”.

Che spazio offre il “dispositivo Ferrante” all’altra da sé? Che interesse può avere a tipizzare ciò che non può e non vuole esserlo? Quale visibilità propone se la sua individuazione si associa allo stereotipo, e alla devastante malinconia che lo stereotipo porta con sé? La serie televisiva, ancor più che il romanzo, a me si rilevava impossibile da guardare e da ascoltare; che lingua era quella? Perché risuonava così falsa? E perché proprio da Napoli doveva inviarsi al mondo quel tono malinconico, triste, affannato, così imbalsamato, rigido e severo, addirittura da “cattivo auspicio”? Le donne che ho amato e amo nella letteratura e nella vita, sono benedette dalla jouissance, insofferenti al suo dialettico e destinale opposto, il “sole nero” che ha impegnato Julia Kristeva in un’opera magistrale per la liberazione delle donne, ma che certo non ne indica l’irremovibilità e/o la condivisione globale….

E perché, questa “insormontabile malinconia” condivisa dalle donne del globo, è così dolorosamente associata, all’interno della Tetralogia, alla scrittura stessa, al Libro, che, invece e diversamente, come mi hanno insegnato le dee della differenza sessuale, vola/ruba in singolarità e in differenza, facendosi progetto totale, già e sempre, inscritto nella vita delle donne avvenuta prima di ogni genesi, e sempre futura, ancora a-venire… ?

Quanti passi il genio vorrebbe ancora percorrere, forse un po’ provocatoriamente a mettere in discussione ogni certezza… Rimane, infine, l’evocazione di Derrida che, parlando della Tout-puissance-autre della Letteratura, conclude affermando che il genio è ciò che accade – contro, oltre, fuori da, e in rottura con ogni omogeneità familiare genetica, generazionale, e genetica, costituendo il gettito imprevedibile e incontrollabile di ciò che arriva a portare con sé la mutazione e la discontinuità, l’imprevedibilità e la contingenza:

Geniale non è un soggetto, né un soggetto immaginario, né un soggetto della legge o del simbolico, un soggetto possibile, ma ciò che succede […] Geniale è l’unicità di una arrivance impossibile alla quale ci si indirizza, che non è che l’improbabile destinazione dell’indirizzo – e è sempre “tu”… (p. 91)

Grazie per l’arrivo della tua generosità, Viviana.

1. J. Derrida, Genèses, généalogies, genres, et le gènie. Les secrets de l’archive, Paris, Galilée, 2003 (mia traduzione).

Su Mangialibri una recensione di Andrea Pozzali aprile 2021

Cosa si nasconde dietro il successo di un’autrice che, con la sola forza della sua scrittura, è riuscita a occupare un posto di primissimo piano nel panorama italiano e internazionale? Un’autrice che ha volutamente posto al centro del suo lavoro il tema della marginalità, che ha saputo rivisitare in modo del tutto originale una città come Napoli facendo di essa, al di là di ogni facile tentazione folcloristica, il simbolo di una condizione che riesce a colpire i lettori di tutti i luoghi del mondo? Un’autrice che parla di donne “come nessuno ha saputo fare prima”, accendendo i riflettori “su un vuoto che urlava da tempo il bisogno di essere colmato” e gettando le basi “di una concezione nuova di approccio all’esperienza di genere” in grado di superare i limiti stessi degli studi femministi? Una scrittrice “riconosciuta a livello internazionale come un’artista capace di un’influenza globale a tutti gli effetti, pur senza essersi mai presentata in forma corporea ed esprimendo la propria soggettività esclusivamente attraverso la parola scritta”?

La figura di Elena Ferrante si è imposta all’attenzione di pubblico e critica fin dal suo esordio nel 1992 con il romanzo L’amore molesto, oggetto anche di una riduzione cinematografica ad opera di Mario Martone. Il grande successo è poi arrivato nel 2011 con L’amica geniale, primo volume di una tetralogia a cui hanno fatto seguito Storia del nuovo cognome (2012), Storia di chi fugge e di chi resta (2013) e Storia della bambina perduta (2014). Libri tradotti in più di cinquanta Paesi e che hanno venduto milioni di copie, opere di una scrittrice per certi versi “misteriosa”, che ha sempre protetto il suo anonimato, facendo sorgere anche tesi discordanti in merito alla sua reale identità. Una scrittrice che nel 2016 ha avuto l’onore di essere inserita da “Time” nella lista delle 100 persone più influenti al mondo, a riprova di un successo in grado di andare ben oltre i confini nazionali. In questo Il libro di tutti e di nessuno Viviana Scarinci ripercorre tutte le tappe del percorso autoriale della Ferrante, prendendo in considerazione non solo i romanzi ma anche le interviste e i saggi contenuti nel volume La frantumaglia. Il libro analizza i temi fondamentali della narrativa della Ferrante, mettendo in luce il rapporto simbiotico dell’autrice con Napoli e l’influenza di scrittrici come Elsa Morante e Anna Maria Ortese, oltre a sottolineare la centralità delle figure femminili, colte nel loro difficile processo di emancipazione da una società nella quale il potere degli uomini è ancora predominante. Per chi ama i romanzi della Ferrante è un libro da consigliare, coloro che non conoscono le opere di questa scrittrice rischiano di perdersi in questo saggio così denso e appassionato.


Su Leggere donna una recensione di Mariana Vitale aprile 2021

Nel 2020 la SIL, Società Italiana delle Letterate, ha fatto la scelta arguta di rintuzzare con un punto interrogativo questa perdurante condanna all’invisibilità, intitolando “Invisibili?” il proprio convegno, la cui prima sessione era dedicata alla presentazione di due monografie appena uscite: Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività, di Isabella Pinto (Mimesis) e Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, di Viviana Scarinci (Iacobelli)” (…) Scarinci, dichiara fin dal sottotitolo la volontà di delineare «un ritratto delle italiane del XX secolo», e lo fa scrupolosamente, come quando traccia la mappa urbanistico-sociologica di una «città di sopra» e di una «città di sotto» che sottende le aspirazioni e i cambiamenti di status che sono raccontati in tutti i romanzi, e che si attaglia alla città di Napoli, ma anche a un panorama dell’anima. Ma ci regala soprattutto una modalità di scrittura coinvolgente e poetica, quasi mimetica rispetto a certe caratteristiche della scrittura di Ferrante che spalanca spaccati di trascendenza avvicinabili ai woolfiani “momenti di essere”, facendoci «affacciare sul tremendo»”


Su L’adigetto una recensione di Luciana Grillo del 10 dicembre 2020

Storie di donne, letteratura di genere. Un saggio che descrive l’intera produzione dell’autrice

Chi ha letto i romanzi di Elena Ferrante non può non avvicinarsi con curiosità a questo saggio che non soltanto racconta l’intera produzione dell’autrice, ma ne spiega i rapporti con la cultura internazionale e ne descrive i successi, operando confronti, ad esempio con Virginia Woolf, e recuperando brani di interviste e di articoli della misteriosa scrittrice.
Il grande successo arriva poco dopo la pubblicazione del primo dei quattro romanzi, «L’amica geniale», velocemente tradotto e pubblicato all’estero, e degli altri che seguiranno tra il 2011 e il 2015.
La fama letteraria e mediatica di Ferrante si diffonde a livello internazionale, mentre solo un anno dopo Time inserisce la scrittrice fra i 100 personaggi più influenti dell’anno.
A quel punto, tanti studiosi si interrogano su un successo così rapido, coronato infine dalla fiction «che allargherà a dismisura il pubblico di Elena Ferrante aggiungendo a quello dei suoi lettori, il numero sterminato dei fruitori delle serie televisive».
Scarinci segue il lungo fil rouge che ha tessuto l’autrice, partendo dai suoi primi scritti fino a «La vita bugiarda degli adulti», considera che sempre si incontrano ambienti umani e sociali assai diversi fra loro – basti pensare al binomio Greco-Airota nella quadrilogia e alla città di sopra e di sotto, ad Andrea, il migliore, e a sua sorella Vittoria, la peggiore nell’ultimo lavoro, – esamina il contesto storico in cui si sviluppano le storie, ritrova fra le pagine il boom economico, l’evoluzione del matrimonio, i problemi legati all’istruzione, alla migrazione, alla marginalizzazione, ecc .
E non trascura la letteratura di genere, a partire dal 1700 e venendo via via incontro al ’900, quando finalmente le lettrici «compiono un significativo progresso di consapevolezza grazie alla novità assoluta costituita dal racconto di autrici donne che parlano dalla parte delle donne».
Dunque Neera, la Marchesa Colombi, Matilde Serao sono in qualche modo le apripista, non autrici di diari nascosti agli occhi degli uomini, ma «coscienti del loro ruolo privilegiato innanzi tutto perché scrivono per professione e il loro è un lavoro retribuito».
Da queste scrittrici parte Ferrante, non a caso l’amicizia tra Lila e Lenuccia nasce grazie al romanzo Piccole donne… e poi riprende Anna Maria Ortese e le sue folle di personaggi, ricorda Elsa Morante, ammette l’uso del dialetto sapendo che «nella visceralità della propria lingua sta annidata tutta la furia e la quiescenza di cui un individuo e un popolo possano dirsi eredi», immerge «lettrici e lettori in una totalità ipotetica del vissuto sociale composta soprattutto dai violenti attriti, dagli ostacoli, dai congelamenti e dalle retromarce che le donne non solo italiane hanno vissuto quotidianamente dal momento in cui hanno iniziato il loro cammino verso il perseguimento di un percorso di autonomia».
Altro personaggio a cui Ferrante fa riferimento è Didone, «che soccombe perché simboleggia la donna abbandonata… figura chiave, tanto che l’autrice la usa per mettere in relazione la donna e la città», mentre Scarinci ci riporta, oltre che a Virginia Woolf, a Umberto Eco, a Sylvia Plath, a Silvia Vegetti Finzi, fino a Thomas Mann e a Goethe.
Dunque, per 210 pagine, viviamo seguendo i romanzi di Elena Ferrante, ci immedesimiamo nelle vicende, condividiamo i pensieri delle protagoniste, almeno di alcune.
Chi non si è mai posta una domanda come quella che Lenuccia pone a se stessa, dopo l’incontro fra la sua famiglia di origine, proletaria e caotica, e quella di suo marito Pietro, una famiglia atea, socialista, simbolo di cultura e di lotta per la giustizia sociale?
 Eccola, la domanda che prova la realistica incertezza esistenziale della scrittrice (il cui libro è stato pubblicato solo «grazie all’intervento della suocera»): «Ciascuno si portava nel corpo i suoi antenati. Come sarebbe andato il nostro matrimonio? Cosa mi aspettava? Le affinità sarebbero prevalse sulle differenze?».


Su Teatri e culture una recensione di Elide Apice 14 dicembre 2020

Sono tanti gli appassionati e le appassionate delle parole di Elena Ferrante e “Il libro di tutti e di nessuno” di Viviana Scarinci ( Iacobelli editori) prova a dare risposte alle infinite domande che i lettori e le lettrici si sono poste riguardo ai temi trattati e anche rispetto all’identità sempre celata dell’autrice.
Una scrittrice dal meritato successo non solo in Italia, ma a livello mondiale che pone Elena Ferrante tra le narratrici più famose in assoluto.
Viviana Scarinci accompagna i lettori in un lungo percorso di conoscenza di Elena Ferrante fin dal suo esordio e naturalmente attraverso la arcinota tetralogia dell’Amica geniale.
In tutti i testi di Elena Ferrante l’eterna lotta sociale, la voglia di cambiamento, l’impossibilità di un cambiamento per la necessità di restare legati alla propria estrazione sociale e al proprio luogo con uno sguardo attento alla società a ai suoi mille problemi.
Libri nei quali sono palesi i riferimenti a un certo tipo di narrazione di genere, protagoniste le donne.
Un libro, questo della Scarinci, molto articolato, apparentemente complesso, ma decisamente fruibile, soprattutto a chi ha letto la produzione della Ferrante, ricco di citazioni letterarie e naturalmente aperto a diversi spunti di riflessione su un tipo di narrazione che mette al centro le donne.
Tanto si è detto della “invisibilità”, della Ferrante, una scelta, secondo la saggista, che crea un vuoto che viene riempito dalle donne protagoniste dei suoi romanzi, assunte ad esempio delle vessazioni subite dalle donne nel corso dei secoli.
Per tutte, violenze psicologiche e non solo dettate dalle convenzioni sociali e quindi familiari che hanno sempre impedito alle donne di esprimersi secondo le proprie volontà, di scegliersi il partner giusto, obbligate a obbedire tacendo e solo per una questione di genere.
 


Su Vitamine Vaganti una recensione di Sara Marsico 7 novembre 2020

«Il tempo semplicemente scivolava via senza alcun senso, ed era bello solo vedersi ogni tanto per sentire il suono folle del cervello dell’una echeggiare dentro il suono folle del cervello dell’altra.»
Elena Ferrante (da Storia del nuovo cognome)

Il libro di tutti e di nessuno – Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo di Viviana Scarinci è un testo «ad alta densità di conoscenza ma di forte leggibilità», come recita l’apertura della collana Workshop diretta da Anna Maria Crispino ed edita da Jacobelli. L’autrice ci accompagna in un percorso, ricco di citazioni, collegamenti letterari e filosofici, spunti di riflessione e recensioni e ci avvicina alla scrittrice che ha fatto dell’invisibilità la sua caratteristica principale. Credo che, dopo aver letto questo libro, ne capiranno le ragioni anche le persone più scettiche di fronte ad un successo tanto grande, avvenuto, come spesso accade, prima all’estero e poi in Italia. Checché se ne pensi, l’opera dell’autrice invisibile è già stata tradotta in cinquanta Paesi ed ha venduto dodici milioni di copie in tutto il mondo, contribuendo a portare l’Italia all’interno di un discorso globale sulla centralità delle donne.
La fama di Ferrante arriva con l’uscita della prima parte della saga L’amica geniale, nel 2011. Il ” Time” la inserisce tra i 100 personaggi più influenti dell’anno 2016. L’“effetto Ferrante” sarà tale da far schizzare i libri scritti da donne tra la metà dei venti migliori best seller italiani nella narrativa. Chi recensisce questo libro di Scarinci è un’appassionata lettrice dell’autrice napoletana, e vi ha trovato spunti interessanti anche per i/le non addette ai lavori come lei. «Il romanzo di Ferrante è politico» ha dichiarato il regista Saverio Costanzo in occasione della presentazione della fiction di L’amica geniale, alla cui sceneggiatura ha partecipato la stessa autrice, e politica la scrittura di Ferrante indubbiamente la è, perché in grado di trasmettere contenuti politici molto più di un’ideologia. Il romanzo dell’autrice è politico «soprattutto perché segna un approdo a un modo di raccontare il femminile in una totalità che esiste da sempre, senza prevedere la centralità del femminile» (G. Fraisse, Il mondo è sessuato. Femminismo e altre sovversioni).
Nella tetralogia di L’amica geniale temi come, tra i tanti, il potere dell’istruzione e della scuola negli anni Cinquanta o il matrimonio come mezzo per compiere una scalata sociale o professionale sono trattati attraverso il racconto della vita delle due amiche, Lila e Lenuccia, che si rispecchiano una nell’altra, e di quelle dei tanti personaggi di contorno, che vivono nel “Rione” di Napoli.
In questi libri si racconta una genealogia femminile, partendo da un periodo, il secondo dopoguerra, in cui le vicende femminili non erano degne di essere tramandate alle nuove generazioni. Il romanzo di Ferrante è politico e contemporaneo anche perché «qui più che altrove, il margine è inteso come il luogo più popoloso e interessante del mondo». Insieme all’autenticità e all’invisibilità, la cifra che accompagna i romanzi ferrantiani è certamente l’ambivalenza: «Ma è pur vero che nell’ammirazione tra donne, l’ammirazione per l’altra può diventare affetto e amore, ma anche generare invidia e competizione […] in quella ricerca di identità che ha contrassegnato il Novecento, il rapporto a due (o a molte), tra donne, ci pare si giochi spesso in un rimbalzo continuo di rispecchiamenti e prese di distanza che investe le diverse forme di amicizia, le relazioni amorose e sessuali, le pratiche condivise dell’agire politico».
Scarinci, grande conoscitrice di Ferrante, ne esamina l’intera produzione letteraria e saggistica, da L’amore molesto, La figlia oscura, I giorni dell’abbandono fino a La vita bugiarda degli adulti, sviscerandone le tematiche più importanti e i collegamenti con le madri letterarie e filosofiche, oltre alla sua conoscenza profonda del femminismo e della storia delle donne. Poche sono le informazioni in nostro possesso su Ferrante e molte discendono da quella che Scarinci chiama La nuova frantumaglia, unlibro di quasi quattrocento pagine che ripubblica ed amplia il numero di materiali inediti e materiali diffusi dalla stampa internazionale fino ad aprile 2016.
Non importa in questa sede raccontare su chi si siano focalizzati i sospetti sull’identità di Ferrante dopo un articolo di “Il Sole 24 ore” che ne svelava l’identità. È indubbio che, nel dibattito che ne è seguito, con toni e parole spesso misogine e sessiste, il grande assente è stato il corpo della scrittrice, con una scelta voluta da lei stessa, quasi a confermare l’invisibilità del femminile sia nella società che nel romanzo. L’autrice del libro lo dice in modo superlativo: «Elena Ferrante ci parla di donne come nessuno ha saputo fare prima. Attraverso la propria immagine mancante ha infatti acceso i riflettori su un vuoto che urlava da tempo il bisogno di essere colmato. L’assenza dell’autrice come corpo e come identità femminile non è da considerarsi un elemento esterno al romanzo di Elena Ferrante ma è posto nell’ambito del dispositivo rappresentato da tutto ciò che concerne questa autrice, a segnalare una mancanza che investe in larga misura sia la società che lo statuto del romanzo».
In un’intervista riportata dalla saggista blogger la scrittrice, che ha scelto Napoli come ambientazione dei suoi libri e Anna Maria Ortese come riferimento culturale importante, confessa che quello che ha scritto ha avuto su di lei una portata emotiva talmente forte da spingerla a ritrovare l’integrità perduta solo attraverso il rifiuto radicale nei confronti delle manifestazioni e degli incontri pubblici in cui si presentavano i suoi romanzi.
Ferrante, attraverso le storie che racconta e significativamente attraverso L’amica geniale, riesce a far percepire ai lettori e alle lettrici contemporanee le violenze, non solo psicologiche, inflitte alle donne negli anni in cui le trame dei libri si svolgono, i forti condizionamenti sociali e culturali, la difficoltà di scegliere il loro destino, un rapporto con gli uomini complesso e difficile, l’emergere del femminismo e delle riflessioni tra donne che l’unica rivoluzione nonviolenta del Novecento, il femminismo appunto, ha provocato. Imprescindibile, per chi si accosta alla saga del Rione, la citazione di una pensatrice femminista visionaria, fondamentale per capire che cosa sono il patriarcato e il potere maschile nella descrizione della realtà e nel nominare il mondo. Mi piace ricordarle, insieme alla riflessione di una Elena Greco, ormai diventata donna.
«Sputare su Hegel. Sputare sulla cultura degli uomini, sputare su Marx, su Engels, su Lenin. E sul materialismo storico. E su Freud. E sulla psicanalisi e l’invidia del pene. E sul matrimonio e la famiglia. E sul nazismo, sullo stalinismo, sul terrorismo. E sulla guerra. E sulla lotta di classe. E sulla dittatura del proletariato. E sul socialismo. E sul comunismo. E sulla trappola dell’uguaglianza. E su tutte le manifestazioni della cultura patriarcale. E su tutte le forme organizzative. Opporsi alla dispersione delle intelligenze femminili. Deculturalizzarsi. Disacculturarsi a partire dalla maternità, non dare figli a nessuno. Sbarazzarsi della dialettica servo-padrone. Strapparsi dal cervello l’inferiorità. Restituirsi a sé stesse. Non avere antitesi. Muoversi su un altro piano in nome della propria differenza. L’universalità non libera le donne ma perfeziona la loro repressione. Contro la saggezza. Mentre i maschi si danno a imprese spaziali, la vita per le femmine su questo pianeta deve ancora cominciare. La donna è l’altra faccia della terra. La donna è il Soggetto Imprevisto. Liberarsi dalla sottomissione, qui, ora, in questo presente. L’autrice di quelle pagine si chiamava Carla Lonzi. Com’è possibile, mi dissi, che una donna sappia pensare così? Ho faticato così tanto sui libri.»
Oltre a Lonzi, Scarinci ci ricorda i riferimenti filosofici di Ferrante: Shulamith Firestone, Luce Irigaray, Adriana Cavarero, Elena Gagliasso, Donna Haraway, Judith Butler, Rosi Braidotti, Luisa Muraro. Tra quelli letterari, Morante di Menzogna e sortilegio, oltre a Ortese di Il mare non bagna Napoli. Quelli della scrittrice invisibile sono romanzi di genere che, attraverso la conoscenza approfondita della cultura, della filosofia e della storia delle donne del suo tempo, la portano a veicolare saperi filosofici, psicologici e sociali relativi al femminile ancora non metabolizzati socialmente, che però hanno saputo catturare lettrici e lettori in tutto il mondo. Soprattutto le lettrici hanno potuto trovare nei suoi testi gli strumenti per acquisire una maggiore consapevolezza dei loro ruoli di mogli, figlie, madri e ad «addentrarsi in un percorso difficoltoso ma necessario verso l’individuazione della loro soggettività in senso civico». Il denso e ricco testo su Ferrante scandaglia tutti i suoi scritti e ci introduce ad alcuni termini, come la Frantumaglia o la Smarginatura di Lila e non solo, che sono di un interesse estremo per comprendere la sensazione di incompletezza provata dalle donne in un mondo in cui sono a disagio perché fanno fatica a riconoscervisi, un mondo che non è stato pensato da loro e per loro, in cui si percepiscono come soggetti mancanti nella cerchia familiare, professionale, affettiva, sociale. Anche la parte sulla trascendenza merita una lettura approfondita, come quella che ci illustra il suo interesse per la figura di Didone, che ci richiama Una donna spezzata di Simone di Beauvoir. «Sembra un tema abbastanza screditato, ma in realtà è la tematica più crudelmente posta dalle esistenze femminili. – scriverà” la scrittrice nascosta” in una lettera a Goffredo Fofi – La perdita dell’amore è una falla, causa un vuoto di senso. La città senza amore è una città ingiusta e crudele.»
Il saggio di Scarinci, poeta e saggista, è accurato e profondo e costituisce una lettura fondamentale per comprendere appieno i testi della scrittrice invisibile, che ha saputo affascinare cittadine e cittadini globali iperconnessi di tutto il mondo, raccontando molto dell’identità di ciascuno di loro. Estremamente interessanti, anche se più complessi, sono i capitoli intitolati al concetto di trascendenza e alla sospensione dell’incredulità, utilissimo, quest’ultimo, per capire il presente della società della spettacolarizzazione. Anche il capitolo sulla questione del potere è ricco di spunti preziosi di discussione.
Il titolo del numero 30 della collana Workshop prende spunto da una dichiarazione della scrittrice invisibile: «Tra il libro che va in stampa e il libro che i lettori acquistano c’è sempre un terzo libro, un libro dove accanto alle frasi scritte ci sono quelle che abbiamo immaginato di scrivere, accanto alle frasi che i lettori leggono ci sono le frasi che hanno immaginato di leggere» (Elena Ferrante Il libro di nessuno, 2005). Il saggio di Scarinci finisce infatti così, con queste parole: «Qui finisce il libro, ma non finisce qui…» lasciando una riga tratteggiata a disposizione di chi lo ha letto e vuole continuare a scrivere le sue riflessioni.
Tra i romanzi di Ferrante la saga di L’amica geniale, in particolare, è stato per noi che l’abbiamo incontrato trasmissione diffusa della cultura di genere, attraverso la narrazione dell’amicizia tra due persone che raccontano e interpretano finalmente con voce e sguardo di donna la loro vita e le loro scelte, innamorate l’una del cervello dell’altra, condizionate dalla situazione sociale di provenienza e dall’accesso all’istruzione e alla cultura. Ad una, l’omonima dell’autrice, Elena, in perenne crisi identitaria, scuola e cultura saranno consentite, all’altra, ribelle alle convenzioni sociali e al potere maschile, vietate. È indubbio che «Il rapporto più intenso, più duraturo, più felice e più devastante risulti essere quello tra Lila e Lena. Quel molto dell’identità di ciascuno di loro. Estremamente interessanti, anche se più complessi, sono i capitoli intitolati al concetto di trascendenza e alla sospensione dell’incredulità, utilissimo, quest’ultimo, per capire il presente della società della spettacolarizzazione. Anche il capitolo sulla questione del potere è ricco di spunti preziosi di discussione.
Il titolo del numero 30 della collana Workshop prende spunto da una dichiarazione della scrittrice invisibile: «Tra il libro che va in stampa e il libro che i lettori acquistano c’è sempre un terzo libro, un libro dove accanto alle frasi scritte ci sono quelle che abbiamo immaginato di scrivere, accanto alle frasi che i lettori leggono ci sono le fr

Cos’è Contemporanea

Contemporanea nasce sottoforma di visione nel 2012 con il nome di PoEtica come una specie di attivismo territoriale di stampo utopico, forse, ma sempre sotto l’egida della poesia. Nasce affittando una piccola stanza che custodiva in uno spazio ridotto alcuni libri di poesia con l’idea di costituire un fondo librario aperto alla consultazione e in dialogo con il territorio. Per diversi anni questo è stato incredibilmente possibile grazie al sostegno della comunità, delle socie e dei soci, all’invio di moltissimi libri di poesia da poete, e poeti, e case editrici specializzate. Le nostre attività sono state sostenute da almeno tre amministrazioni comunali di diversi orientamenti politici, intervallate da un commissariamento comunale che pure ha confermato la fiducia e il contributo alle nostre attività nella scuola, con la Asl rm4 nei laboratori di scrittura nell’ambito del Dipartimento di Salute Mentale e presso il centro anziani comunale. Con gli anni abbiamo realizzato laboratori scolastici, eventi pubblici e premi letterari per la traduzione e per la poesia al fine di incrementare il valore testimoniale del fondo librario. Ci siamo avvalse/i cioè del libro di poesia come strumento di comunicazione e relazione convinte/i che potesse essere di stimolo a una più estesa partecipazione sociale e la comunità locale in seno alla quale il fondo si è costituito ci ha dato ragione attraverso forme di partecipazione durature. Per otto anni il fondo librario è stato il cuore pulsante del centro culturale Libellula, una struttura che ha ospitato molte esperienze culturali e sociali trasversali fino allo scioglimento dell’associazione Libellula nel 2020. A questo link si trovano tutti gli articoli, i progetti, le immagini che Contemporanea ha espresso in qualità di entità situata in un territorio riconoscibile. Ora Contemporanea ha cambiato per così dire statuto, almeno in senso metaforico, rimanendo, nella mia intenzione di fondatrice un ente che si propone di produrre e progettare sulla base di presupposti aggiornati alla situazione attuale anche avvalendosi delle nuove modalità di comunicazione testate con la pandemia. Il fondo librario non è andato perduto né si è disperso. Le attività di Contemporanea non smettono di riferirsi alla poesia, all’ecologia, alla scrittura delle donne, alla scuola e all’università e a ogni forma di progettazione culturale condivisa che ci paia adeguata ai contenuti che vogliamo trasmettere. Questo il gruppo Facebook di Contemporanea e il canale Spotify . Di seguito la sezione della diaria/o che proporrà le attività di Contemporanea a partire da questo nuovo corso, perciò i post di Contemporanea


Contemporanea

26 giugno 18 reading for the dead of the pandemic

Il 26 giugno alle ore 18 parteciperò con piacere a un reading online organizzato da Beppe Costa su un’idea dell’International literature festival di Berlino cui Costa ha aderito. L’incontro si articola in due eventi online, 25 e 26 giugno, trasmessi in diretta dalla pagina facebook   https://www.facebook.com/distributoreautomaticodiparole e in condivisione sul gruppo facebook di Contemporanea Fondo Librario .  All’evento…

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Identità. Giorgio Bonacini un ascolto e una nota

  L’ultimo libro pubblicato da Giorgio Bonacini è I segni e la polvere. 52 poesie distrattamente felici per Arcipelago Itaca nel 2020. Giorgio Bonacini è tra quei poeti di cui il fondo librario custodisce l’intera opera, l’ascolto seguente è tratto da due libri precedenti questo ultimo Quattro Metafore ingenue, Manni editore, 2005 e Sequenze di…

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2. Letter to the one true love testo Alessandra Cianelli traduzione e voce Sarah Waring

Contemporanea podcast la seconda parte del testo di Mourning the Dead Fish di Alessandra Cianelli. Letter to the one true love edito da TraverzBooks è tradotto da Sarah Waring che ne è anche la voce narrante. il testo http://www.alessandracianelli.com/l’editrice https://www.traverzbooks.net/il progetto https://fondopoesiacontemporanea.wordpress.com/ Ringrazio infinitamente le meravigliose compagne di questa avventura Anche su  Amazon Music, Google podcast, Apple podcast , Spreaker, Podomatic

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1. Notes for an interview with the mermaid

Oggi per Contemporanea podcast la prima parte del testo di Mourning the Dead Fish di Alessandra Cianelli. Notes for an interview with the mermaid edito da TraverzBooks è tradotto da Sarah Waring che ne è anche la voce narrante. il testo http://www.alessandracianelli.com/l’editrice https://www.traverzbooks.net/il progetto https://fondopoesiacontemporanea.wordpress.com/ Anche su  Amazon Music, Google podcast, Apple podcast , Spreaker, Podomatic

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Per Lidia

“L’arte è artificio, per definizione antitetica alla natura, ma niente è naturale nel senso consueto che si attribuisce a questa parola”. Lidia Curti, Femminismi Futuri Il compianto del pesce morto. Alessandra Cianelli da un’idea di Alessandra Cianelli, Viviana Scarinci, Sarah Waring Introduzione di Viviana Scarinci I futuri si costruiscono a partire da come scegliamo di…

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Su Un buon uso della vita di Gabriella Musetti per LM

«Quando da Bambina passavo molto tempo nei Boschi, mi si diceva che il Serpente mi avrebbe morso, che avrei potuto raccogliere un fiore velenoso, o che gli Spiriti Maligni mi avrebbero rapita, ma io non rinunciai e non incontrai altro che Angeli che erano ancora più timidi al mio cospetto, di quanto lo fossi io al loro, per questo non ho quella sicurezza nella menzogna che molti invece praticano». 

Emily Dickinson, Lettere (271)


Su Letterate Magazine Il vuoto non pretende di essere colmato una nota di lettura a Un buon uso della vita di Gabriella Musetti, Samuele Editore 2021

Società Italiana delle Letterate – SIL

Attualmente faccio parte del consiglio direttivo della Società Italiana delle Letterate (presidente Elvira Federici, vicepresidente Loredana Magazzeni, con Marta Cariello, Maristella Lippolis, Gabriella Musetti e Donatella Saroli). La mia mansione è tra l’altro quella di gestire i contenuti del sito web https://www.societadelleletterate.it/ Il sito della Società Italiana delle Letterate svolge un attività informativa, testimoniale delle attività e dei documenti multimediali prodotti in venticinque anni di ricerca nell’ambito della critica letteraria femminista e della scrittura delle donne. Alcune pubblicazioni frutto di studi collettivi e individuali sono in parte scaricabili gratuitamente dal sito e in parte pubblicati dalla casa editrice Iacobelli. In un incontro per i 25 anni della SIL del 5 giugno 2021 che ha avuto luogo nell’ambito di Feminism Fiera dell’Editoria delle Donne , di cui SIL è tra le organizzatrici, è stata illustrata una cartografia parziale delle attività della Società delle Letterate tramite i principali temi e le principali pubblicazioni prodotte dall’epoca della fondazione. Il giornale digitale della Società Italiana delle Letterate è Letterate Magazine diretto da Silvia Neonato. La rivista cartacea e digitale Leggendaria, diretta da Anna Maria Crispino (tra le fondatrici della SIL) è una pubblicazione indipendente ma strettamente connessa dal punto di vista politico, etico e relazionale alla Società Italiana delle Letterate.

Leggi gli ultimi articoli pubblicati sul sito delle SIL

Video presentazione de Il Libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante del 18 giugno 2021

Trovo particolarmente stimolante questo documento video perché illustra come il dispositivo Ferrante si possa configurare come un lavoro ininterrotto capace di portare all’emersione sempre nuovi aspetti che riguardano i temi, le genealogie e il simbolico della scrittura contemporanea al di fuori dei paradigmi critici canonici.

Sono molto lieta perciò di poter finalmente condividere l’incontro online su Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo organizzato dal Giardino dei Ciliegi il 18 giugno scorso. I temi che sono stati toccati in questo dialogo sono molti: la particolare struttura de Il libro di tutti e di nessuno, la sua vocazione interlocutoria rispecchiata anche dalla molteplicità dei riferimenti bibliografici. Di particolare rilievo quelli relativi agli studi critici di genere pubblicati nell’ambito della Società delle Letterate da Iacobelli. Le teorie femministe presenti nei testi di Ferrante e la ricerca sull’aspetto simbolico della sua opera con particolare attenzione al tema del trauma che analizzo già nella mia prima monografia su Ferrante edita da Doppiozero nel 2014.

Elvira Federici ha parlato di Elena Ferrante come una questione letteraria controversa che rende questa autrice un fenomeno politico anche nel caso in cui si tratti di un’opera scientemente costruita da un gruppo autoriale. L’intervento di Monica Farnetti (autrice tra l’altro della monografia fondamentale Anna Maria Ortese ) che si è anche riferita allo scritto di Ferrante su Dante recentemente pubblicato, ha posto un’importante accento sul valore dell’immedesimazione, consentendo con ciò al discorso di essere ampliato anche in riferimento al suo significato ambivalente di colonizzazione. Significato ripreso dall’intervento radiofonico su Mood Italia Radio e dal dialogo su Ferrante pubblicato da Leggendaria 147 in cui Silvana Carotenuto illustra proprio questo aspetto inedito di immedesimazione/colonizzazione che l’opera di Elena Ferrante incarna così intimamente. Infine Anna Maria Curci, ha messo in luce l’importanza della conoscenza della lingua tedesca e il suo coinvolgimento come terza lingua/cultura oltre all’italiano standard e il dialetto per comprendere la profondità di alcuni riferimenti reconditi dell’opera ferrantiana.

Le puntualissime domande di Clotilde Barbarulli hanno dato a ciascuna di noi l’opportunità di pensare insieme il dispositivo Ferrante attraverso alcuni temi affrontati nel Il libro di tutti. Per questo ringrazio tantissimo Il giardino dei ciliegi di Firenze, sono questo genere di incontri che danno senso al tempo e alle energie che ho impiegato fin qui nello studio di Elena Ferrante.

Perchè il romanzo di Elena Ferrante è politico

Un estratto da Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX pubblicato sul numero di Leggendaria Libri Letture Linguaggi 141/142 settembre 2020


[…] Le parole di Saverio Costanzo come interprete dell’opera di Elena Ferrante attraverso il filtro cinematografico, queste indicano in modo estremamente acuto la strada per cui la storia “pubblica” e le memorie “private” diventano, al di fuori dei manuali, un sentimento culturale ben più indicativo, che si pone tra il conscio e l’inconscio in un modo così pervasivo che, forse, è il caso di rivedere i termini in cui la storia e la letteratura si sono occupate, in passato, della ricerca della così detta verità. Perché nell’opera di Elena Ferrante è proprio il modo in cui si intende la verità, e in cui i personaggi si relazionano a questa, a essere il motore di una ricerca del vero che per come volutamente la orienta la nostra autrice, denuncia a monte di essere inutile.  

In questo senso il romanzo di Elena Ferrante è politico soprattutto perché segna un approdo a un modo di raccontare il femminile in una totalità che esiste da sempre, senza prevedere la centralità del femminile. Il romanzo di Elena Ferrante è politico perché il tema è sempre quello dell’esplorazione narrativa di una genealogia femminile cui tuttora si fatica a pensare in termini realistici, proprio per via di quello che, parafrasando Muraro, rispetto a tutto ciò che è donna, da sempre non è risultato memorabile e quindi degno di essere tramandato alle nuove generazioni.

È forse per questo che il nuovo libro di Elena Ferrante La vita bugiarda degli adulti, fin dal titolo ha a che fare con la rielaborazione della verità, attraverso il ruolo che la bugia svolge nel racconto di una storia familiare che si dimostra poggiare su presupposti fortemente dissonanti rispetto alle scelte linguistiche e comportamentali di chi ha fondato quel nucleo. Dissonanza però che la nostra autrice non focalizza in termini moralistici, in quanto la menzogna e il tradimento nella Vita bugiarda costituiranno un passaggio di testimone generazionale che dice molto sul ruolo ambiguo e sul significato non definitivo che la parola verità deve giocare sia dentro le molte possibili letture dell’opera di Elena Ferrante che nel gesto simbolico dell’assenza del corpo dell’autrice.  

Scriveva Elsa Morante in Menzogna e sortilegio sul ruolo pervasivo e con ciò fortemente significativo della menzogna in termini di eredità culturale, e non senza un filo di ironia: «Ma farsi adoratori e monaci della menzogna! fare di questa propria meditazione, la propria sapienza! rifiutare ogni prova, e non solo quelle dolorose, ma fin le occasioni di felicità, non riconoscendo nessuna felicità possibile fuori dal non-vero! Ecco che cosa è stata l’esistenza per me! ed ecco perché mi vedete consumata e magra al pari dei ragazzetti mangiati dalle streghe del villaggio. Essi dalle streghe, ed io dalle favole, pazze e ribalde fattucchiere»[1].

 È questo approccio dubitativo nei confronti della verità come dogma che probabilmente, oltre al coinvolgimento di milioni di lettrici e lettori, decine e decine di studiose e studiosi in tutto il mondo, si sono fatti portavoce di un vero bisogno di cercare “oltre”. Ossia quello di seguire il tracciato ferrantiano ognuno nel proprio ambito disciplinare, esprimendo la necessità creata da un vuoto speculativo: la ricostruzione di una genealogia femminile, la ricostruzione del rione come contesto di prossimità esclusivamente fisica, la ricostruzione di un concetto di periferia che si avvalga di un’inaspettata forza centripeta, la riconsiderazione del ruolo storico delle classi subalterne e soprattutto la marginalità scagionata dalla vergogna di non trovarsi al centro. Tutto ciò finalmente considerato come una questione di fondamentale importanza, che i tempi richiedono sia posta con urgenza al centro di ogni ambito.

Il romanzo di Elena Ferrante è politico e contemporaneo perché qui più che altrove il margine è inteso come il luogo più popoloso e interessante del mondo, senza essere per questo governato da logiche sempliciste come quelle ideologiche o populiste.

Ferrante parte da Napoli, da quello che Anna Maria Ortese chiamava il genio materno della città più teatrale del mondo, in cui l’autenticità è lo spettacolo dell’autenticità. E soprattutto la seduzione è più che altrove materna, in quanto la lontananza può estinguere ogni legame e preoccupazione come un attimo dopo fomentare il pentimento di aver voluto tanta libertà e costringerci a tornare. Come se insieme la madre, la città, l’origine fossero nemiche e amiche di una storia che riguarda un’indipendenza simbolica mai guadagnata e mai perduta, tuttavia inestinguibilmente agognata.

L’inserimento in un inizio specifico, il dopoguerra, e un luogo preciso, Napoli, là dove altrimenti si è in difficoltà a iniziare, quando si tratta di parlare delle donne italiane, riescono a farsi intendere ne L’amica geniale come le coordinate di un sistema governato da un agire orientato soprattutto dalla propria pulsione ad individuarsi. Così come Giovanna, adolescente italiana classe 1979, ne La vita bugiarda degli adulti inizia dichiaratamente quella strada sotto i nostri occhi di lettrici e lettori.  Individuarsi sia pure nell’incertezza, al cospetto delle proprie e delle altrui bugie che hanno fatto la storia del nostro Paese, perché come scrive Luisa Muraro citando Fernand Braudel[2], oltre la storia corrente c’è una storia più profonda e lenta, quella delle forme inconsapevoli del sociale. Ed è proprio questa consapevolezza o inconsapevolezza che determina la dicibilità, ossia quell’a posteriori dato dalla misura di quanto abbiamo potuto concepire o subire di uno stato di cose in cui volenti o nolenti siamo venuti alla luce.


[1]. E. Morante, Menzogna e sortilegio, Torino: Einaudi 1994, p. 21

[2]. L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, Roma: Editori Riuniti, 2006, p. 94

Revisione e costruzione

foto “Variazioni su foglia di acero” di Viviana Scarinci

Care amiche, cari amici i contenuti di questo sito sono ora in costruzione e revisione. I nuovi testi che andranno a compilare le pagine della Diaria/o saranno inseriti progressivamente tra i post del blog, i collegamenti ai vari link su questa homepage verranno resi attivi a breve. Grazie per l’attenzione con cui mi leggete e seguite i contenuti che diffondo tramite il gruppo Facebook di Contemporanea. Tra gli obiettivi della ristrutturazione dei due siti Diaria/o e Contemporanea c’è quello di rendere fruibili i contenuti e le immagini che produco, i temi di cui mi occupo e la mia discontinua presenza sui social facendo riferimento alla pagina web https://vivianascarinci.blog/ in cui troverete la sintesi della mia presenza in rete. Lo scopo è il risparmio di tempo di tutti e mio che sta alla base di una delle mie idee di sostenibilità. Ma anche l’efficacia con la quale cerco di diffondere esclusivamente contenuti che mi sembra necessario e desidero condividere con chi mi segue. Perciò due volte grazie a chi mi legge, so che capite. A presto!

26 giugno 18 reading for the dead of the pandemic

Il 26 giugno alle ore 18 parteciperò con piacere a un reading online organizzato da Beppe Costa su un’idea dell’International literature festival di Berlino cui Costa ha aderito. L’incontro si articola in due eventi online, 25 e 26 giugno, trasmessi in diretta dalla pagina facebook   https://www.facebook.com/distributoreautomaticodiparole e in condivisione sul gruppo facebook di Contemporanea Fondo Librario .  All’evento commemorativo delle morti per pandemia organizzato dal Festival di poesia di Berlino che avrà il suo culmine il 5 settembre con un reading di tutti i poeti coinvolti, parteciperò con tre brevi estratti da La favola di Lilith. Qui maggiori informazione su La favola di Lilith libro e cd.

I testi che leggerò

1

Avrei subito l’ansa come un fatto silente

avrei appreso la laguna come la convergenza

dell’acqua al buio 

se altri moventi

se altri garanti

non mi avessero emulsionata

in una fisica dirimpetta

e io non mi fossi perfezionata

nella distanza che mi divide

una dall’altra innervata 

che sloga volo e caduta.

Tutti i fatti subiti e orditi dal corpo

mi dicono che rimane sul polpastrello l’impronta

più che in questa creta plasmata altrove

2

Morire. infinito dove finisce

appuntata una fissità di incerti

l’allegagione del fiore

verbo eiaculato da una fonte

sul prosciugare

esatto svenire dalla siccità

per un lungo attimo

la notte ti asciuga

fossile indeducibile dalla sua pietra

cosa inerte mio frantume

il conflitto e sprangato

3

Ma questo lago è una quiete insapore

si gioca i momenti in alto

e spopola come una carestia dal cielo

dove l’esser dovuti

abbandono la farsa

non mi trovo e ti trovo

fantasma alato delle mie sostanze

dove in effetti sei

che baci come chi

non sappia tacere che baciando


Traduzione Natalia Nebel

1

I would have endured the bend in the river like a silent fact

I would have understood the lagoon as the convergence of water and dark

if other unearthly movers

if other guarantors hadn’t emulsified me

in an opposite physics and I hadn’t perfected myself within the distance that divides me,

one from the other innervation that dislocates flight and fall.

All the facts endured and hatched by the body

tell me that the imprint remains

on the fingertip longer than in this elsewhere moulded clay

2

To die. Infinity where it finishes

pinned down to a fixity of uncertainties the flower’s enclosure

verb ejaculated by a spring

that is draining, exact

fainting from drought:

for a long moment

the night dries you, fossil

inseparable from your stone

inert thing, my fragment

the boarder is barred and locked

3

But this lake is a tasteless quiet

playing the moments up above depletes like a famine

from the sky where the being who is owed abandons the farce,

I don’t find myself and I discover you winged phantom

of my sustenance

and I fly where, in fact, you are kissing like one

who doesn’t know how to be quiet except by kissing


La favola di Lilith è un’opera in due atti
di edo notarloberti e viviana scarinci
Libro e CD

La prima edizione comprende il CD e un libro di 24 pagine con testo a fronte in inglese nella traduzione di Natalia Nebel per una tiratura limitata di 500 copie

info vivianascarinci@gmail.com

Con SIL l’11 settembre Laudomia Bonanni

Il Direttivo SIL in carica ( Marta Cariello, Elvira Federici, Loredana Magazzeni, Gabriella Musetti, Donatella Saroli, Viviana Scarinci) sta lavorando dall’inizio del suo mandato alla costruzione di un evento che rilegga l’opera di Laudomia Bonanni.  Già nel 2013, all’interno del Seminario nazionale SIL che si tenne all’Aquila Terra e parole: donne riscrivono paesaggi violati, fu organizzata una passeggiata letteraria dedicata alla scrittrice aquilana; l’iniziativa fu preparata da Maria Vittoria Tessitore, il cui intervento su Bonanni si può leggere nel volume Terra e Parole pubblicato sul sito SIL.  La passeggiata si svolse in una città ancora profondamente segnata dal terremoto del 2009, con la maggior parte del centro storico chiuso alla circolazione. Oggi la città è rinata e i suoi storici palazzi risplendono più di prima. E anche per Laudomia Bonanni è arrivato il tempo di restituirle tutto lo spazio che merita la sua voce forte e unica nel panor ama letterario. Che questo tempo sia arrivato è dimostrato dalla nuova e per molti versi inaspettata attenzione da parte della critica, da riletture contemporanee da parte di giovani studiose e da nuove iniziative editoriali, come l’ultima in ordine di tempo della casa editrice Cliquot che ha ripubblicato il romanzo Il bambino di pietra .  Leggi una recensione di Maristella Lippolis a riguardo. 

Sabato 11 settembre a L’Aquila organizzeremo insieme alla Facoltà di Lettere dell’Università un seminario, della cui struttura daremo conto più avanti, e una passeggiata letteraria nei luoghi a cui si ispirano alcune delle opere e degli scritti di Bonanni. Informazioni societaletterate@gmail.com

Venerdì 18 giugno 17,30 Il libro di tutti e di nessuno sarà con Il giardino dei Ciliegi

Durante l’incontro radiofonico di domenica in Donne e dintorni di Mood Italia Radio ( condotto da Gilda Sciortino e Rita Barbera ) con Pina Mandolfo (tra le fondatrici SIL e dell’associazione Il femminile è politico) e le meravigliose femministe palermitane, Silvana Carotenuto (CSPG Università L’Orientale) proseguendo il discorso nato tra noi su Leggendaria 147, ha colto con grande acume e profondità alcuni punti fondamentali e ulteriori di contatto e distanza tra l’opera di Elena Ferrante e certi aspetti strettamente legati alla contemporaneità del romanzo e del femminismo intersezionale. Anche per questo motivo, e a partire da questo ulteriore punto, sono particolarmente lieta e onorata di annunciare la prossima presentazione de Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un romanzo delle italiane del XX secolo che avverrà venerdì 18 giugno alle 17,30. Infatti insieme a Elvira Federici, presidente SIL, avremo il grande piacere di incontrare Clotilde Barbarulli e le amiche del Giardino dei ciliegi di Firenze.

L’incontro avverrà a distanza e potrà essere seguito in diretta dalla pagina Facebook del Giardino https://www.facebook.com/ilgiardinodeiciliegifirenze

Il romanzo di Elena Ferrante è politico e contemporaneo perché qui più che altrove il margine è inteso come il luogo più popoloso e interessante del mondo senza essere per questo governato da logiche semplicistiche che sottraggono il femminile alla sua dimensione policroma

Per saperne di più su Il giardino dei ciliegi in Letterate Magazine.
Di Clotilde Barbarulli e Liana Borghi. Corpi di donne. E poi femminismo intersezionale, postcoloniale, intercultura di genere… Nasce ora – dal Giardino dei ciliegi di Firenze e dalla Sil – un sito che raccoglie materiali preziosi e vari della scuola in cui si insegnava imparando nel nome di una socialità tra donne amorevole, costruttiva, trasformativa Il sito www.raccontarsialgiardino.it raccoglie materiali relativi all’esperienza del progetto Raccontar/si, iniziato nel 2001 come laboratorio e poi articolato in varie iniziative la cui pluralità di sguardi e di riflessioni può esserci ancora utile culturalmente e politicamente.  Offre inoltre il pdf dei tre volumi di Raccontar/si pubblicati dalla CUEC (2003, 2004, 2006).

Podcast Elena Ferrante, la genialità della scrittura femminile su Mood Italia Radio

Chi non la conosceva prima, ha potuto amare Elena Ferrante attraverso film per il cinema e la televisione tratti dai suoi romanzi “L’amore molesto”, “I giorni dell’abbandono” e “L’amica geniale”. Una scrittrice, che ha fatto proprie grandi battaglie per i diritti delle donne e che è, quindi, il ritratto delle italiane del XX secolo. Di seguito la puntata in cui se ne è parlato domenica 13 giugno alle 9 su www.mooditaliaradio.it, nella trasmissione “Donne e Dintorni” programma condotto da Gilda Sciortino e Rita Barbera con Viviana Scarinci, autrice de Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo (Iacobelli) e direttivo SIL, Società Italiana delle Letterate, e Silvana Carotenuto CSPG Centro Studi Postcoloniali e di Genere. Presenti a questo importante momento culturale voluto da Pina Mandolfo, socia fondatrice della SIL, anche Elvira Rosa, Antonella Monastra, Loredana Rosa e Maria Grazia Lo Cicero dell’associazione “Il femminile è politico. Potere alle donne”

domenica 13 giugno ore 9 su Radio Mood Italia Il libro di tutti e di nessuno di Viviana Scarinci con Silvana Carotenuto e Pina Mandolfo

Domenica 13 giugno alle ore 9
su Mood Italia Radio
programma radiofonico

Donne e dintorni

qui per ascoltare domenica

per ascoltare da domenica su Spotify

Promosso da Pina Mandolfo ( socia fondatrice SIL Società Italiana delle Letterate)
Associazione Il femminile è politico: potere alle donne

Conducono Gilda Sciortino e Rita Barbera


Un dialogo su Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo tra Silvana Carotenuto (CSPG) e Viviana Scarinci(SIL) nato su Leggendaria 147

Grazie all’organizzazione di Il femminile è politico: potere alle donne una associazione politica e culturale di donne che hanno alle spalle una lunga vita di confronti e di elaborazioni personali e collettive, unite oggi dalla voglia di affermare il loro punto di vista su quanto sta accadendo attorno a tutti noi. Il loro principale obiettivo è quello di concorrere, con altre associazioni e singole donne, in tutto il territorio nazionale, alla creazione di soggetti politici femminili femministi.
Donne e dintorni è un programma radiofonico che nasce dall’esigenza, ma anche dal piacere di ritrovarsi, donne siciliane e non solo, di diversa estrazione sociale e culturale, su temi necessari e utili a mettere al mondo il soggetto donna. 


Identità. Giorgio Bonacini un ascolto e una nota

 

L’ultimo libro pubblicato da Giorgio Bonacini è I segni e la polvere. 52 poesie distrattamente felici per Arcipelago Itaca nel 2020. Giorgio Bonacini è tra quei poeti di cui il fondo librario custodisce l’intera opera, l’ascolto seguente è tratto da due libri precedenti questo ultimo Quattro Metafore ingenue, Manni editore, 2005 e Sequenze di vento, Le voci della luna 2011. A seguire una mia nota di lettura scritta per Contemporanea Fondo Librario sul poemetto L’infanzia dei nomi.

 

Su L’infanzia dei nomi di Giorgio Bonacini

di Viviana Scarinci

Niente è un pensiero imbecille:/ma la sua incurvatura che rotola e svia/già mi attrae.
Giorgio Bonacini
L’aria grigia esterrefatta/ si agghiaccia al suolo/percossa da mille travagli/e trafitture/che conosciamo noi/al valico sovrumano. Lorenzo Calogero

C’è un accenno continuo a una sorta di valico sovrumano di provenienza calogeriana nella poesia di Giorgio Bonacini. Un passaggio che per Bonacini, come per Calogero, ha la stessa concretezza di un attraversamento che congiunge due versanti differenti. Ossia ciò che è al di qua e ciò che è al di là del nascere: là dove il verbo “nascere” riacquista ogni minuziosa e oscura digressione che articola tutte le sue prerogative.

Il soggetto che Bonacini pone concretamente a conoscenza di quel valico ne L’infanzia dei nomi[1], ha le caratteristica di un “noi” che tuttavia è un “io” scardinato dalla propria singolarità e perciò maggiormente conscio di una cifra che assume l’aspetto di una lesione collettiva, nel momento in cui la conoscenza sembra sul punto di varcare una soglia. Una soglia che si sappia decisiva e che non si varca, rientrando nella dispersione di una memoria quasi del tutto perduta, una sorta di ricordo relativo all’agghiacciarsi primigenio dell’aria/anima a contatto con la superficialità del suolo.

Se nascendo si pervenisse al suolo da un sostanziale altrove, come pare ipotizzare Bonacini, nascere equivarrebbe a collassare in una ricaduta e in un presente che non ci vede del tutto assunti alle cose visibili. Allora bisogna che l’orientamento venga affidato alla natura incerta del suono[2]. Per Bonacini ha un suono incerto, infatti, l’unica voce che muove e attraversa il valico. Ed è udibile soprattutto a fronte della resistenza dettata dalla materia finalmente raggiunta, quando si arriva mentre tutto è già iniziato, e quella voce che pronuncia se stessa per la prima volta, si è certi di conoscerla in virtù del miraggio che, altrove, se ne è avuto.

Forse per questo l’esergo de L’infanzia dei nomi indica di porre attenzione soprattutto al linguaggio dei bambini, all’impressione, niente affatto elementare, di assenza di miti che lo contraddistingue, se non quelli che sono impartiti loro quando attraverso il mito, gli adulti imbastiscono la storia dell’avvicendarsi delle cose visibili e invisibili. In ogni caso, scrive Rosa Pierno su L’infanzia dei nomi “che siano bambini o sogni, plurime apparenze o idee proiettate, non importa al lettore instradato da Giorgio Bonacini su un percorso che ha quasi la forza di una rivelazione non comunicabile”[3]

Infatti fin da L’edificio deserto[4] si avverte la necessità, da parte del poeta, di un’enunciazione individuale ma derubricata dalla soggettività, che accetta il rischio di non essere compresa nel suo volersi rivolgere comunque al logos dominante. È così che quel “noi”, che scandisce tutto lo svolgimento de L’infanzia dei nomi, inizia lettrici e lettori a un tipo di esplorazione la quale procede per digressioni che non qualificano nulla, pur enunciando un cifrario che ha la stessa attendibilità del sillabario di certezze in uso. Il sintagma amoroso che consente a quel frammento di contenere questa ricaduta infantile, già veniva espressa da Bonacini ne L’edificio deserto:

Calore – inattuabile/ luogo di inverificabili amori,/ logologia esaustiva assurda/ poiché non predisposta in avvenire

L’unica assunzione di realtà possibile, può avvenire nel ricordo del presente, scriveva Bonacini in quel suo libro: le cose che apparentemente si stanno compiendo adesso, sono altre da quelle che la memoria può tentare di riassumere in questo momento. Precisa Flavio Ermini nella postfazione dell’ultima edizione di Teneri Acerbi[5] “Nel pensiero poetico (…) è esattamente la separatezza a fare problema”. Una separatezza da punto a punto del percorso che non tende verso raggiungimenti ma piuttosto si compie nella copertura ritmica del tempo, manifestata da un’oscillazione più significativa di qualsiasi approdo. Allora può accadere che l’infanzia sia un luogo che si raggiunga da reduci, come una nudità di ritorno, un ritrovamento perinatale, il recupero di un sé tutt’uno col materno, un sé preesistenziale che conserva intatta la pluralità del possibile e si manifesta in tutta la sua integrità conchiusa e perenne, talvolta sottacendo, talvolta sovrintendendo ogni sceneggiatura e ambientazione di poi.

L’obiettivo di Bonacini è l’individuazione di un’urgenza rivolta alla parola ancora non conquistata, che dilata in intensità fini a se stesse. Intensità pregresse che nonostante manifestino la necessità di esprimersi, sviano il vaglio dello sguardo che già si pone nella postura algebrica che calcola ciò che è visibile e ciò che non lo è. È questo il necessario ritorno cui conduce L’infanzia dei nomi: cosa potrebbe accadere dopo e di più importante, rispetto a questa intensità intatta e sottratta all’offesa della nomina? Se non una lunga e inutile partita secondo l’avvicendarsi egemone del marchio e del possesso?

Bonacini cerca l’intensità prima che si indebiti e diventi linguaggio: è un lavoro mnemonico rischiosissimo di cui L’infanzia dei nomi mostra l’ossimoro smagliante nel suo comporsi entro una mappa a ritroso. La mappa di una voluta retrocessione compartecipe ma solo perché avvinta dalla necessità della propria stessa individuazione. Il viaggio in un a posteriori che progressivamente scolora, allo stesso modo che scolorano tutti gli orizzonti davvero avvicinati anche solo di un passo.

A leggerlo come un racconto, L’infanzia dei nomi, ci si accorge che tutto ha inizio con una rivelazione: se allora li avessimo guardati veramente, tutti i nomi non ancora pronunciati, avremmo potuto vederli prima che sparissero, riprodotti nella loro solitudine infantile, suggellati in similitudini cieche, provenienti da quell’ignoto-prima-di-saperne che articola la saggezza suprema e perduta dei bambini. L’infanzia schiude il regno della separatezza in cui lasciati, adagiati, compresi nei loro segreti i nomi minuscoli mantengono per sempre la stessa inviolabilità dei corpi minuscoli, e i nomi come i corpi restano perennemente irrorati dal candore niveo del loro primo sangue.

Tuttavia esserci allorché essi c’erano, non è stato possibile se non che esserci solo ora, attraverso il mito ritardatario della loro storia che certo non può essere del tutto loro, in quanto siamo noi a raccontarla. E solo dopo che li abbiamo irrimediabilmente persi:

Se avessimo capito – se solo/avessimo ascoltato i loro soffi/i mormorii, tutti i dolori tra le cose/anche dormire, anche restare/accartocciati in scricchiolii/avrebbe dato all’emozione/un segno vivo, un’altra traccia/un senso vero di attenzione.

E soprattutto quel nome che sarebbe stato importante ricordare più di ogni altro, si è lasciato dimenticare nella fugacità della sua stessa crescita, ingannato da un segmento di tempo ben teso tra età e età, costretto a un indirizzo frontale, quando per garantirgli la sopravvivenza sarebbe bastato molto meno:

Ma per muovere quell’unico/congegno avremmo usato poco/più di un occhio solo – un colpo/breve, nitido, addestrato/a catturare nella notte le paure/e i vuoti al petto, i sogni brevi/che costringono a gelare ogni/pensiero, al sonno di un ricordo/nella gola, e l’istinto tra le dita.

In effetti sarebbe bastato poco perché quel nome sopravvissuto e rafforzato dall’essere pronunciato nella sua esattezza, fosse venuto in aiuto piuttosto che essere soccorso, portando una dote molto più risolutiva di un’allusione entro il teatro di fantasia delle nostre convinzioni. Quel nome e soltanto quello, avrebbe soccorso la folla di tutti quei nomi orfani così cupi, così chiusi e ammutoliti incapaci di essere nutriti da un qualche vero dissenso perché proprio lì anche/un piccolo e indicibile ronzio sarebbe/nato a fiato morto – senza voce.

Infatti non è sopravvissuto quasi nulla a quello che sembra soprattutto uno sperpero. E quasi nulla sarebbe risultato superstite, se anche fosse accaduto che la cronaca del venire e dell’andarsene di quel nome, avesse coinciso con l’attenzione millimetrica di un autentico rispecchiamento e con il tempismo inaudito con cui l’intermittenza affonda nel tempo più di quanto affondi il divenire. Non è dunque accaduto nulla di salvifico, il tempo in ogni caso non risarcisce nessuno e quello che rimane del nostro vero nome è poca cosa oltre l’orizzonte disatteso dell’attenzione adulta:

una strana/sorpresa fuggita dal corpo/e lasciata da sola a cantare/a concedere un dono, a lasciarci/guardare e finalmente a provare/una fame di consolazioni, ignota/e sensibile, stretta al suo mondo/o in un legno d’appoggio avvitata.

13.
E non avremmo chiesto nulla
non ci saremmo chiesti niente
se non fossimo inciampati
se l’aggressione che li avrebbe
portati a svaporare non fosse
stata l’unica emozione, quella
stessa differenza dentro l’ombra
di una scienza o il vecchio amore
senza ritmo, senza frasi, in sordità.
Allora non sarebbero potuti
riapparire, né svanire o ritornare
in questo luogo come foglie
appese a poco – fortunatamente
inesorabili in quel poco.

14.
Se tutta quella forza e quelle
immagini, il teatro in fantasia
delle nostre convinzioni sulla
scena, non ci avessero ingannato
non sarebbero rimasti così cupi
così chiusi e ammutoliti non
avrebbero taciuto il loro sibilo
attenuato fortemente quel fruscio
dando un oscuro sentimento
al senso d’arte, a quel dettaglio.
Non avremmo più potuto alimentarci
nel dissenso, perché lì anche
un piccolo e indicibile ronzio sarebbe
nato a fiato morto – senza voce.

 

Bibliografia di Giorgio Bonacini

Non distruggete l’immondizia Correggio, Edizioni Gabiot, 1976; Teneri acerbi con una nota critica di Giuliano Gramigna, Verona, Anterem Edizioni, 1988 (Premio Lorenzo Montano); L’edificio deserto con una nota critica di Niva Lorenzini, Bologna, Edizioni di Parol, 1990; Sotto la luna con Giovanni Infelìse, Bologna, Book Editore, 1991; Il limite con una nota critica di Lucio Vetri, Bologna, Book Editore, 1993; Falle farfalle con disegni di Alberta Pellacani, Verona, Anterem Edizioni, 1998; Quattro metafore ingenue, Lecce, Manni Editore, 2005; Sequenze di vento con prefazione di Mara Cini  e postfazione di Marco Ercolani, Le Voci della luna, 2011; Teneri Acerbi 53 poesie, con prefazione di Flavio Ermini, Anterem 2014; I segni e la polvere. 52 poesie distrattamente felici per Arcipelago Itaca nel 2020.

[1] Il testo integrale http://www.poesia2punto0.com/2015/03/22/inediti-n-24-giorgio-bonacini/
[2] La natura incerta del suono testo pubblicato su Anterem 88 http://www.anteremedizioni.it/numero_88_giugno_2014
[3] http://rosapierno.blogspot.it/2015/11/giorgio-bonacini-infanzia-dei-nomi-e.html
[4] https://rebstein.wordpress.com/2009/10/17/ritmi-dinsonnia-di-giorgio-bonacini/
[5] http://www.anteremedizioni.it/teneri_acerbi_di_giorgio_bonacini

Il genio e ciò che accade. Leggendaria 147 Carotenuto/Scarinci sul Dispositivo Elena Ferrante

Da dove viene quella tendenza “sociale” che conduce a marginalizzare ciò che è in vari modi incontrollabile, dubitativo oltre che spaventoso per la sua coriacea imprevedibilità, quando il movimento emancipatore si attiva davvero nell’esistenza di una donna?

Leggendaria 147 dedica 5 pagine a un dialogo tra Silvana Carotenuto Viviana Scarinci su Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo. Linguaggio, genio, assenza e poesia, genealogie e generazioni, storia, esproprio e malinconia sono parole che si reciprocano in un lungo scritto che affrontando le tematiche principali dell’opera di Elena Ferrante schiude su prospettive nuove e ulteriori.

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2. Letter to the one true love testo Alessandra Cianelli traduzione e voce Sarah Waring

Contemporanea podcast la seconda parte del testo di Mourning the Dead Fish di Alessandra Cianelli. Letter to the one true love edito da TraverzBooks è tradotto da Sarah Waring che ne è anche la voce narrante.

il testo http://www.alessandracianelli.com/
l’editrice https://www.traverzbooks.net/
il progetto https://fondopoesiacontemporanea.wordpress.com/

Ringrazio infinitamente le meravigliose compagne di questa avventura

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1. Notes for an interview with the mermaid

Oggi per Contemporanea podcast la prima parte del testo di Mourning the Dead Fish di Alessandra Cianelli. Notes for an interview with the mermaid edito da TraverzBooks è tradotto da Sarah Waring che ne è anche la voce narrante.

il testo http://www.alessandracianelli.com/
l’editrice https://www.traverzbooks.net/
il progetto https://fondopoesiacontemporanea.wordpress.com/

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2. Lettera all’unico grande amore testo e voce Alessandra Cianelli

Il 14 e 15 maggio saranno disponibili i due ascolti del testo di Alessandra Cianelli in lingua inglese attraverso la traduzione e la voce di Sarah Waring

Lettera all’unico grande amore  è la seconda e ultima parte de Il Compianto del pesce morto di Alessandra Cianelli. I diritti dell’opera legata al progetto sono di esclusiva proprietà di Alessandra Cianelli che cortesemente li ha resi disponibili per questa occasione (cianellialessandra@gmail.com). Questo secondo episodio è frutto di una collaborazione tra l’artista, Traverzbooks (https://www.traverzbooks.net/) e Contemporanea Podcast
il progetto https://vivianascarinci.blog/2021/05/06/per-lidia/

Ricevi la versione in italiano e in inglese del numero sette di Traverzine didicato a Il compianto del pesce morto di Alessandra Cianelli

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1. Appunti per un’intervista alla sirena voce e testo Alessandra Cianelli

il 9 aprile la seconda parte

Appunti per un’intervista alla sirena è la prima parte de Il Compianto del pesce morto di Alessandra Cianelli. I diritti dell’opera legata al progetto sono di esclusiva proprietà di Alessandra Cianelli che cortesemente li ha resi disponibili per questa occasione (cianellialessandra@gmail.com). Questo primo episodio è frutto di una collaborazione tra l’artista, Traverzbooks (https://www.traverzbooks.net/) e Contemporanea Podcast
il progetto https://vivianascarinci.blog/2021/05/06/per-lidia/

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Per Lidia

“L’arte è artificio, per definizione antitetica alla natura, ma niente è naturale nel senso consueto che si attribuisce a questa parola”. Lidia Curti, Femminismi Futuri

Il compianto del pesce morto. Alessandra Cianelli

da un’idea di Alessandra Cianelli, Viviana Scarinci, Sarah Waring
Introduzione di Viviana Scarinci

I futuri si costruiscono a partire da come scegliamo di vedere ciò che vediamo, scriveva qualche tempo fa Federica Timeo a proposito di un libro importante come Femminismi futuri. Teorie. Poetiche. Fabulazioni a cura di Lidia Curti, con Antonia Anna Ferrante Marina Vitale (Iacobelli, 2019). L’importanza di certi libri si comprende dalla misura in cui esercitano su lettrici e lettori un potere diverso da quello che il primo significato di questa parola suggerisce. I libri davvero importanti generano a loro volta imponderabilmente, dialogando con la nostra capacità di guardare e ascoltare, spostando di qualche grado il significato della parola potere da quello consueto di agente che incide in forma volitiva sulla realtà a quello sempiterno che vi si determina e insieme conduce altrimenti. Con il progetto “Il compianto del pesce morto. Alessandra Cianelli” abbiamo inteso illustrare nel metodo e nel merito il carattere di questa fuoriuscita dal consueto avvenuta su uno dei molti crocevia di quell’altrimenti. Altrimenti, come il senso meno consueto di intendere la natura può essere saturo di un futuro felicemente diverso. 

performare il tema

Il punto di partenza è un testo. In questo caso un testo di Alessandra Cianelli edito nella versione in italiano e inglese da Traverzbooks come settimo tipo delle sue pubblicazioni online e prodotto da Contemporanea podcast in quattro episodi: prima e seconda parte in italiano con introduzione di Viviana Scarinci, prima e seconda parte in inglese con chiusura di Sarah Waring. La voce narrante dei primi due episodi in italiano è quella dell’autrice, la voce narrante del terzo e del quarto episodio in inglese è di Sarah Waring. Nella prima parte del testo Appunti per una intervista alla Sirena siamo sulle tracce di Lei e il mood è quello del rimpianto per quella sua natura sempre veicolata dalla memoria che si lega altrimenti alla specie, allo spazio aereo e liquido e al tempo. Nella seconda parte Lettera all’unico grande amore l’evocazione è riuscita e Cianelli dà parole e voce alla sirena e al suo porsi a metà tra specie, iscrivendola nell’ossimoro Natura che questa figura di mezzo rappresenta.

supporti altri, (bi)linguismi e distribuzioni alternative  

Dunque un testo fruibile in versione bilingue proposto attraverso due pieghevoli digitali e quattro episodi audio. La natura dei supporti e di come si legano al tema del narrato e al tempo dilatato della fruizione, creano una non-linearità completamente dedita a questa performance e sono suggellati da un unico vincolo, quello collaborativo della gratuità. Anche attraverso la scelta e l’uso dei supporti a nostra disposizione abbiamo creduto di illustrare una circolarità creativa inedita a costo produttivo limitato, evocando anche fattualmente un circuito attivato appositamente per la produzione di una storia differente da quella risaputa e un narrato impegnato nella riproduzione artistica di un corpo femminile privo di qualifica, come appunto quello ibrido della sirena.

L’artista

Alessandra Cianelli vive e lavora a Napoli. Ricercatrice e artista indipendente, praticante culturale, incrocia mezzi e discipline diverse (film-video, disegno, fotografia, performance, radio, arte sonora, scrittura). Nel progetto Il paese delle terre d’Oltremare (2012-2021), focalizzato sull’ Archivio (coloniale) e sul complesso espositivo della Mostra (delle Terre) d’Oltremare nella città di Napoli, così come nell’investigazione sui processi di abbandono e/o scomparsa di comunità e culture rurali Dormitio Virginis/Wheat, seeds, culture, agriculture 2008-2018 Biological Archive, Biographical Archive 2010-2020, la ricerca si sviluppa all’intersezione tra pratiche della memoria privata (archivi biografici) e collettiva. È membro del Centro Studi Postcoloniali e di Genere, Università l’Orientale. Ha fondato dal 2014 l’Associazione culturale Dormire fondazione, residenza informale a Napoli per pensatori, ricercatori e visionari.

Partnership                                                                                                                                           

La molteplicità, il bilinguismo, l’aperiodicità, la gratuità e le modalità di distribuzione alternative di questa operazione culturale si sposano con gli intenti creativi e artistici della produzione editoriale di Traverzbooks e della produzione sonora dei podcast di Contemporanea che inizia con questo progetto a mettere a punto un orientamento ulteriore rispetto quello a cui il fondo librario si è ispirato per quasi dieci anni. Dall’inizio della pubblicazione di Traverzine (la rivista digitale sul cui numero settimo uscirà il testo di Alessandra Cianelli) la pandemia ha portato con sé limitazioni al viaggio senza precedenti. Il motivo portante della zine è legato a temi ambientali, alla poesia e agli interrogativi sollevati dalle diverse percezioni del viaggio d’affari, di svago o di migrazione. Dal punto di vista editoriale la zine è sempre disponibile in due versioni, una cartacea che viene scaricata e stampata gratuitamente e una versione digitale pronta per essere letta sullo schermo, ciò avviene separatamente  per entrambe le versioni, in italiano e in inglese, del testo editato. Dopo tutto questo tempo trascorso in isolamento, abbiamo bisogno ora più che mai di ripensare il viaggiare e di cogliere questo momento come un’occasione per ridefinire le nostre aspettative per il futuro.

Calendario della performance


7 maggio Il compianto del pesce morto, pubblicazione del testo  in italiano e inglese Traverzine 

8 maggio prima parte Appunti per una intervista alla Sirena Contemporanea podcast

9 maggio seconda parte Lettera all’unico grande amore Contemporanea podcast

14 maggio versione inglese Contemporanea podcast

15 maggio versione inglese Contemporanea podcast

Free Download del testo: https://www.traverzbooks.net/it/traverzine

Dove ascoltare i 4 episodi

Anche da

https://music.amazon.it/podcasts/6255aa0c-fea7-4b57-8bcb-46a6c53b8893/CONTEMPORANEA-Podcast

https://podcasts.google.com/feed/aHR0cHM6Ly93d3cuc3ByZWFrZXIuY29tL3Nob3cvNDg2NTg0Ny9lcGlzb2Rlcy9mZWVk

https://www.podomatic.com/podcasts/vivianascarinci

info Alessandra Cianelli

dormirefondazione@gmail.com cianellialessandra@gmail.com

Una recensione di Andrea Pozzali su Magialibri

Grazie infinite a Andrea Pozzali del Mangialibri per questa nuova recensione ‘Il libro di tutti e di nessuno Viviana Scarinci ripercorre tutte le tappe del percorso autoriale della Ferrante, prendendo in considerazione non solo i romanzi ma anche le interviste e i saggi contenuti nel volume La frantumaglia. Il libro analizza i temi fondamentali della narrativa della Ferrante, mettendo in luce il rapporto simbiotico dell’autrice con Napoli e l’influenza di scrittrici come Elsa Morante e Anna Maria Ortese, oltre a sottolineare la centralità delle figure femminili, colte nel loro difficile processo di emancipazione da una società nella quale il potere degli uomini è ancora predominante’ leggi tutto

domani 28 aprile ore 18 Elena Ferrante Il Libro di tutti a Feminism Fiera dell’editoria delle donne

Con Feminism 4, il Centro Studi Postcoloniali e di Genere – CSPG dell’Università L’Orientale di Napoli, Società Italiana delle Letterate e Iacobelli verrà trasmessa mercoledì 28 aprile alle 18 la presentazione di “Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo” di Viviana Scarinci (Iacobelli Editore). Con l’autrice intervengono Silvana Carotenuto e Tiziana de Rogatis.L’incontro sarà trasmesso in diretta attraverso questi link o potrà essere guardato in seguito

https://m.youtube.com/cha…/UCjzVpcgVh6ByDnOe7zJHbuw/videos
https://www.facebook.com/feminismfieraeditoria/

su Silvia Federici per Letterate Magazine

In un articolo sul New York Times Magazine di Jordan Kisner pubblicato a metà febbraio scorso si parla di come la filosofa Silvia Federici avesse previsto una delle conseguenze più importanti della pandemia 2020 sottolineando come tutti oggi negli USA, dicano di lei che aveva ragione. Emigrata da Parma quasi mezzo secolo fa di Federici se ne era parlato molto negli anni 70 come una delle fondatrici di Wages for Housework, un collettivo internazionale che per la prima volta nella storia propose una retribuzione statale per le faccende domestiche. Oggi su Letterate Magazine un mio commento, che è anche il racconto, di come, cosa e perché dagli Stati Uniti all’Italia siamo sempre di più quell* convint* che Silvia Federici già negli anni 70 aveva capito tutto.  Grazie moltissimo a Silvia Neonato e alla fantastica redazione, che bello tornare a scrivere per voi!

Feminism 4 Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo. Mercoledì 28 aprile ore 18!

Questo di Viviana Scarinci è il terzo libro che l’autrice pubblica sul dispositivo Ferrante (Elena Ferrante, eBook doppiozero, 2014, Neapolitanische Puppen. Ein Essay über die Welt von Elena Ferrante,  trad. Ingrid Ickler, LaunenWeber, 2018). In 42 brevi capitoli viene ricostruito tutto fin dall’inizio cioè da quel fatidico 1992 in cui uscì L’amore molesto.  Utilizzando come cartina di tornasole le trame e i linguaggi  di tutti i libri e della fiction di cui Elena Ferrante è autrice, Scarinci racconta la favola verissima dell’incredibile ascesa di una scrittrice italiana invisibile che oggi è diventata la nostra autrice più nota e riconosciuta al mondo.

Le strategie finzionali, la misurazione della scrittura di genere con le logiche del potere patriarcale, il femminismo della differenza, la strategia simbolica dell’invisibilità, lo storytelling calibrato e modernissimo ma anche l’amicizia femminile e l’ambivalenza relazionale, il matrimonio all’italiana, il sesso e l’amore negli anni post-traumatici del boom economico. E ancora i riferimenti e rispecchiamenti internazionali in cui Elena Ferrante inserisce in termini letterari, politici e storici i contenuti prettamente narrativi della sua opera. Infine ma ancora non è tutto, il classismo e i linguaggi contraddittori che ne sono espressione.   

In dialogo

Silvana Carotenuto (socia SIL) direttrice del Centro Studi Postcoloniali e di Genere – CSPG dell’Università L’Orientale di Napoli, Tiziana de Rogatis (socia SIL), Università per Stranieri di Siena, capofila degli studi ferrantiani con Elena Ferrante. Parole Chiave edizioni e/o, 2018 e l’autrice  Viviana Scarinci,  direttivo SIL, saggista e poeta responsabile del progetto Contemporanea fondo librario.

Iscriviti ai podcast di CONTEMPORANEA per ascoltare notizie, presentazioni, performance, reading, eventi audio

Per seguire l’incontro in diretta o per guardare la registrazione in un secondo momento
https://m.youtube.com/channel/UCjzVpcgVh6ByDnOe7zJHbuw/videos
https://www.facebook.com/feminismfieraeditoria/

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Il Mattino

Il gioco del rispecchiamento letterario messo in campo da Viviana Scarinci è vario e complesso, ed ha le sue pagine più convincenti dove si riflette sui punti di contatto con l’ottica di Anna Maria Ortese. Titti Marrone

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Il Manifesto

Viviana Scarinci, per Iacobelli editore, pubblica «Il libro di tutti e di nessuno», un ritratto storico-politico. La ricezione che accoglie in modo più o meno ideologico un’opera letteraria diviene anch’essa parte della storia che la accompagna, come accadde a Elsa Morante. Laura Fortini

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L’Adigetto

Chi ha letto i romanzi di Elena Ferrante non può non avvicinarsi con curiosità a questo saggio che non soltanto racconta l’intera produzione dell’autrice, ma ne spiega i rapporti con la cultura internazionale e ne descrive i successi, operando confronti, ad esempio con Virginia Woolf, e recuperando brani di interviste e di articoli della misteriosa scrittrice. Luciana Gallo

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Teatri e cultura

Un libro, questo della Scarinci, molto articolato, apparentemente complesso, ma decisamente fruibile, soprattutto a chi ha letto la produzione della Ferrante, ricco di citazioni letterarie e naturalmente aperto a diversi spunti di riflessione su un tipo di narrazione che mette al centro le donne. Elide Apice

Viviana Scarinci,  Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante. Un ritratto delle italiane del XX secolo. Iacobelli editore, Guidonia-Roma, 2020, 213 pagine, 16 euro e-Pub 7,99 euro

Leggere Donna “Scarinci, dichiara fin dal sottotitolo la volontà di delineare «un ritratto delle italiane del XX secolo», e lo fa scrupolosamente, come quando traccia la mappa urbanistico-sociologica di una «città di sopra» e di una «città di sotto» che sottende le aspirazioni e i cambiamenti di status che sono raccontati in tutti i romanzi, e che si attaglia alla città di Napoli, ma anche a un panorama dell’anima. Ma ci regala soprattutto una modalità di scrittura coinvolgente e poetica, quasi mimetica rispetto a certe caratteristiche della scrittura di Ferrante che spalanca spaccati di trascendenza avvicinabili ai woolfiani “momenti di essere”, facendoci «affacciare sul tremendo». Marina Vitale

Vitamine vaganti, Toponomastica Femminile Molti pensieri sono scaturiti in noi come corollari di quelli espressi dall’autrice invisibile, proprio come suggeriscono il titolo e le riflessioni di Viviana Scarinci, il cui saggio è un’indispensabile guida alla lettura consapevole dei romanzi, dei saggi e degli articoli di Ferrante. Sara Marsico

16 aprile ore 18 giornata conclusiva del Reading di Primavera organizzato da SIL

Reading di Primavera SIL

(3 e 16 aprile 2021)

Questa è la prima di una serie di iniziative che vedono SIL impegnata nella diffusione, nel riconoscimento e nello studio della poesia scritta da donne. Se non fossi già socio/a, o non ti fossi già associato/a ti preghiamo di considerare di iscriverti alla Società delle Letterate (trovi le modalità all’inizio della homepage https://www.societadelleletterate.it/) per partecipare al nostro impegno e sostenerlo attraverso il tuo contributo.

La registrazione delle due giornate del reading sarà pubblicata sul sito SIL

È ancora possibile partecipare in qualità di ascoltatrici/ascoltatori inviando una email con nome e cognome a societaletterate@gmail.com

Marina Vitale su Elena Ferrante per LeggereDonna

“Nel 2020 la SIL, Società Italiana delle Letterate, ha fatto la scelta arguta di rintuzzare con un punto interrogativo questa perdurante condanna all’invisibilità, intitolando “Invisibili?” il proprio convegno, la cui prima sessione era dedicata alla presentazione di due monografie appena uscite: Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività, di Isabella Pinto (Mimesis) e Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo, di Viviana Scarinci (Iacobelli)”.

Tiziana de Rogatis, Elena Ferrante. Parole chiave, edizioni e/o, Roma, 2018 pagine 296, € 18,00
Isabella Pinto, Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività
Mimesis, Milano 2020
pagine 256, € 20,90

Laura Sarnelli, “Women Crossing Borders. Elena Ferrante’s Smarginature Across Media”, in «Californian Italian Studies», 10.2, 2020

Scarinci, dichiara fin dal sottotitolo la volontà di delineare «un ritratto delle italiane del XX secolo», e lo fa scrupolosamente, come quando traccia la mappa urbanistico-sociologica di una «città di sopra» e di una «città di sotto» che sottende le aspirazioni e i cambiamenti di status che sono raccontati in tutti i romanzi, e che si attaglia alla città di Napoli, ma anche a un panorama dell’anima. Ma ci regala soprattutto una modalità di scrittura coinvolgente e poetica, quasi mimetica rispetto a certe caratteristiche della scrittura di Ferrante che spalanca spaccati di trascendenza avvicinabili ai woolfiani “momenti di essere”, facendoci «affacciare sul tremendo»”

“Naturalmente anche in Italia la critica si era accorta di quest’autrice; soprattutto negli ambienti della critica femminista. Ma la realtà accademica istituzionale ha tardato a lungo a prenderne atto, e certamente non prima dei riconoscimenti d’oltre Atlantico. È del 7 aprile 2017 una fitta giornata di studio, intitolata ‘Di Napoli non ci si libera facilmente’, per Elena Ferrante, organizzata presso l’Università di Napoli, Federico II, con il coinvolgimento di Tiziana De Rogatis, che l’anno successivo avrebbe pubblicato Elena Ferrante. Parole chiave: prima monografia sistematica uscita in Italia, dedicata alla quadrilogia de L’amica geniale (da lei definita «un classico dei nostri tempi»). Questo studio offre un riferimento imprescindibile per la comprensione della rappresentatività della scrittura di Ferrante nel panorama culturale italiano e non solo, ma non si può dire abbia scalfito la sordità del mondo accademico e in particolare dell’Italianistica che non sembra aver modificato sostanzialmente l’atteggiamento di superiorità escludente riservata in un passato assai prossimo a figure geniali di scrittrici (Goliarda Sapienza, Elsa Morante, tante al- tre) che avrebbero dovuto giganteggiare sull’orizzonte letterario e la cui pubblicazione è stata a lungo bloccata, ritardata, osteggiata”.

Annina e la bibbia d’asfalto

Il secondo podcast è dedicato a una collaborazione di Contemporanea diciamo numero 0 con una rivista digitale. Si tratta della redazione di Bibbia d’asfalto che attraverso Stefania D’Elia e Vincenzo Lomanno mi ha chiesto di parlare di Annina tragicomica (formebrevi 2017) sul loro sito (qui trovate il testo del podcast e gli estratti selezionati frutto di questa collaborazione ). Sono in programma diverse collaborazioni di Contemporanea attraverso Spotify con artiste e artisti, scrittrici e scrittori, riviste digitali, siti, e poete e poeti che leggeranno estratti dai propri libri custoditi nel fondo librario. Sono grata a Stefania di avere avuto l’opportunità di parlare di Annina dopo qualche anno, era in qualche modo necessario farlo ora. Grazie infinite.

C’era una volta e poi non ci fu mai più

Contemporanea ricomincia con una favola

di Viviana Scarinci per Contemporanea Fondo Librario

C’era una volta e poi non ci fu mai più. Poi si fece notte improvvisamente e sopraggiunse dall’oggi al domani un evento più forte di tutto a chiuderci in casa, a rovesciare tutti i tavoli in cui stavamo vincendo e perdendo e per un po’ non c’è stato verso di articolare un bel niente. Non potendo uscire di casa, la vita si spostò tutta online. La vita dei nativi digitali e quella di chi ancora credeva ai padri e alla loro separazione del vivente in categorie normative. Nel frattempo c’era già stato chi si era fatto inghiottire dagli anfratti digitali dell’esistenza e poi si era fatto espellere, e digerito, inacidito, si era fatto rimangiare di nuovo. C’era chi alle origini lo aveva amato fin dentro i suoi anfratti allora esotici, quell’internet. C’era andato e tornato come di ritorno da una caccia in pieno paleolitico, con gli occhi allucinati eppure convinto che la realtà fosse quella dei corpi materiali di cui tutti avevamo già nostalgia ma lasciavamo indietro. E che comunque stavamo perdendo. E che comunque sempre più di rado interagivano tra loro, internet o no, pandemia o no. Insomma era un bel casino. Chiuse in casa, orbate dei voli delle libellule e degli avvoltoi, potevamo non accorgerci che una pandemia era orribilmente sopraggiunta per sterminare ma anche per risolvere un po’ di separatezze.

Un bel giorno infatti quando stavamo tornando a un regime di semi reclusione dato il problema pandemico dilagante, ci siamo accorte che ancora si trattava di separazioni, di due Italie, di due entità autonome e distinte ma ora in certi casi, realmente, le due Italie comunicavano. La pandemia era quindi vero che aveva dato un’accelerata inaspettata ai processi di digitalizzazione dell’economia relazionale, lavorativa e sociale, ovunque, stando a quello che dicevano i ben informati. Quindi anche nel bel mondo della cultura, della cultura orgogliosamente non mainstream. Quell’eldorado frequentatissimo a parole ma che quando ci andavi davvero, risultava spopolato peggio dei borghi terremotati dell’Appennino centrale, ora nei webinar e negli incontri online, traboccava di presenze e di interlocuzioni finalmente non impedite da distanze e costose percorrenze.

Il divieto di aggregazione per motivi sanitari aveva davvero avuto come conseguenza la promozione degli spazi culturali che divennero un’unica illimitata zona parageografica densamente popolata, socialmente evoluta in cui la virtualità era solo un dettaglio innominabile. Tuttavia non si poteva sapere se fosse un fenomeno che sarebbe durato giusto il tempo di fugare il senso di isolamento dovuto al trovarsi quasi tutti, di nuovo, in zona rossa. Eppure un mutamento fondamentale era avvenuto, quella regione che in tempo di pandemia solo il web poteva rendere bianca, era diventata motore e guida, detonazione e determinazione, come capitava quando nell’antichità si agiva nel mondo reale in preda al più sfrenato dei nostri sogni, ed incredibile a dirsi il sogno diventava realtà. Ora questo avverarsi del sogno senza muoverci da casa ammantava la virtualità di ogni sorta di attributo antiquato e filisteo. Cioè la virtualità era diventata un concetto vintage da dismettere e buonanotte.

Ma vi rendete conto che questa fu una vera figata, una tana libera tutti, anche per noi povere residuate belliche di guerre inventate tra reale e virtuale, e non per via di internet. L’Italia territoriale e quella cittadina, e anche non cittadina della kultura, quella desertica e disertata, a volte inevitabilmente condizionata da un fare cultura così dipendente dalla necessità di consenso, ecco tutto questo non sarebbe esistito mai più. Ormai tutto, tutte, tutti eravamo realmente connesse e contente di partecipare nell’unico luogo in cui era permesso l’assembramento. Collegate all’altra dimensione, quella virtuale che aveva smesso di chiamarsi virtuale allora diventammo tutte reali, anche noi assillate dalla nascita dal dubbio che la poesia ci avesse reso inesistenti, e non dico socialmente (vi ricordate Emily che diceva di essere nessuno? Ecco, dico quello). Dunque fu allora che iniziammo ad andarci piano con l’aggettivo “virtuale” perché ci accorgemmo che questo non sminuiva più l’effettività di ciò che accadeva nei contesti lavorativi, culturali, relazionali, sociali dato che per il momento quelli ci toccavano solo virtualmente, pardon, interagendo ‘realmente’ online.

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La resistenza geniale

Quali sono quelle sfumature che con il silenzio portano i segreti a assumere la trasparenza della rimozione? Un segreto, a forza di essere mantenuto, rischia anche di sparire dall’orizzonte di chi l’ha concepito pur restando intessuto in filigrana come un agente atmosferico sospeso la cui elettricità è capace di condizionare in modo incontrollato gli elementi e i fattori climatici che l’atmosfera configurerà in seguito. 

Tengo un diario di lettura. Da molti anni. Alcuni anni l’ho tenuto su carta, altri sul telefonino poi sono passata all’Ipad per tornare infine su fogli volanti a quadretti con i buchi da inserire in raccoglitori preferibilmente arancioni o al massimo azzurro nazionale. Lo tengo, questo diario, da quando ho letto il primo libro che mi ‘ha cambiato la vita’. Almeno così me lo sono raccontato sul diario, questo libro, in una specie di delirio adolescenziale, in quanto poi di libri che mi avrebbero scatenato l’euforia descrittiva della lettrice in erba,  per fortuna c’è ne sono stati molti. Per tanti anni sono stata fieramente una lettrice e basta, e l’ho documentato, perché scrivevo poesia e questo per me era un’altra cosa dall’essere una scrittrice. 

Sono in possesso quindi di vagonate di appunti, domande, pensieri che quando poi i libri li ho iniziati a leggere con uno scopo preciso, in quanto mi serviva di leggerli per scrivere a mia volta, questi materiali sono diventate pagine in grado di raccontare su me e su ciò che vivevo in quei periodi, molto più di quello che immaginassi allora trascrivendo citazioni e chiosandole a me stessa.

Non so se vi è mai capitato prendendo in mano un libro che avete in casa da tanto tempo e che avete letto e amato in passato, di ricordare alcuni pensieri e alcuni episodi della vostra vita che scandivano il periodo della lettura di quel libro, come se fossero stati assorbiti nel testo, mutando insieme, quella storia e la vostra in modo che nessuna delle due per voi esista più in mancanza dell’altra. 

Uno dei molti libri con il quale mi è capitata questa eventualità è La resistenza perfetta di Giovanni De Luna che ho incrociato in un periodo in cui il ragionamento sul trauma di genere, epocale e collettivo, individuale e privato mi dava non poco filo da torcere dato che lo volevo rielaborare in una dialettica abbastanza credibile da essere riportata per iscritto. 

Giovanni De Luna scrive: “l’8 settembre 1943, appare come uno di quegli eventi storici che non si lasciano imprigionare in un’interpretazione esclusivamente politica, attraversati come sono da emozioni di massa in grado di lasciare affiorare nitidamente le pulsioni più oscure e gli slanci più profondi sedimentati alla base dell’esistenza collettiva di un popolo (…) Dissoltasi la crosta delle istituzioni, fu come se fosse saltato il tappo di roccia di un vulcano a lungo spento; nel magma che prese a fluire liberamente c’era di tutto, meschinità e generosità, grettezza individualistica e protagonismo collettivo, con una varietà di comportamenti che rinviava a tanti frammenti di appartenenze, segmenti di identità sociali, generazionali, professionali, territoriali. All’interno di quella nebulosa sociale che va sotto il termine riassuntivo di ceto medio, ad esempio, a prevalere fu una complessiva dimensione di precarietà esistenziale, di intollerabile, angosciosa convivenza con la morte.”

Allora mi venne in mente e lo appuntai che anche Elena Ferrante usa l’immagine del magma incandescente che scorre sotto il vulcano riferendosi alla tecnica di scrittura utilizzata per redigere la saga de L’amica geniale. Un’apparente calma che contiene a stento le più tremende fatalità. Un trauma e la sua rimozione significano il profilarsi all’orizzonte di una nube piroclastica, un’incontenibile fuoriuscita immersa nei fumi, per cui ogni forma di contenimento e ogni tentativo di orientamento hanno solo l’effetto di dimostrare l’inconsistenza dell’operato umano di fronte alla catastrofe.

Degli stessi anni, in uno di quei libri che segnano, Rossana Rossanda scriveva: “Oggi sappiamo che nel 1943 la guerra si poteva dire vinta, ma allora no. E che cosa avrebbe cambiato saperlo in quell’ottobre 1943? Radio e giornali rimandavano frammenti bugiardi, ce ne avevano dette di troppe, ci eravamo lasciati colpevolmente ingannare, e adesso neanche alla voce ottimista del colonnello Stevens eravamo disposti a credere senz’altro (…) Che roba è avere quindici anni nel 1939 e ventuno nel 1945?”                             

E io di seguito a questa citazione, parafrasando la mia maestra, scrivevo sul quaderno, rigirandomi in testa le parole trauma e rimozione che l’identità si lega alla memoria ma anche allo sforzo di ammettere nel quadro della propria memoria quegli elementi fastidiosi, ambigui, dimenticati perché rispetto a altri sono a volte quelli i responsabili di una svolta che potrebbe averci condotto dove non volevamo.  Ne L’amica geniale Lenuccia nonostante si sia impegnata per acquisire strumenti per la propria indipendenza di giudizio, sceglie inizialmente la scorciatoia del buon matrimonio.  Elena Greco è un personaggio di un realismo schiacciante ma della cui identità noi non sapremo mai perché è il risultato sul piano narrativo della labilità del confine tra due intendimenti esistenziali, quello che cerca strumenti per la propria indipendenza e quello che aderisce alle pratiche condivise, per quanto nuove, per quanto rivoluzionarie. Due orientamenti che nell’imbuto di anni ritratti da L’amica geniale, abbiamo visto diventare l’unica strada.        

“Per le ragazze del 1945” scrive Rossanda “la scelta fu il ritorno al modello familiare o l’abitudine a vivere divise in due fra groviglio interno e mondo di fuori. Non fra ragione e sentimenti – le passioni non appartengono ai soli sentimenti – ma fra vivere da donna e da persona. L’unità appartiene al femminismo, se pur c’è riuscito, perché occorre divincolarsi da radici secolari tentatrici e seduttive, riformularsi.”     

Un altro aspetto de L’Amica geniale da cui deriva in parte quell’effetto di immediata intensità che cattura lettrici e lettori, ci perviene dalle due vite di Lila e Lenuccia. Si tratta di due riepilogazioni biografiche magniloquenti che comunicano un sentimento del presente a posteriori che risulta inevitabilmente iperinclusivo. Il punto di partenza, quegli anni Cinquanta in cui le cose, dopo lo shock delle guerre e il disfacimento di un ordine imposto, avrebbero potuto prendere un corso che in linea teorica doveva concorrere alla precisazione di una futura identità nazionale dell’allora neonata Repubblica italiana.          

“Gli uomini in genere non amano le deduzioni euclidee, l’evidenza ci turba, sconvolge le nostre complesse architetture ideologiche. L’evidenza ci appare banale, al di sotto della soglia della nostra intelligenza mentre, al contrario essa è straordinariamente al di sopra. Fossimo stati capaci allora, voglio dire agli inizi degli anni Cinquanta, di aderire come un foglio di carta su un muro levigato alla “banalità” di ciò che accadeva sotto i nostri occhi! La banalità delle cose ci avrebbe repentinamente illuminato.” Quindi per Ermanno Rea, idolo dei miei vent’anni, è saper stare nella banalità del quotidiano più che il mondo delle idee, a salvarci. Chiudo il quaderno prima che mi inghiotta definitivamente. Dopo un dicembre molto piovoso, la prima metà di gennaio ha fatto freddo. Dopo tanti anni la magnolia stellata fiorisce per tempo e al mandorlo manca pochissimo. Nonostante il covid questo sembra essere il primo inverno normale dopo molti aridi e stranamente caldi. Passo e chiudo.

Libri citati in questo articolo

G. De Luna, La resistenza perfetta, Feltrinelli, 2015 p.35

R. Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Einaudi, 2007, p. 79-80 e 109-110

E. Rea Mistero Napoletano, Einaudi, Torino, 1995, p. 29

….

I 25 anni della SIL

Guarda tutti i video realizzati per l’occasione sul

canale YouTube

Il 2020 è stato anche l’anno in cui la Società delle Letterate ha compiuto un anniversario importante. Per i 25 anni della SIL, il direttivo ha immaginato un’iniziativa volta a superare in parte le inevitabili distanze imposte dalla pandemia. E’ stato chiesto alle socie di realizzare un breve video in cui ciascuna raccontasse la propria esperienza associativa. Le socie che stanno aderendo sono molte. Video come quelli di Elvira Federici, Silvia Neonato, Anna Maria Crispino e Paola Bono sono davvero in grado di comunicare tutta l’importanza di una realtà associativa femminista il cui fulcro è, ed è sempre stata, la letteratura ma anche la creatività femminile in tutte le sue forme. Mi fa piacere, a chiusura di quest’anno, condividere qui anche il mio contributo, e invitare chi fosse interessata/o a iscriversi al canale YouTube della SIL e a seguire il sito dell’associazione su cui sono segnalate iniziative, opportunità, contenuti e eventi legati all’universo variegato della SIL.

Soddisfazioni

L’altro ieri l’ANSA pubblica una notizia di grande interesse per me perché conferma un indirizzo di ricerca sull’opera di Elena Ferrante che ho fatto mio fin dal principio, in qualche modo intendendo chiaramente che il primo valore dell’opera di Ferrante, dopo quello letterario, fosse quello sociale e storico e che proprio questo tipo di valore avesse aperto la breccia di consenso più ampia, cioè quella dell’apprezzamento globale dell’opera di questa autrice italiana. (ANSA-XINHUA) – PECHINO, 22 Dicembre: “quattro libri cinesi e sei libri tradotti, tra cui ‘La Frantumaglia’ di Elena Ferrante, sono stati indicati come le 10 letture più apprezzate del 2020 dalla piattaforma cinese di recensioni Douban (…) Tra i sei libri tradotti ci sono “Ritorno a Reims” di Didier Eribon, che racconta la storia dello scrittore francese e della sua famiglia toccando questioni di classe, genere, politica, cultura e istruzione in Francia e un’antologia di 11 racconti del regista e scrittore sudcoreano Lee Chang-dong. E “La frantumaglia “, raccolta di corrispondenze, interviste e saggi della scrittrice italiana conosciuta con il nome di Elena Ferrante”. In uno dei capitoli de Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo che Il lavoro culturale (qui) ha pubblicato in anteprima all’uscita del mio libro in ottobre, traccio un parallelo tra l’opera di Elena Ferrante e quella di Didier Eribon e Annie Ernaux. Questo parallelo all’epoca della compilazione della mia monografia su Elena Ferrante è stato un azzardo, tra i tanti, dato che non c’erano altri riferimenti che potessero supportare l’ipotesi di questo confronto.

Una recensione di Elide Apice su Teatri e culture

dalla rubrica “letto per voi”

Un libro, questo della Scarinci, molto articolato, apparentemente complesso, ma decisamente fruibile, soprattutto a chi ha letto la produzione della Ferrante, ricco di citazioni letterarie e naturalmente aperto a diversi spunti di riflessione su un tipo di narrazione che mette al centro le donne.
Tanto si è detto della “invisibilità”, della Ferrante, una scelta, secondo la saggista, che crea un vuoto che viene riempito dalle donne protagoniste dei suoi romanzi, assunte ad esempio delle vessazioni subite dalle donne nel corso dei secoli.
Per tutte, violenze psicologiche e non solo dettate dalle convenzioni sociali e quindi familiari che hanno sempre impedito alle donne di esprimersi secondo le proprie volontà, di scegliersi il partner giusto, obbligate a obbedire tacendo e solo per una questione di genere”

Una recensione di Luciana Grillo su L’Adigetto

Storie di donne, letteratura di genere

Il libro di tutti e di nessuno Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo


“Chi ha letto i romanzi di Elena Ferrante non può non avvicinarsi con curiosità a questo saggio di Viviana Scarinci che non soltanto racconta l’intera produzione dell’autrice, ma ne spiega i rapporti con la cultura internazionale e ne descrive i successi, operando confronti, ad esempio con Virginia Woolf, e recuperando brani di interviste e di articoli della misteriosa scrittrice”

Scarinci segue il lungo fil rouge che ha tessuto l’autrice, partendo dai suoi primi scritti fino a «La vita bugiarda degli adulti», considera che sempre si incontrano ambienti umani e sociali assai diversi fra loro – basti pensare al binomio Greco-Airota nella quadrilogia e alla città di sopra e di sotto, ad Andrea, il migliore, e a sua sorella Vittoria, la peggiore nell’ultimo lavoro, – esamina il contesto storico in cui si sviluppano le storie, ritrova fra le pagine il boom economico, l’evoluzione del matrimonio, i problemi legati all’istruzione, alla migrazione, alla marginalizzazione.

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Parliamone!

Webinar. Società delle Letterate. Serie Netflix

La regina degli scacchi

5 dicembre 2020
17:00

60 minuti

Sta spopolando su Netflix una miniserie televisiva in sette puntate che in pochissimo tempo ha catturato l’attenzione di una quantità incredibile di pubblico, in prevalenza femminile, che grazie al passaparola ha divorato le puntate, appena sono state disponibili, a due o tre alla volta.

Società delle Letterate ha pensato di aprire un confronto tra amiche, letterate, lettrici e spettatrici non necessariamente iscritte alla SIL, per raccoglierne le opinioni, che in questi giorni si sono intrecciate in Rete. Volete partecipare?  

L’incontro è sabato 5 dicembre alle 17 e vedrà in apertura un dialogo tra Maristella Lippolis e Viviana Scarinci che preluderà agli interventi delle partecipanti.

Come si partecipa:

– inviare una email a societaletterate@gmail.com necessariamente contenente nome e cognome
– l’email deve avere come oggetto: regina degli scacchi
– entro il 4 dicembre riceverete in risposta il link per partecipare all’incontro

Viviana Scarinci

Sarà un’ottima occasione per rompere il ghiaccio dei primi nostri incontri pubblici online con SIL attraverso una chiacchierata su una serie TV davvero speciale

Maristella Lippolis ed io aspettiamo le socie SIL ma anche amiche e amici in un incontro aperto organizzato da Società delle Letterate su piattaforma ZOOM

Grazie al direttivo SIL!

Martedì 10 novembre la Società Italiana delle Letterate ha ratificato e reso operativo il mio ingresso nell’attuale direttivo.  Ringrazio la presidente Elvira Federici e le altre componenti: Marta Cariello, Maristella Lippolis, Loredana Magazzeni, Gabriella Musetti, Donatella Saroli. L’invito mi inserisce nel momento in cui la carica si è resa vacante per via di un membro dimissionario. Questa ulteriore possibilità di partecipazione mi ha portato a riflettere sulla mia effettiva efficacia nel ricoprire un ruolo attivo in SIL svolgendo un servizio così importante come quello legato alla comunicazione, tuttavia non discostandomi dalle ricerche, dai temi e dai linguaggi che mi appartengono da sempre, come quelli della critica letteraria e della poesia.

È un’identità di orizzonti quella che mi ha spinto a accettare di fare parte del direttivo SIL, la quale si basa su interessi comuni forti come quello legato alla questione problematica e annosa del canone letterario nel mondo dell’istruzione scolastica, allo studio delle genealogie femminili in ambito storico e letterario e all’interesse nelle frontiere di sostenibilità realisticamente raggiungibili per tutte e tutti, attraverso lo studio del pensiero ecofemminista. Sono questi i temi che mi spingono a credere di poter svolgere, insieme a questo direttivo, un lavoro di promozione del femminile davvero condiviso e fertile.

L’incarico oltre che onorarmi mi rende profondamente conscia dell’importanza e della responsabilità di un ruolo, come quello che mi si propone, cioè legato alla rappresentazione e comunicazione di SIL. Perciò fortemente impegnato sull’accuratezza di un linguaggio che rispecchi una pratica e una politica che a partire dalle modalità espressive e relazionali nonché dai temi scelti, renda evidente per contrasto quanto la disparità di genere e sociale si nutra di linguaggi, luoghi comuni e pigrizie culturali che creano mondi e relazioni su presupposti ogni giorno più irrealistici.

Concordemente al direttivo ritengo che in questo momento così difficile per tutte e tutti, la SIL possa e debba avvalersi dei molti contenuti, pratiche relazionali  e energie  che in venticinque anni  le socie hanno saputo mettere in circolo per affrontare e rappresentare la sfida proposta dalla complessità di ogni momento presente. È questa capacità che ha reso la SIL oggi più che mai riconoscibile  in quanto ente accreditato nella produzione creativa femminile in ambito italiano e internazionale, nonché nella cura, studio e promozione delle pratiche femministe. 

Per Carlo Bordini

Il ricordo più vivido che ho di Carlo Bordini è seduti a un tavolo di una trattoria i cui avventori eravamo solo lui ed io, nella cucina poco distante c’era gente che litigava in modo furibondo. Io avevo appena terminato una delle mie tirate tutte di un fiato. Gli raccontavo del perché avessi deciso di costituire autonomamente un fondo librario per dialogare con le scuole in quella provincia un po’ disgraziata. Lui si trovava lì con me perché attraverso Contemporanea Fondo Librario aveva appena partecipato a un incontro con ragazzi e ragazze di un liceo scientifico della zona che era anche il liceo in cui avevo studiato io

Era uno dei primi incontri che organizzavo e sarà stata l’emozione, o la stanchezza, ma dopo la mia tirata in quella trattoria, mi sono messa a piangere nella sala vuota mentre il litigio infuriava nelle cucine. Bordini non disse nulla. Prese la mia copia de “Il costruttore di vulcani” e si mise a disegnare sulla prima pagina del libro

Poi ci sono state molte altre occasioni di sentirci e di vederci. E di confrontarci sulla sua opera. Ci sono state molte occasioni in cui Carlo Bordini non ha esitato un attimo a supportare Contemporanea con la partecipazione della sua poesia e della sua persona alle mie iniziative

Stamattina quando ho acceso il cellulare, alla notizia della sua morte l’ho spento. Ed è rimasto spento quasi tutto il giorno perché mi è sembrato che stare zitti e non sentire nessuno fosse l’unica cosa fattibile. Ma poi mi sono ricordata di una delle sue poesie, quella che amo di più I gesti, di cui abbiamo parlato spesso. Così ho deciso di scrivere questo post perché stavolta non mi va di sbagliare gesto

I GESTI

di Carlo Bordini

Persone i cui gesti sbagliati tremano

un po’

Persone i cui gesti sbagliati. Ci sono persone

per cui

fare gesti è una cosa

difficilissima. Provano e

riprovano i loro

gesti sbagliati, e quando uno riesce sembra che tutti

riescano, ma la fila

più lunga è quella dei gesti

sbagliati, [che

fila interminabile!!

I gesti maldestri ripetuti

dopo tanti anni, i gesti

ripetuti per tanti

anni, i gesti comici,

i gesti un po’ suicidi.

i gesti interlocutori. I gesti

che non si fanno capire, le richieste

di aiuto

non accettate,

le richieste

maldestre,

continuate. le

richieste

suicide. I gesti goffi

un po’ vergognosi, blasfemi. I gesti

altezzosi, I

gesti

che non hanno peso o valore perché

maldestri, i gesti

tranquillamente maldestri, abitudinari,

i gesti

ironici.

I gesti

rassegnati

I gesti consapevolmente

goffi,

consapevoli

di essere

maldestri e goffi,

I gesti che

contengono

un’implicita

scusa

e quelli che fingono

di essere superbi

I gesti che

sanno

che non c’è niente da fare.

I gesti

silenziosi

che si

appartano

I gesti orgogliosamente

ben poco destri

I gesti di chi sa di essere maldestro

e fa dei gesti

per

allontanarsi

per non

figurare

I gesti

rassegnati

I gesti infastiditi

di chi sa di

essere goffo e di essere

considerato maldestro

I gesti straniti

di chi non sa bene

quello che fa

i gesti indispettiti

che chiedono solitudine

Oppure il gesto maldestro

definitivo, quello di non

comunicare più

di partire per la tangente per la propria

solitudine

e non comunicare più

più più

i tic

i piccoli tic

i gesti che cercano di allontanare

qualcuno

immaginato o

immaginario

il sapersi

giudicati

[da tutti]

il sapere che i propri gesti

sono

giudicati

I gesti di chi sente dentro

una debolezza

che gli rende difficile fare

qualsiasi gesto

il gesto silenzioso

come se volesse che gli altri capissero

ciò di cui ha bisogno

senza bisogno di muoversi

il gesto di non fare

nessun gesto

I gesti

immaginari

l’immaginare

di fare

un gesto

i gesti sott’acqua

fare dei gesti sott’acqua

indicando alla gente che passa

ma nessuno scopre il tuo dito

che si muove sott’acqua

I gesti estranei

c’è sempre qualcuno che guarda

i gesti che si fanno

e stabilisce che sono

maldestri folli pazzi goffi gratuiti

ridicoli

osservabili

c’è sempre qualcuno che stabilisce

che sei troppo magro

troppo grasso

un po’ troppo silenzioso

poco coerente,

un po’ strano

un po’ disturbato. [(detto

a voce bassa).],

un tipo poco

pratico

volenteroso ma

troppo solitario,

troppo introverso

troppo poco pratico

troppo poco sociale,

I gesti che evitano

la gente. I gesti che evitano

di esser visti. I gesti

che coprono, che cercano

di coprire.

I gesti che proteggono

istintivamente la faccia,

la testa le mani

la bocca, anche se

inconsapevoli

I tic

i tic un po’ ridicoli

I gesti inutili

La paura dei rumori. Il

desiderio

di non esser visti, il gesto

di coprirsi, il

desiderio di nascondersi, il

gesto di

coprirsi la testa. I gesti

di chi

ha la testa

da un’altra parte, il

gesto di coprirsi

la testa, la faccia,

la bocca, i gesti

illibati. I pensieri

illibati, i pensieri

candidi, virginali, illibati.

i gesti che fanno

il male senza saperlo


Nel 2017 ho avuto occasione di scrivere per “il lavoro culturale” un articolo che avrebbe introdotto un evento a lui dedicato presso la biblioteca consorziale di Viterbo. Di seguito l’introduzione e il link. Il pezzo uscì pochi giorni prima, l’evento andò benissimo, c’era moltissima gente, come capitava tutte le volte in cui Bordini presentava i suoi libri. Quel giorno a Viterbo Carlo vendette un sacco di copie ed era felice come un bambino.   


Con “Memorie di un rivoluzionario timido” (Luca Sossella Editore, 2016) il poeta Carlo Bordini si pone, anche dal punto di vista dello storico quale in effetti è, un interrogativo aperto sugli aspetti meno frequentati di quella rivoluzione che all’inizio degli anni Sessanta, a partire dal boom economico, dilaga in tutti gli aspetti della società civile italiana. Il risultato è un libro che esige un dialogo ulteriore con quanto è ancora rimasto vivo del senso della nostra provenienza collettiva. Qui l’articolo

Una recensione di Sara Marsico su Vitamine Vaganti

Marsico

SARA

Grazie infinite a Sara Marsico e al sito Vitamine Vaganti Toponomastica Femminile per questa lunga e empatica recensione a Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo

Più volte ci è capitato di fermarci a riflettere su certe affermazioni e reazioni delle protagoniste dei romanzi di Ferrante, anche dei primi tre che, come suggerisce Scarinci, si differenziano in parte dagli ultimi. Spesse volte si è avuta la tentazione di approfondire e fissare con lo scritto alcuni spunti e richiami di memoria che affioravano nella nostra mente, a proposito dei comportamenti delle nostre madri, di noi figlie, di alcune figure maschili di volta in volta prepotenti, sleali, oppure dolci e quasi sottomesse. Molti pensieri sono scaturiti in noi come corollari di quelli espressi dall’autrice invisibile, proprio come suggeriscono il titolo e le riflessioni di Viviana Scarinci, il cui saggio è un’indispensabile guida alla lettura consapevole dei romanzi, dei saggi e degli articoli di Ferrante. Leggi tutto
Dall’editoriale del n.87 della rivista online di Giusi Sammartino “La scrittura femminile, femminista e politica di Elena Ferrante, sulla quale troppo si è discusso, offuscandone proprio la sua corporalità, il suo essere anche corpo, è analizzata in un testo scritto con maestria da Viviana Scarinci e che l’autrice dell’articolo ci fa amare e riflettere”. Leggi tutto